La Cassazione conferma che il “like” su un post razzista è una chiara manifestazione di istigazione all’odio. Gli algoritmi utilizzati dai social network attraverso i “like” degli utenti iscritti favoriscono la diffusione dei messaggi con un click. Nota a Sentenza Cass. pen. sez. II ud. 06 dicembre 2021 (dep. 09 febbraio 2022), n. 4534
Analisi
La suprema Corte di Cassazione, sez. I penale, con la sentenza n. 4534, respinge il ricorso avverso una misura cautelare disposta dal Gip, per il reato di istigazione all’odio razziale. Il delitto contestato all’indagato è la violazione dell’articolo 604 bis c.p. rubricato “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa” poiché attraverso il suo pubblico apprezzamento attraverso un “like”, interagiva con una comunità sui social filo-neonazista, in cui uno dei fini principali, era la propaganda e l’incitamento all’odio razziale.
1A-Il caso
Prima di analizzare ciò che ha deciso la Suprema Corte, è utile partire dal fatto storico e cioè dall’attuazione dell’ordinanza in cui un utente si è visto applicare ai sensi dell’art. 282 c.p.p. “obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria”. La misura cautelare personale coercitiva dell’obbligo di firma ovvero consistente nel presentarsi innanzi all’autorità giudiziaria in determinati giorni ed orari prestabiliti è stata applicata all’indagato per il reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa di cui al 604bis c.p.
Lo stesso, durante il prosieguo delle indagini, si è rilevato intrattenere rapporti con alcuni utenti cardini dei gruppi di propaganda razziale sulle principali piattaforme social svolgendo la funzione principale di dedicarsi all’attività di “like” e rilanciare la condivisione dei loro post.
La difesa dell’indagato aveva eccepito e sostenuto che la mera attività di piacevolezza attraverso il “like” dei post, non poteva dimostrare altro che gradimento, senza dimostrare “l’appartenenza al gruppo né la condivisione degli scopi illeciti, soprattutto perché i contenuti graditi non sfociavano nell’antisemitismo e non andavano oltre la libera manifestazione del pensiero”.
Tale tesi difensiva non è stata accolta dalla Suprema Corte.
1B- Le motivazioni della Cassazione
La Cassazione nella sua funzione nomofilattica aderisce alle conclusioni già avanzate dal Tribunale del Riesame. Le evidenti e numerose manifestazioni di adesione e condivisione su tale tema sensibile, erano sufficienti per una diffusione intellettuale di contenuti discriminatori e negazionisti quali ebrei identificati come veri nemici e la Shoah indicata come menzogna madornale.
La suprema Corte, in riferimento ai reati sia di propaganda che di incitamento all’odio razziale, ha calcato la questione evidenziando su come si arrivi al concreto pericolo di diffusione e circolazione dei messaggi, evidenziando appunto, la modalità di funzionamento dei social e, in particolare di “Facebook”, focalizzando sul funzionamento dell’algoritmo che considera rilevanti i “like”. Un meccanismo che consente ai messaggi di raggiungere più persone grazie ad una maggiore interazione. «La funzionalità “newsfeed” ovvero l’elenco dei contenuti appena pubblicati ossia il continuo aggiornamento delle notizie – si legge nella sentenza – e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente è, infatti, condizionata dal maggior numero di interazioni che riceve ogni singolo messaggio».
Ebbene, la prima sezione penale ritiene che la “newsfeed” assume un ruolo importantissimo poiché fornisce ai membri iscritti al social network di essere in continuo aggiornamento sullo stato e sugli umori pubblicati continuamente sul proprio profilo social e di farlo conoscere a tutti i propri seguaci, colleghi, parenti, amici ed amici degli amici.
Pertanto, La Cassazione, con la sentenza n. 4534, respinge il ricorso contro una misura cautelare disposta dal Gip, per il reato di istigazione all’odio razziale.
2- Articolo 604 bis Codice Penale: Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”
Articolo 604 bis c.p.
“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito:
- a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;
- b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni.
Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale”.
