Dalla tragedia del Rana Plaza alle lotte per gli aumenti salariali.
Salari da fame e zero garanzie sul lavoro rappresentano la normalità per i lavoratori, e intanto i profitti dei colossi della moda continuano a crescere.
La tragedia di Rana Plaza
Il 24 Aprile 2013 si consumò una delle tragedie più violente della storia dell’industria dell’abbigliamento: in Bangladesh, a Dacca, l’edificio del Rana Plaza crollò uccidendo almeno 1.134 lavoratrici e lavoratori della moda, con più di 2.500 feriti. Cinque mesi dopo, sempre nei sobborghi della città di Dacca, persero la vita a causa di un incendio altre 112 persone nell’edificio del Tazreen Fashion.[1]
Un prologo drammatico che fece da cassa da risonanza per l’innescarsi di quella forza propulsiva che diede il via alla lotta e alla denuncia di tutte quelle situazioni di sfruttamento e violazione dei diritti che logoravano le vite di coloro che lavoravano nell’industria dell’abbigliamento: Bangladesh, Skri Lanka, Cina, Pakistan, India, Vietnam, Myanmar.
Solo una lista parziale dei paesi che accolgono la stragrande maggioranza della forza lavoro tessile, da anni strutturalmente e sistematicamente sfruttata, sottopagata, violata, schiavizzata e privata di qualsivoglia diritto e sicurezza, al fine di soddisfare e compiacere i grandi leader della moda, i colossi della fast fashion (e non solo) il cui movente non può essere che la consueta tensione verso un profitto in eterna crescita.
Nuova forma di schiavitù?
Non è esagerato affermare che si tratti di schiavitù se poniamo la lente di ingrandimento sulla vita condotta da queste persone, i cui salari non possono essere remotamente considerati adeguati a condurre un’esistenza dignitosa, e le cui garanzie sul lavoro sono pressoché inesistenti. Di conseguenza, una requisitoria che denunci le gravi violazioni dei diritti umani si rende necessaria e inderogabile.
Si rese perciò essenziale quella terapia d’urto concretizzatasi nel Maggio dello stesso anno, che vide l’Alta Corte del paese adottare l’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh[2], sottoscritto da oltre 220 aziende tessili del paese e accordando un ruolo propulsivo all’Organizzazione Internazionale del Lavoro.
L’Accordo riuscì a garantire luoghi di lavoro più sicuri ponendo rimedio alla gran parte dei difetti di sicurezza riscontrati durante le ispezioni, ma essendo un programma quinquennale avrebbe dovuto cessare di essere operativo nel 2018.[3] In risposta a ciò, all’RMG Sustainability Council, organismo partecipato della Bangladesh Garment Manufacturer and Exporter Association, furono trasferite le funzioni e gli obiettivi delineati nell’accordo precedente.[4] Il nuovo Accordo di Transizione include disposizioni migliorative in merito al risarcimento per i lavoratori infortunati ed accorda una rinnovata importanza alla libertà di associazione sindacale, con lo scopo di garantire uno spazio entro cui la loro voce possa essere ascoltata e la loro sicurezza rispettata. In particolar modo questo secondo punto diventa cruciale nella misura in cui la paura di esporsi o di rifiutare un lavoro non sicuro potrebbero portare ad un ritorno al passato, rendendo le aziende più inclini a riadottare condotte nocive.
Nel 2016 e nel 2017 assistiamo ad altri due incidenti nelle fabbriche di Tampoco e MultiFabs, i cui incendi provocano ulteriori morti di lavoratori e lavoratrici bengalesi.[5] In risposta ad un problema strutturale apparentemente senza fine, le autorità nazionali ed internazionali si mobilitano ulteriormente con il coinvolgimento attivo e la partecipazione di organizzazioni come l’IndustriALL Global Union e la Clean Clothes Campaign[6], il cui attivismo è tutt’oggi imprescindibile e che porta luce su questioni di sfruttamento nel settore tessile in tutto il mondo.
Nel 2019 tracimano le proteste in risposta alle nuove direttive sul salario minimo, che prevedevano un aumento discreto solo per i nuovi lavoratori assunti, lasciando di fatto invariato il salario per coloro con maggiore anzianità. Dopo mesi di proteste e 8 giorni consecutivi di dimostrazioni represse dalla polizia il Ministro del Lavoro del Bangladesh annuncia un aumento salariale per i 4 milioni e mezzo dei lavoratori del tessile, settore trainante dell’economia del paese. Una volta tornati in fabbrica, licenziamenti arbitrari, minacce fisiche e verbali a lavoratrici e lavoratori per far sì che le proteste cessassero.
