Da circa cinquanta anni stiamo assistendo ad una grave persecuzione perpetrata ai danni di un popolo annoverato tra i più oppressi al mondo: i Rohingya, la minoranza etnica musulmana che da secoli vive in Birmania, principalmente nello stato di Rakhine, sottostando ad un sistema simile all’apartheid.
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La popolazione Rohingya conta circa 1,1 milioni di persone, ma la Birmania (attuale Myanmar), un paese a maggioranza buddhista, si rifiuta di riconoscere i Rohingya come cittadini. I governi birmani, infatti, sostengono da sempre che i Rohingya siano immigrati irregolari del Bangladesh; i Rohingya, dal canto loro, dichiarano di essere i diretti discendenti dei mercanti islamici giunti in Rakhine nel VIII secolo.
Il mancato riconoscimento dei Rohingya quali cittadini della Birmania trova fondamento normativo nella legge sulla cittadinanza promulgata nel 1982, durante la dittatura militare di Ne Win, che non ha incluso la minoranza musulmana tra le 135 etnie nazionali.
A partire da quel momento i Rohingya sono diventati apolidi e di conseguenza vittime di politiche discriminatorie e di azioni violente da parte delle forze militari del Myanmar perché ritenuti una minaccia per la razza e la religione. Come scriveva Hannah Arendt, “Privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto, schiuma della terra”.1
L’incubo dei Rohingya affonda le sue radici nel 1948, quando la Birmania ha ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna. L’allora presidente Aung San aveva firmato il Trattato di Planglong2, promettendo autonomia alle diverse etnie, ad esclusione di alcuni gruppi etnici tra cui i Karen e i Rohingya.
Con un colpo di stato nel marzo del 1962, il governo democratico fu destituito e il potere passò nelle mani del generale Ne Win, che instaurò una dittatura militare.
In seguito alla rivolta 8888 del 1988, fu la volta del Consiglio di Stato per la Restaurazione della Legge e dell’Ordine che instaurò un nuovo regime militare.
Il periodo della dittatura militare in Birmania è giunto al termine nel 2011, quando il Consiglio è stato ufficialmente dissolto, in seguito al referendum costituzionale del 2008 e alle elezioni del 2010, che videro la vittoria dello ‘Union Solidarity and Development Party’.
Tuttavia, evidenti brogli elettorali e numerose irregolarità furono attestati: a molti prigionieri politici fu negata qualsiasi possibilità di partecipare, ad alcuni partiti etnici fu impedito di registrarsi e più di due milioni di elettori furono esclusi dal voto.
Nel 2015 ci sono state nuove elezioni parlamentari con la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia del leader Aung San Suu Kyi, che ha ricevuto la maggioranza assoluta dei seggi. Ciononostante, parlare di una vera e propria democrazia è ancora prematuro se si considera che la Costituzione approvata dalla Giunta Militare nel 2008, ed ancora vigente, prevede che il 25% dei seggi parlamentari sia riservato a membri dell’esercito e che ad essi spettino anche il Ministero degli Interni, della Difesa e degli Affari di Frontiera.
Ripercorrere brevemente l’evoluzione politica della Birmania era necessario per comprendere come la crisi dei Rohingya si collochi nell’ambito del delicato quadro istituzionale di questo paese e del suo lungo e doloroso processo di democratizzazione.
Tale instabilità politica si è tradotta inevitabilmente in una crisi dei diritti umani e i Rohingya sono tra coloro che ne hanno sofferto di più, pur non essendo gli unici. Per anni, i governi del Myanmar hanno portato avanti una vera e propria campagna persecutoria contro questa minoranza, provocando centinaia di morti e causando una profonda crisi migratoria nel sud-est asiatico.
Nel 1978, circa 200,000 sono fuggiti in Bangladesh per scappare da una brutale operazione di sicurezza (Nagamin) volta all’identificazione dei cittadini nel Rakine e all’espulsione degli immigrati illegali. L’operazione si tradusse in arresti arbitrari, omicidi, stupri, distruzione di moschee e confisca delle terre.