Ebbene, la norma è stata inserita all’interno del codice penale grazie al d.lgs. del 1 marzo 2018 n. 21 introducendola nella sezione I bis dedicata ai delitti contro l’eguaglianza. I reati introdotti previsti e puniti dall’art. 604 bis c.p. sono reati c.d. comuni e di mera condotta, ovvero essi possono essere posti in essere da qualunque soggetto ed in aggiunta, essendo reati di opinione, sono intesi pertanto, come la fattispecie che incrimina la manifestazione, l’adesione, la condivisione di pensiero.
2A- Analisi della fattispecie
Il bene giuridico tutelato dalla norma è lapalissianamente quello di tutelare il rispetto della dignità umana e del principio di uguaglianza etnica, nazionale, razziale e religiosa. L’evento naturalistico rientra in tutte quelle ipotesi per cui viene commesso un “atto volontario” inequivocabilmente diretto all’affermazione di una prevalenza sociale di tipo razziale o nella provocazione di una differenza sociale dovuta ad inesistenti prevaricazioni sociali, etniche o culturali. L’evento giuridico che ne deriva è la sobillazione, l’eccitazione o il fomento che appartenere ad una etichetta sociale evidenza prevalenza razziale. permeazione l’assiduo pensiero. Si punisce quindi, qualsiasi condotta di propaganda sulla superiorità o sull’odio razziale, nonché l’istigazione e la propaganda di fatti o attività atte a provocare violenza per motivi etnici, razziali o religiosi. Ai commi successivi vengono inoltre vietate le associazioni istituite a tale scopo, punendo sia i meri partecipanti all’associazione, sia, in maniera più grave (analogamente alle norme sull’associazione a delinquere ex art. 416) gli organizzatori e promotori.
Rappresenta la più grave ed autonoma figura di reato quella di cui all’ultimo comma, che punisce la propaganda e l’istigazione di pensieri che possano concretamente creare il pericolo che derivi la diffusione di idee atte alla minimizzazione dei fatti storici elencati. Trattasi di reato di pericolo concreto, in cui il giudice deve valutare il pericolo di diffusione delle idee negazioniste.[1]
La definizione di propaganda assume al suo interno da un lato l’elemento della diffusività, e dall’altro quello dell’invito indirizzato ai terzi di manifestare il proprio consenso e di aderire a quelle idee. Di contro, L’istigazione invece, non si manifesta con il semplice sostegno o in una mera adesione, ma al suo interno presuppone una chiara attività diretta a convincere terzi a preporre in essere condotte violente e discriminatorie. L’oggetto giuridico posto a tutela dell’art. 604 bis c.p. si identifica con l’esigenza di tutela contro azioni discriminatorie fondate sulla razza, l’origine etnica o la religione di ciascun individuo.
Per ciò che concerne l’elemento psicologico del reato, gli elementi della propaganda e dell’istigazione alla commissione di condotte discriminatorie di cui al comma 1, lett. a) sono reati dove presupposto è costituito dal dolo generico. L’istigazione di cui al comma 1, lett. b), la commissione di atti di discriminazione, di violenza o di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi sono reati a dolo specifico[2].
Risulta chiaro che chi commette questo tipo di delitto, pone in essere una condotta caratterizzata da rappresentazione e volizione di commettere il reato. La raffigurazione e la volontà simboleggiano la presa di coscienza che si vuole demarcare una distinzione che in realtà non esiste se non nella magnificenza mentale che appare chiusura e non apertura.
Il “like” sui post sessisti, misogini, e soprattutto antisemiti, pubblicati sui social network è un grave indizio del reato di istigazione all’odio razziale. Il gradimento attraverso un “re-twitt”, una condivisione o anche un semplice “like”, infatti, non solo dimostra l’adesione al gruppo virtuale nazifascista, e a sua volta, contribuisce – grazie al famoso algoritmo su cui sono basati i social network – ad una maggiore diffusione del messaggio.