Il Primo Ministro Sheikh Hasina, ormai in carica da quattro mandati consecutivi, si vede di conseguenza costretta a soddisfare le richieste della forza lavoro tessile, perlopiù perché accusata dalla gogna della comunità internazionale e dalle associazioni per i diritti umani che palesano le violenze e la repressione adottate dal governo.[7]
L’aggravarsi della situazione durante l’emergenza sanitaria del Covid-19
Tuttavia, queste concessioni obbligate e di facciata hanno avuto vita breve, mostrandosi per ciò che erano a partire dall’inizio della crisi pandemica nel Marzo 2020: fumo negli occhi necessario a dare al governo bengalese quel consenso imprescindibile per rimanere al potere col benvolere della popolazione.
Con la pandemia assistiamo infatti ad un ritorno alle origini sfruttatrici della catena di produzione nel settore dell’abbigliamento, che vede in una forza lavoro sottopagata e priva di protezioni sociali la sua quintessenza. Campagne come Labour Behind The Label[8] ed il Bangladesh Center For Workers Solidarity si pongono tutte lo stesso obiettivo di far valere i diritti dei lavoratori nel tessile facendo pressione affinché le condizioni sul posto di lavoro vedano davvero un miglioramento, sensibilizzando di pari passo la comunità internazionale. I cambiamenti promessi dai grandi brand della moda si sono rivelati essere uno specchietto per le allodole quando a partire dalla crisi sanitaria essi hanno deciso letteralmente di lasciare i propri lavoratori morire di fame.
Un’intervista del Worker Rights Consortium a quattrocento lavoratori del settore mostra come coloro i quali non hanno perso il posto di lavoro hanno visto un calo dei redditi del 21% solo nel periodo tra Marzo e Agosto 2020.[9] La crisi pandemica ha in aggiunta sospeso l’operatività del RSC e dell’Accordo del 2019, lasciando un vuoto normativo che senza troppe difficoltà darà man forte alle aziende nell’obiettivo di continuare ad ignorare le tutele necessarie per i lavoratori e di garantire condizioni contrattuali dignitose.
Di qui l’urgenza di concludere un accordo internazionale giuridicamente vincolante che abbia lo scopo di responsabilizzare e rendere obbligatorio l’impegno da parte dei datori di lavoro di dare seguito alle promesse fatte in passato.
Il rallentamento della produzione causato dal deficit di materie prime provenienti dalla Cina ha portato l’industria a vedersi cancellati gli ordini da parte di acquirenti occidentali, di fronte all’inerzia delle aziende. Queste ultime si sono rifiutate di pagare gli ordini già in lavorazione e giocando al ribasso sui prezzi hanno lasciato ai partner commerciali poco margine per il pagamento delle retribuzioni durante l’emergenza sanitaria.[10]
Il 19 Maggio 2021 i leader delle aziende dell’abbigliamento si sono riuniti per la Global Fashion Agenda ed hanno discusso in merito ai rischi cui sono esposti lavoratrici e lavoratori nel settore.[11] Sarebbe d’obbligo che essi non si nascondano dietro l’ipocrita facciata di quell’attivismo performativo il cui leitmotiv è quello di promettere a parole garanzie che poi non vengono mai accordate nei fatti. Sarebbe inoltre d’obbligo che essi non occultino le loro vere intenzioni, evitando l’uso dell’espediente del social washing e del green washing: l’arte di imbrogliare i consumatori e più in generale il pubblico dando loro un’immagine reputazionale dell’azienda positiva in merito al rispetto di questioni sociali, ambientali e sui diritti umani, ma il cui movente primo è il ritorno economico.
La necessità di un’azione collettiva
La cintura industriale tessile che unisce la capitale Dacca alle cittadine adiacenti può essere considerata il cuore della produzione di capi d’abbigliamento, che vede nella forza lavoro femminile, molto spesso giovanissima, la sua principale macchina motrice. Peraltro, questa situazione è estendibile a molti altri paesi dell’Asia.
Sono decenni ormai che lavoratrici e lavoratori della moda vedono calpestato il diritto ad una giusta retribuzione e a garanzie assicurative sul posto di lavoro, e allo stesso modo la minaccia della perdita dell’unica fonte di sostentamento costringe loro all’accettazione di vere e proprie forme di lavoro forzato, di schiavitù sotto mentite spoglie.
