La presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan e gli interessi statunitensi


A cura di Laura Perna

Quando i talebani conquistarono l’Afghanistan gli Stati Uniti sembravano essere favorevoli al nuovo regime. L’apparente riconoscimento statunitense derivava da valutazioni politiche. In primo luogo, il movimento avrebbe potuto limitare l’influenza iraniana. In secondo luogo, negli anni Novanta si erano scoperti giacimenti di petrolio e di gas naturale nei territori del Turkmenistan, del Kazakistan e dell’Uzbekistan, i quali resero tutta l’area rilevante in un’ottica geostrategica.
L’Unocal, la principale multinazionale petrolifera degli Stati Uniti, iniziò a collaborare con l’Afghanistan e l’amministrazione statunitense, per diversificare le fonti di approvvigionamento, inserì tra i propri interessi geopolitici la realizzazione di un gasdotto e di un oleodotto per collegare il Turkmenistan con il Pakistan passando per l’Afghanistan.

Il progetto fu presentato nel 1994 e l’anno successivo il Presidente turkmeno e l’Unocal firmarono due accordi. Il piano di connessione avrebbe rappresentato un’opportunità anche per il Pakistan in termini di accesso a nuove fonti e a investimenti esteri e l’unico ostacolo alla realizzazione del programma era il raggiungimento della pace nel territorio afghano che, tuttavia, il movimento talebano non riuscì a garantire[1]. Al contrario, il regime portò ben presto gli Stati Uniti e l’amministrazione Clinton a prendere le distanze dai talebani, anche in questo caso, per ragioni strategiche.

Il sostegno dell’Afghanistan a Osama bin Laden

Nel 1996 il mullah Omar offrì un rifugio ad Osama bin Laden che, su pressione degli Stati Uniti, fu costretto a lasciare il Sudan a seguito degli attacchi alle centrali di al-Qaeda.
Il livello di indipendenza dal contesto esterno che era stato raggiunto dai talebani permise di ignorare la richiesta di Washington di consegnare bin Laden.
Sotto l’influenza del leader dell’organizzazione terroristica, tra l’altro, in Afghanistan si radicò quell’ala conservatrice vicina ad al-Qaeda che, tuttavia, rispetto alle mire espansionistiche di quest’ultima verso i paesi limitrofi, muoveva dalla volontà di conquista interna delle 34 province afghane.
All’ospitalità offerta al capo dell’organizzazione terroristica seguì l’assassinio di Ahmad Shah Massoud, comandante dell’Alleanza del nord, per mano di al-Qaeda. L’omicidio causò un indebolimento della resistenza, grazie al quale bin Laden si garantì il sostegno dei talebani negli attacchi alle Torri gemelle[2].
Tuttavia, tale appoggio rappresentò un prezzo molto alto per il mullah e i suoi seguaci: se Bill Clinton affermò che l’opportunità di catturare bin Laden fosse stata bruciata dal rischio di distruggere Kandahar e uccidere centinaia di civili[3], l’approccio del successivo Presidente George W. Bush non fu lo stesso.
Nel discorso alla Nazione dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 si legge infatti: “Le nazioni che danno aiuto o un porto sicuro al terrorismo saranno perseguite. Ogni Paese, in ogni regione, ora deve prendere una decisione. Stare con noi o con i terroristi. Da oggi in poi ogni Paese che continuerà a ospitare o aiutare terroristi sarà considerata dagli Stati Uniti come regime ostile” (George W. Bush).
Si trattava di un chiaro riferimento all’Afghanistan e di lì a poco avrebbe giustificato l’inizio dell’Operation enduring freedom, la missione statunitense iniziata il 7 ottobre 2001 contro i talebani afghani ed i rifugi di al-Qaeda nel nord-ovest del Pakistan, nelle Filippine, nel Corno d’Africa e nel Trans-Sahara[4]. La missione diede inizio alla guerra istituita da una risoluzione congiunta “per autorizzare l’impiego delle Forze Armate degli Stati Uniti contro i responsabili dei recenti attacchi sferrati contro gli Stati Uniti[5]”.

Gli attentati dell’11 settembre 

L’11 settembre 2001 al-Qaeda colpì gli Stati Uniti in un attentato senza precedenti, che diede simbolicamente inizio al terrorismo internazionale. L’attacco prevedeva il dirottamento di quattro aerei commerciali: alle 8:45 del mattino (orario statunitense) un primo aereo si schiantò contro una delle torri del World trade center di New York e dopo venti minuti un altro aereo si abbatté sulla seconda; circa quaranta minuti più tardi fu colpito il Pentagono[6] e l’ultimo aereo si schiantò in un campo a Shanksville, in Pennsylvania.
Nell’attentato alle Torri gemelle persero la vita circa 3000 persone provenienti da oltre 80 nazioni[7], così come dichiarò il Presidente Bush. Nessuno dei dirottatori era di nazionalità afghana, ma dopo l’ennesimo rifiuto dei talebani di estradare bin Laden, Bush trasformò in legge la risoluzione congiunta (vedi n. 5) che autorizzò l’invasione dell’Afghanistan.