Nuovamente, all’inizio degli anni ’90, 250,000 Rohingya sono stati costretti ad emigrare in Bangladesh nel tentativo di fuggire da un’altra operazione militare (Pyi Thaya); lì sono stati accolti in campi profughi.
In entrambi i casi, il Bangladesh ha avviato un negoziato con le Nazioni Unite, per consentire ai Rohingya di rientrare in Rakhine. Questa politica di rimpatri denota il rifiuto della minoranza musulmana non solo da parte del Myanmar, ma anche del vicino Bangladesh.
I Rohingya -voluti da nessuno- si trovano condannati ad essere un popolo senza terra né diritti, relegati in campi profughi che non rispettano i minimi standard umanitari: scarse condizioni igieniche, unite alla mancanza di cibo e acqua, di accesso a cure mediche o istruzione. Ad aggravare la situazione, si aggiungono frequenti calamità naturali, come alluvioni e monsoni.
Coloro che sono rimasti in Myanmar, inoltre, sono soggetti a gravi limitazioni personali: non possono viaggiare senza un permesso speciale, non gli è consentito possedere terreni, non possono avere più di due figli, sono costretti ai lavori forzati e subiscono costantemente estorsioni.
A causa delle precarie condizioni dei Rohingya, manifestazioni di protesta sono presto divampate in tutto il territorio. La situazione è degenerata nel 2012 in seguito ad alcuni episodi di criminalità che hanno coinvolto persone di etnia rohingya: tre ragazzi furono accusati di stupro e omicidio ai danni di una donna buddhista. La tensione fra i Rohingya e la maggioranza buddhista è scoppiata in una serie di scontri violenti; circa 280 persone hanno perso la vita.
Le forze armate non hanno tardato a reagire, facendo scattare una dura rappresaglia che si è risolta con un esodo della comunità musulmana: 138.000 Rohingya furono segregati in campi e altri 150.000 scapparono in Bangladesh; un vero e proprio disastro umanitario ed il governo birmano fu stato costretto a dichiarare lo stato d’emergenza.
Le violenze si sono intensificate nuovamente nel 2017, quando alcuni membri dell’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), gruppo paramilitare vicino alla comunità musulmana, hanno attaccato diverse stazioni di polizia. L’esercito birmano, accusando l’ARSA di terrorismo, non ha esitato a reagire violentemente, distruggendo numerosi villaggi e causando un nuovo esodo; oltre 600mila Rohingya, tra cui soprattutto donne e bambini, hanno attraversato il confine con il Bangladesh.
La situazione ha destato l’attenzione della comunità internazionale, provocando forti reazioni; molti osservatori ONU hanno definito gli atti compiuti dai militari birmani come crimini contro l’umanità e di pulizia etnica. Al Consiglio di Sicurezza del 28 settembre 2017, Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha descritto la situazione dei Rohingya come “un incubo umanitario e dei diritti umani”.3
Di fronte ai numerosi richiami da parte dell’ONU, che ha ripetutamente chiesto l’interruzione di queste azioni di repressione, la leader Aung San Suu ha mostrato un atteggiamento difensivo e protezionistico, ridimensionando ciò che accade nel suo paese.
Il silenzio del premio Nobel per la pace dinnanzi a tali atrocità ha suscitato un’indignazione generale e dure parole di disapprovazione da parte dell’opinione pubblica.
L’ex Alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Ràad Al Hussein ha definito deplorevoli i tentativi della leader birmana di giustificare le azioni dell’esercito. In un intervento pronunciato in apertura della 36esima sessione del Consiglio Onu per i diritti umani, Zeid Ràad ha dichiarato che il dramma dei Rohingya è un “chiaro esempio da manuale di pulizia etnica” 4 e che l’operazione dell’agosto 2017, giustificata in reazione agli attacchi contro posti di polizia, è “chiaramente sproporzionata e priva di rispetto dei principi fondamentali del diritto internazionale”5.