La tipica giornata in fabbrica dura più di quello considerato accettabile, nella gran parte dei casi non si ha a disposizione una pausa, ed è consentito di tornare a casa solo dopo aver finito il lavoro extra, che si protrae anche fino a tarda notte.[12] La stragrande maggioranza afferma di non riuscire a portare avanti la famiglia, il cui onere spesso ricade sulla donna. Il salario accordato altrettanto reiteratamente è adeguato forse a sopravvivere ma non a vivere. Così come ricorda l’Asia Floor Wage Alliance, 1181 dollari corrisponderebbero al salario minimo necessario affinché lavoratori, inclusi i membri delle loro famiglie, riescano a soddisfare le esigenze base in termini di nutrizione, salute ed educazione.[13]
Verosimilmente, lo stipendio percepito non supera i 200 dollari al mese, una cifra che palesemente non si avvicina ad una paga adeguata, imponendo alle famiglie tagli a spese essenziali come quelle riguardati l’alimentazione, l’affitto e la cura dei figli. Tutto ciò, al netto delle conseguenze ambientali che una produzione smodata possa causare.
I colossi della moda fast fashion come H&M, Zara, Primark, Nike, Adidas ma anche i grandi marchi di lusso come Hermes, Burberry e Kering, esemplificazione di quell’industria che ha le sue radici nel colonialismo, dovrebbero cominciare a retribuire come da dovere, e mettere fine al ladrocinio che da sempre li rende colpevoli in un sistema che sfrutta e sottopaga i lavoratori oltre il limite dell’accettabile.
Così come dovrebbe essere messo in moto uno sforzo collettivo affinché un accordo vincolante sia raggiunto, non lasciando più carattere volontaristico alla creazione di un sistema di protezione sociale imprescindibile. Come afferma il Better Work, partenariato tra l’OIL delle Nazioni Unite e l’International Finance Corporation, bisognerebbe tendere ad uno sforzo comune che unisca governi, brand, proprietari di fabbriche e lavoratori per creare un impianto che dia risposta alle esigenze di lavoratrici e lavoratori.[14]
D’altra parte, noi consumatori possediamo un potere che spesso non rammentiamo e che consiste nella capacità di attivarsi per far conoscere questa realtà a chi ne è più distante, e nel non contribuire ad alimentare la logica di profitto che in questo caso va di pari passo con lo sfruttamento di persone e ambiente.
Dovremmo in conclusione chiederci quale è il costo reale che si cela dietro un capo di abbigliamento, non capitolando mai di fronte alla necessità di conoscere come questo sia stato prodotto, da chi e calpestando quali diritti.
Note
[1] International Labor Organization, The Rana Plaza Accident and its aftermath https://www.ilo.org/global/topics/geip/WCMS_614394/lang–en/index.htm
[2]https://www.osservatoriodiritti.it/wp-content/uploads/2019/01/Bangladesh-tessile.pdf
[3] Felicia Buonomo, Bangladesh: mobilitazione globale contro lo sfruttamento nel tessile. Osservatorio Diritti, 31 Gennaio 2019 https://www.osservatoriodiritti.it/2019/01/31/bangladesh-tessile-economia/
[4] Campagna Abiti Puliti, Rana Plaza al tempo della pandemia: continua la lotta per i diritti dei lavoratori, 2020 https://www.abitipuliti.org/azioni-urgenti/rana-plaza-bangladesh/rana-plaza-al-tempo-della-pandemia-continua-la-lotta-per-i-diritti-dei-lavoratori/
[5] Op. cit.
[6] Per approfondire visitare il sito https://cleanclothes.org/
[7] Giuliano Battiston, Anche in Bangladesh la lotta paga: aumentati i salari. Il Manifesto, 16 Gennaio 2019 https://ilmanifesto.it/anche-in-bangladesh-la-lotta-paga-aumentati-i-salari/
[8] Per approfondimenti https://labourbehindthelabel.org/
[9] Tansy Hoskins, openDemocracy, Stati Uniti, L’industria dell’abbigliamento ha tradito la sua forza lavoro. Internazionale, 5 Febbraio 2021 https://www.internazionale.it/notizie/tansy-hoskins/2021/02/05/industria-abbigliamento-operai
[10] Op. Cit.
[11] Instagram, Campagna Abiti Puliti https://www.instagram.com/campagna_abiti_puliti/?hl=it
[12] Rajini Vaidyanathan, Indian factory workers supplying major brands allege routine exploitation. BBC News, 17 Novembre 2020 https://www.bbc.com/news/world-asia-54960346
[13] Per approfondimenti visitare il sito dell’Asia Floor Wage Alliance https://asia.floorwage.org/
[14] Per approfondimenti visitare il sito https://betterwork.org/
Foto copertina: Giovane donna bengalese al lavoro in una azienda tessile.Mahmud Hossain Opu