Leggi anche:

L’inizio di Enduring freedom e il sostegno della Comunità internazionale

Con l’Operazione enduring freedom, ebbe inizio la guerra più lunga della storia degli Stati Uniti.
L’esercito statunitense, insieme alle forze britanniche e con il sostegno dell’Alleanza del Nord e delle milizie pashtun anti-talebane, avviò una campagna di bombardamenti in Afghanistan.
Nonostante gli obiettivi della missione fossero demolire le basi militari di al-Qaeda e sovvertire il regime talebano, senza alcun riferimento alla promozione e allo sviluppo dello Stato di diritto, ci si rese conto che l’istaurazione di un governo democratico (e amico), capace di soddisfare le necessità di tutta la popolazione, era necessario affinché si potesse arrestare il fenomeno del terrorismo.
Sebbene l’operazione non prevedesse né l’esplicito utilizzo della forza, né alcun riferimento al Capitolo VII della Carta delle Nazioni unite relativo alla risposta alle minacce alla pace e alla sicurezza internazionale, l’amministrazione statunitense richiese il sostegno delle Nazioni unite, le quali, con risoluzione 1368[8] del 12 settembre 2001, in ottemperanza al diritto di autodifesa individuale o collettiva sancita dalla Carta ONU:

“Expresses its readiness to take all necessary steps to respond to the terrorist attacks of 11 September 2001, and to combat all forms of terrorism, in accordance with its responsibilities under the Charter of the United Nations[9]”.

Il piano d’azione strutturato dalle forze americane prevedeva attacchi aerei sulle posizioni talebane per permettere l’avanzata dell’Fronte unito. Durante la fase iniziale dell’operazione i bombardamenti si concentrarono principalmente su obiettivi prefissati a Kabul e Kandahar, quali aeroporti, bunker, centri di comando e campi di addestramento; dopo i primi dieci giorni, l’offensiva individuò obiettivi emergenti, tra i quali anche i veicoli talebani in movimento o i leader di al-Qaeda[10].
Le operazioni tattiche permisero di indebolire l’organizzazione terroristica alla base, grazie al dispiegamento di forze aeree e navali consistenti, tuttavia, determinando la distruzione di intere città.
All’inizio del dicembre 2001 i principali bersagli scelti erano stati colpiti, ma già nel mese successivo all’inizio dell’operazione i talebani erano stati affievoliti, soprattutto dopo la caduta a Mazar-e-Sharif il 9 novembre per mano di forze fedeli all’uzbeko Abdul Rashid Dostum, a cui seguirono cronologicamente gli attacchi dell’Alleanza del Nord alle fortezze di Taloqan, Bamiyan, Herat, Kabul e infine Jalalabad.

Conclusione

Il 9 dicembre 2001 fu segnata la fine dell’Emirato islamico; tuttavia, i talebani non furono mai realmente sconfitti. La politica dichiaratamente militare di Bush portò caos, morte e devastazione nel paese centro-asiatico, ma non riuscì a debellare il fenomeno terroristico a causa della mancanza, o dell’insufficienza, delle misure di nation-building volte al rifacimento di uno Stato democratico. Ne derivò che, sebbene non fosse un obiettivo di Enduring Freedom, l’ossessione statunitense di “esportare la democrazia” fu minata dallo scarso interesse concreto verso la ricostruzione delle istituzioni e delle infrastrutture afghane necessarie alla promozione e al mantenimento della pace, che di fatto lasciò il paese in una condizione di perpetua instabilità.


Note

[1] E. GIUNCHI, Afghanistan. Da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, Roma, 2021, p. 110.
[2] Council on foreign relation, The U.S. War in Afghanistan 1999-2021. Consultabile al link: https://www.cfr.org/timeline/us-war-afghanistan.
[3] IlPost, “Perché Bill Clinton non ha ucciso Osama bin Laden”, 1 agosto 2014. Consultabile al link: https://www.ilpost.it/2014/08/01/bill-clinton-l11-settembre-osama-bin-laden/.
[4] Quotidiano nazionale, “Il presidente George W. Bush e il discorso per l’attentato alle Torri Gemelle”, 8 settembre 2021. Consultabile al link: https://www.ilgiorno.it/mondo/11-settembre-discorso-bush-1.6778958.
[5] Joint Resolution, Public Law 107-40, 107th Congress, Page 115 STAT. 224, DOCID: f: pub l040.107. Consultabile al link: https://www.govinfo.gov/content/pkg/PLAW-107publ40/html/PLAW-107publ40.htm.
[6] Ministero dell’Interno, La ricostruzione degli avvenimenti, I dati salienti di quel tragico 11 settembre 2001, Archivio storico. Consultabile al link: https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/notizie/antiterrorismo/app_notizia_17353.html.
[7] The White House, Address to a Joint Session of Congress and the American People. Consultabile al link: https://georgewbush-whitehouse.archives.gov/news/releases/2001/09/20010920-8.html.
[8] United Nations, Security council, Resolution 1368 (2001) Adopted by the Security Council at its 4370th meeting, on 12 September 2001, S/RES/1368 (2001).
[9] “Esprime la sua disponibilità a prendere tutte le misure necessarie per rispondere agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e per combattere tutte le forme di terrorismo, conformemente alle sue responsabilità ai sensi della Carta delle Nazioni Unite”. United Nations, Security council, Resolution 1368 (2001) cit.
[10] G. BEREITER, The US Navy in Operation Enduring Freedom, 2001-2002, in Naval History and Heritage Command, 2016. Consultabile al link: https://www.history.navy.mil/research/library/online-reading-room/title-list-alphabetically/u/us-navy-operation-enduring-freedom-2001-2002.html.


Foto copertina: George W. Bush con Hamid Karzai, allora presidente ad interim dell’autorità afghana. Fotografia: Mark Wilson/Getty Images