Il ruolo della P.G. e degli inquirenti è stato fondamentale, infatti, grazie al loro operato, sono riusciti a ricondurre nella persona dell’indagato, le azioni a lui riconducibili. La difesa dell’indagato, aveva fatto presente che i contatti fisici con i presunti aderenti all’organizzazione erano irrilevanti ai fini di un reato che scatta per la propaganda di idee on line e la diffusione di messaggi. Mentre i “like” erano semplice espressione di gradimento e non potevano dimostrare né l’appartenenza al gruppo né la condivisione degli scopi illeciti, soprattutto perché i contenuti graditi non sfociavano nell’antisemitismo e non andavano oltre la libera manifestazione del pensiero.[3]
3- Adesione, volizione e piacevolezza mediante il “like”
Preliminarmente, prima di esaminare la decisione della suprema corte, occorrerebbe specificare cosa si intende per “like”, la funzione da essa svolta e l’incidenza che assume l’algoritmo utilizzato dai social e di conseguenza la diffusione di argomenti per affinità manifestata attraverso il tasto “mi piace.”
L’azione volontaria del cliccare “mi piace”, ha la funzione di interagire che a sua volta comporta la condivisione di un’idea, di un messaggio, di una condivisione di foto o di un principio. Di contro, c’è anche da affermare che non sempre chi clicca su “mi piace”, interessa realmente l’idea o il principio che viene condiviso; questo perché a volte l’azione viene compiuta con leggerezza.
Il motivo dell’adesione mediante piacevolezza, viene compiuta solo per finto interesse, per ricevere magari un apprezzamento o serve solo a ingraziarsi la persona o la comunità che condivide, nel solo tentativo o speranza di essere notati e ottenere qualcosa in cambio.
Ebbene, occorre evidenziare che oltre al semplice “spolliciare”, l’azione che viene compiuta va oltre l’apprezzamento di un post, ma definisce noi stessi come persona, ci rappresenta e fa si che si porta a conoscenza il pubblico intorno a noi su cosa ci piace.
È un’affermazione forte che permette di delineare i gusti e gli interessi di una persona, e se magari si può ipotizzare che l’adesione ad un post può essere presa in modo leggero, bisogna tener presente che invece l’algoritmo dei social come ad es. Facebook, Instagram o Twitter, fa sì che le adesioni che piacciono vengono diffuse sul portale di ogni amicizia, facendo portare a conoscenza che si ha l’apprezzamento del proprio post.
Quello che invece occorre specificare, è che uno dei maggiori social network come Facebook, si basa proprio su questo principio, infatti, permette di delineare un target di interessi proprio in base alle affinità degli altri utenti ed aggiorna il nostro newsfeed, home o libreria, evidenziando cosa ci piace. Difficile mettere in dubbio sull’efficacia di questo algoritmo, perché è notorio che sia stato programmato in base a cosa viene indicato come preferenza e su quale elemento notiziale vogliamo essere avere contezza. È abbastanza chiaro che se clicchiamo “mi piace” sulla foto o sullo status di qualcuno, implicitamente vogliamo la stessa cosa, o comunque diamo il nostro assenso al suo pensiero.
Il “mi piace” o “l’iscrizione ad una pagina” è una chiara evidenza sociale di adesione. Chiara ed indissolubile. È una interazione che comporta la condivisione di un’idea, un messaggio o un principio. Costruire una “rete sociale” mediante l’ausilio dell’iscrizione alla pagina online o di un gruppo attraverso il social network, significa cercare consenso sociale di un individuo, oltre che l’aggiunta o la raffigurazione virtuale d’unione di persone.
Il click di consenso è un valore ricco di contenuto intrinseco, difatti, il classico “pollice in su” dice più di quanto si pensi. Si può lapalissianamente desumere, che può essere paragonato al gesto automatico dal valore generico di chiaro consenso, che indica l’essere d’accordo, gradevolezza, riconoscenza formale, il supporto che indica l’esserci per dovere, per non essere omertosi od omissivi.
Ebbene, una volta chiarito qual è il segnale di adesione che avviene con il “mi piace”, si specifica di fatto, le conseguenze giuridiche dell’adesione o la condivisione ad un post o un tweet di chiara matrice razzista.
La sentenza in calce.
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Cassazione Penale sez. II ud. 06 dicembre 2021 (dep. 09 febbraio 2022), n. 4534
Presidente: ZAZA CARLO
RITENUTO IN FATTO
- Con ordinanza deliberata il 25 giugno 2021 il Tribunale di Roma, adito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., ha confermato l’ordinanza con cui il GIP aveva applicato a OMISSIS la misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria in ordine al reato di cui all’art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (capo 1) e di quello previsto dagli artt. 604-bis e 604-ter cod. pen. (capo 2), escludendo l’aggravante di cui all’art. 604-ter cod. pen.