Ad agosto 2018, una commissione indipendente incaricata dal Consiglio dell’Onu, ha stilato un rapporto frutto di circa 900 testimonianze registrate tra i sopravvissuti del massacro subito dai Rohingya nello stato del Rakhine.
Il rapporto, presentato al Consiglio di Sicurezza il 24 ottobre, chiede che i leader birmani siano oggetto di inchieste e processi per “genocidio nel nord dello stato di Rakhine, oltre che per crimini contro l’umanità e crimini di guerra negli stati di Rakhine, Kachin e Shan”6 e che il caso sia portato di fronte ad un tribunale internazionale. “La necessità militare non giustifica mai l’uccisione indiscriminata, lo stupro di gruppo, l’aggressione dei bambini e la distruzione di interi villaggi”7.
L’elenco delle persone sospettate comprende i principali generali della Birmania, tra cui il comandante Min aung Hlaing e finanche la stessa leader birmana, ritenuta colpevole di “non aver utilizzato la sua posizione de facto di capo del governo, né la sua autorità morale, per contrastare o impedire il dipanarsi degli eventi contro i Rohingya”. Le autorità civili birmane – il documento prosegue – avevano poco margine, ma “attraverso le loro azioni e omissioni, le autorità civili hanno contribuito alla commissione dei crimini atroci”8.
Il 30 ottobre 2018, è stato raggiunto un accordo tra Bangladesh e Myanmar che prevede un programma di rimpatri dei Rohingya nello stato di Rakhine. La prima serie di rientri avrebbe dovuto prendere il via il 15 novembre, ma così non è stato a causa delle proteste dei rifugiati nei campi che si rifiutano di tornare in Myanmar in assenza di garanzie.
Con le imminenti elezioni in Bangladesh, previste per il 30 dicembre, qualsiasi decisione in merito al rientro dei rifugiati è stata rimandata all’anno nuovo.
La scelta di rimpatriare i rifugiati non è stata affatto positivamente dalle organizzazioni umanitarie. Nello stato di Rakhine, infatti, non solo le persecuzioni sono lontane dal dirsi concluse, ma non è consentito un monitoraggio da parte di operatori umanitari e osservatori sui diritti umani; sarebbe, pertanto, difficile verificare la situazione di coloro che vi rientreranno.
Il direttore di Amnesty International per l’Asia orientale e sudorientale, N. Bequelin, ha sottolineato che “rimpatriare rifugiati in un luogo in cui i loro diritti saranno regolarmente violati e dove le loro vite saranno costantemente in pericolo è inaccettabile e incomprensibile” e che “il rimpatrio in questo momento non può avvenire in condizioni di sicurezza né di dignità e costituirebbe una violazione degli obblighi di diritto internazionale del Bangladesh.”9
Il rimpatrio forzato dei rifugiati viola infatti il principio fondamentale del diritto internazionale di “non-refoulement”, un precetto di diritto pattizio e consuetudinario cristallizzato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, il quale sancisce che “Nessuno stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. Un divieto assoluto che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, si applica indipendentemente dal fatto che la persona sia stata riconosciuta rifugiata e/o dall’aver quest’ultima formalizzato o meno una domanda diretta ad ottenere tale riconoscimento.
Il rimpatrio dei Rohingya potrà avvenire solo se le autorità birmane si adopereranno realmente per creare condizioni che garantiscano ritorni sicuri, volontari e dignitosi.
L’auspicio è che il governo del Myanmar, oltre ad assicurare tale condizioni, smetta di assecondare le politiche di persecuzione contro la minoranza musulmana ed incentivi piuttosto il rispetto dei diritti umani, ponendo definitivamente la parola fine all’incubo dei Rohingya.
Note
Foto copertina: CNN, “The Rohingya crisis”
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