Economia, energia, sicurezza: l’Eurasia rappresenta uno spazio geopolitico strategicamente determinante.


 

Partiamo col definire cosa s’intende per Eurasia. Dal punto di vista geografico con la parola Eurasia facciamo riferimento al “supercontinente” ipotizzato dal geografo tedesco C. G. Reuschle (1858), cioè un’unica massa territoriale che va da Lisbona a Shanghai (o addirittura a Giacarta nell’accezione più ampia). Da un punto di vista geopolitico il campo, in un certo senso, si restringe ad un Asia centrale molto allargata, ma mantiene al suo interno gli attori principali: la Russia, la Cina e…Stati Uniti.
Basta leggere le potenze sopracitate per comprende che oggi, come ieri (Great Game docet), l’Eurasia rappresenta lo spazio/geopolitico strategico più importante del mondo.
Per la Russia l’Eurasia ha i confini di un’area che si identifica sostanzialmente con quella racchiusa entro i confini della Russia imperiale e, successivamente, dell’Unione Sovietica e della Comunità degli Stati Indipendenti, quindi parliamo di un territorio (in particolare l’area turanica) considerato non solo come “il giardino di casa” ma come anima stessa dell’identità russa. La Cina consapevole del proprio ritardo militare sul versante nell’Indo-pacifico in una contrapposizione con gli Stati Uniti, ha compreso che la penetrazione economica è l’arma più potente, puntando stavolta ad Ovest attraverso la Belt and Road Initiative che apre rotte alternative verso l’Occidente, fino all’Europa passando proprio per l’Asia centrale.
Gli Stati Uniti rappresentano l’unica potenza geograficamente fuori dalla partita ma dal punto di vista geopolitico direttamente chiamata in causa. Percependo le ambizioni russe e cinesi (ma non solo) come una minaccia alla propria egemonia, temono che le teorie “continentaliste” di Mackinder, secondo cui gli Stati che riescono ad imporre la loro egemonia sul continente eurasiatico prevalgono sulle potenze marittime, possano prima o poi diventare realtà, e sancire la fine dell’egemonia americana. Oltre i principali attori, tanti Paesi rappresentano spettatori molto interessati alla partita: dalla Turchia all’Iran, dall’Europa all’India
Come in una partita di poker la giocata è aperta e la posta in gioco altissima e sono tutti pronti (grandi e piccoli) a ricorrere a qualsiasi mezzo e giocarsi qualsiasi carta pur di restare seduti a questo tavolo.
E’ chiaro che la stabilità dipende sostanzialmente da tre fattori: quello economico, strategico militare e quello legato al terrorismo.
Il ritiro americano da Kabul dello scorso agosto ha rappresentato un forte scossone alla stabilità dell’intera area. Ma ha avuto una sua logica. Con un colpo solo Washington ha messo in discussione i tre fattori che determinano la stabilità di un area in cui hanno perso forse il loro appeal, lasciando agli altri la “patata bollente” e concentrarsi su altri scenari (vedi zona dell’Indi-Pacifico). L’Afghanistan torna ad essere un “buco nero” che rischia di risucchiare le potenze regionali costrette ora a garantire la sicurezza dei loro confini con un paese che potrebbe (ri)diventare la base del Jihadismo internazionale in Eurasia allargata che ha già di questi problemi. Dalla Russia alla Cina, dal Pakistan all’Iran, dall’India all’Europa fino agli Stati Uniti, la minaccia terroristica di matrice islamica rappresenta un rischio. Non dimentichiamo che la maggior parte dei foreign fighters che hanno ingrossato le fila dell’Isis e di Al Qaeda proveniva proprio dall’Asia Centrale e dal Caucaso. L’Asia centrale è di gran lunga la regione più colpita,3 con quasi 6.000 persone che hanno viaggiato: in particolare, fino a 2.500 dall’Uzbekistan, 1.500 dal Tagikistan, oltre 800 dal Kirghizistan, fino a 600 dal Kazakistan e fino a 500 dal Turkmenistan. Circa 1.000 volontari provengono sia dall’Asia orientale (quasi tutti dalla Cina)4 e Sud-Est asiatico.
Il contributo in termini numerici dato dai paesi dell’Asia centrale è paragonabile a quella dei maggiori contribuenti come la Turchia, la Tunisia, la Giordania, la Russia e Arabia Saudita. E non parliamo solo di “semplici” soldati, ma parliamo di persone che hanno raggiunto i ranghi più alti delle organizzazioni servendo come emiri o reggimenti guida. L’esempio più noto è probabilmente quello di un cittadino tagiko, il colonnello Khalimov, ex capo del reggimento OMON unità speciale della polizia russa, nominato ministro della Guerra dell’ISIS, come il caso Abū ʿOmar al-Shīshānī Abu Omar il ceceno nato Tarkhan Batirashvili nato in una regione orientale della Georgia al confine con l’Azerbaijan. E non è un caso che la propaganda del terrore, e qui arriviamo al terzo punto cioè il fattore economico, è stata particolarmente efficiente in Asia Centrale ed in particolare nella valle di Fergana, tra Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, dove i conflitti etnici e la diffusione di un Islam conservatore ed estremista unita alla povertà diffusa e la percezione (a torto o a ragione) di vivere in paesi dove la corruzione e il clientelismo rendono poco (o per nulla) credibile l’apparato statale, rendono l’area un bacino molto fertile per reclutare nuovi aspiranti jihadisti e di rendere la situazione potenzialmente esplosiva. Come conseguenza diretta, tutto ciò porta ad una massiccia migrazione interna ed esterna verso altre zone dell’ex spazio sovietico (in particolare Russia e Kazakhistan), verso l’Europa e verso gli Stati Uniti e in misura ridotta verso la Cina.
L’Eurasia resta quindi un’area strategica di fondamentale importanza per la stabilità mondiale. Ma tra le grandi contraddizioni, le differenze etniche, culturali e religiose, i problemi legali all’approvvigionamento idrico, una povertà dilagante, i diversi obiettivi delle grandi potenze (Vedi confronto Russia/Nato sulla “questione ucraina”), quanto può durare questa stabilità?