Secondo i giudici della cautela, le emergenze investigative costituiscono una piattaforma indiziaria sufficiente, per la sua gravità, per ritenere sussistenti entrambi i reati e di ascriverli al OMISSIS.
Il monitoraggio delle interazioni di tre distinte piattaforme social, non aventi natura privata, operanti su Facebook, VKontacte e Whatsapp, eseguito fino alle perquisizioni del 2019, aveva disvelato non solo .1a creazione di una comunità virtuale internet, denominata ” OMISSIS ” (0.A.R.), caratterizzata da una vocazione ideologica di estrema destra neonazista, avente tra gli scopi la propaganda e l’incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi, ma anche la commissione di plurimi delitti di propaganda di idee on line fondate sull’antisemitismo, il negazionismo, l’affermazione della superiorità della razza bianca nonché incitamenti alla violenza per le medesime ragioni.
Dalla medesima attività investigativa nonché da alcune conversazioni telefoniche era emerso che il OMISSIS aveva aderito al gruppo OAR, anche incontrando d persona alcuni dei principali esponenti (OMISSIS), e si era posto ripetutamente in contatto con le piattaforme social della comunità virtuale, attraverso l’uso di account a lui riconducibili, consentendo, con l’inserimento dei “like”, il rilancio di “post” e dei correlati commenti dal contenuto negazionista ed antisemita.
- Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il OMISSIS, per il tramite del difensore di fiducia, avv. OMISSIS, sviluppando due motivi di seguito enunciati nei limiti previsti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 604- bis cod. pen. e vizio di motivazione in merito alla ricorrenza della fattispecie delittuosa.
Il provvedimento non ha fornito una incisiva replica alle valutazioni difensive sul carattere lacunoso e scarno del compendio indiziario a carico del OMISSIS. Ha, infatti, continuato a valorizzare in chiave accusatoria i contatti fisici fra i presunti aderenti all’organizzazione, nonostante siano del tutto irrilevanti alla luce della tipologia dei reati contestati, che sanzionano esclusivamente la propaganda di idee on line e la diffusione di messaggi, nonché l’inserimento di soli “tre like” che costituiscono, al più, un’espressione di gradimento e non sono affatto dimostrativi né dell’appartenenza al gruppo né della condivisione degli scopi illeciti.
Il contenuto dei post nei quali il OMISSIS ha inserito il “mi piace” non sfocia mai nell’antisemitismo e non travalica i confini della libera manifestazione del pensiero. Nessun messaggio è idoneo ad influenzare il comportamento o la psicologia di un pubblico vasto e a raccogliere adesioni nei termini richiesti dalla giurisprudenza di legittimità, ampiamente richiamata, che ritiene necessario per l’integrazione del reato il pericolo concreto di comportamenti discriminatori.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al ritenuto pericolo di recidiva ed in ordine all’adeguatezza della misura cautelare applicata.
Il Tribunale ha ritenuto irrilevante lo stato di incensuratezza e non genuina la resipiscenza senza fornire adeguata giustificazione; non ha nemmeno indicato dati concreti ed oggettivi che rendano attuale ed effettiva l’esigenza cautelare di cui all’art. 274 lett. c) cod. proc. pen., finendo per assegnare all’applicata misura natura punitiva e non social preventiva.
Non sussiste alcuna correlazione, anche solo logica, fra l’obbligo di firma imposto al ricorrente e l’obbiettivo di evitare che lo stesso commetta ulteriori reati. La peculiarità della posizione del OMISSIS, il quale, oltre ad essere incensurato, ha contribuito in maniera assai limitata alla consumazione dei reati, giustificava una diversa valutazione in sede cautelare rispetto agli altri indagati, attinti da precedenti specifici e da un compendio indiziario ben più consistente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Entrambi i motivi non superano il preliminare vaglio di ammissibilità.
- Il primo motivo, relativo alla gravità indiziaria, non si confronta criticamente con il reale apparato argomentativo del provvedimento impugnato che, pertanto, risulta essere attinto da censure generiche o comunque tali da sollecitare apprezzamenti di merito, estranei al giudizio di legittimità.
Il Tribunale del riesame ha logicamente desunto l’appartenenza del OMISSIS alla comunità virtuale, avente gli scopi previsti dalla norma incriminatrice, non solo dai rapporti di frequentazione, fisici e ripetuti, con altri utenti, ma anche dalle sue plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi confluiti sulle bacheche presenti nelle piattaforme Facebook, VKontacte e Whatsapp dal chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza (si pensi all’identificazione degli ebrei come “il vero nemico” o al riferimento alla Shoà come ‘la menzogna più madornale che possano aver inculcato” o all’irrisione delle vittime dei campi di sterminio) e, ai fini tanto dell’integrazione delle condotte di propaganda quanto della individuazione nell’incitamento all’odio quale scopo illecito perseguito del gruppo, ha considerato concreto il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone, opportunamente valorizzando la pluralità di social network utilizzati e le modalità di funzionamento di uno di questi, Facebook, incentrate su un algoritmo che attribuisce rilievo anche alle forme di gradimento, i “like”, espressi dall’odierno ricorrente.
A quest’ultimo proposito, i giudici della cautela hanno precisato che la diffusione dei messaggi inseriti nelle bacheche “Facebook”, già potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone, dipende dalla maggiore interazione con le pagine interessate da parte degli utenti. La funzionalità “newsfeed” ossia il continuo aggiornamento delle notizie e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente è, infatti, condizionata dal maggior numero di interazioni che riceve ogni singolo messaggio. Sono le interazioni che consentono la visibilità del messaggio ad un numero maggiore di utenti i quali, a loro volta, hanno la possibilità di rilanciarne il contenuto. L’algoritmo scelto dal social network per regolare tale sistema assegna, infatti, un valore maggiore ai post che ricevono più commenti o che sono contrassegnati dal “mi piace” o “like”.
Completano, infine, la piattaforma accusatoria le conversazioni telefoniche che delineano la figura del OMISSIS quale appartenente alla comunità virtuale. In tale qualità, infatti, egli non solo ha ricevuto consigli per evitare l’acquisizione di prove compromettenti a suo carico (conversazione con OMISSIS il quale, già destinatario di attività di perquisizione e sequestri, lo esortava ad adottare specifiche misure cautelative per evitare di essere scoperto cancellando chat, rubriche ed altri interventi sul telefonino), ma è stato anche destinatario di specifici commenti da parte di un altro esponente, il OMISSIS, il quale aveva manifestato il suo personale compiacimento per la convinta adesione al gruppo da parte del OMISSIS.
- Il secondo motivo, relativo alle esigenze cautelari, è parimenti generico e, comunque, manifestamente infondato.
Il pericolo di reiterazione delle condotte delittuose è stato desunto da elementi concreti ed attuali, specificamente indicati, ossia dall’epoca assai recente di consumazione dei reati e della personalità del OMISSIS, il quale, ad onta della pregressa incensuratezza e nonostante la professione svolta, non aveva manifestato, nelle conversazioni intercettate, alcuna forma di ripensamento critico neanche dopo essere venuto a conoscenza delle perquisizioni eseguite nei confronti degli altri indagati nel 2019. Anzi, aveva continuato, seppure con maggiore prudenza, a gravitare nel contesto relazionale ed ideologico del movimento.
L’adeguatezza della misura dell’obbligo di firma a fronteggiare la delineata esigenza di cautela è stata plausibilmente ancorata alla spinta deterrente esercitata dai periodici contatti con l’autorità di polizia giudiziaria.
- Per quanto esposto, il ricorso manifestamente infondato in tutte le sue deduzioni, va dichiarato inammissibile con la conseguente condanna del proponente al pagamento delle spese processuali e, in relazione ai profili di colpa nella proposizione di tale impugnazione, anche al versamento di sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende, che si reputa equo liquidare in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
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Note
[1] https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-xii/capo-iii/sezione-i-bis/art604bis.html.
[2] https://www.iusinitinere.it/lart-604-bis-c-p-propaganda-e-istigazione-a-delinquere-per-motivi-di-discriminazione-razziale-etnica-e-religiosa-27988.
[3] https://www.ilsole24ore.com/art/e-istigazione-all-odio-like-post-razzista-AER3z9CB.
Foto copertina: Il “like” sui post razzisti