L’importante sentenza in commento rievoca ed analizza i principali approdi interpretativi e normativi in tema di rilevanza penale della condotta del sanitario.


La vicenda giudiziaria da cui trae origine l’opera di ricostruzione della Cassazione[1] ha riguardato il decesso di un paziente e la successiva condanna della Corte di appello di Catania di uno specialista radiologo e di un medico di pronto soccorso per omicidio colposo ex art. 589 c.p. 
In particolare, i giudici di seconde cure hanno individuato il perché della morte nelle condotte negligenti e imperite degli imputati, nonché nella ricorrenza della colpa grave “stante la ragguardevole deviazione rispetto all’agire appropriato, quale definito dalle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento”.
Come corollario di tale qualificazione, la Corte territoriale ha ritenuto non applicabili al caso di specie le normative di cui alla legge n. 189/2012[2] ed all’art. 590sexies c.p.

La Cassazione in esame, quindi, dopo aver rilevato l’avvenuto decorso del termine di prescrizione, al fine di sottoporre a ponderata critica lossatura motivazionale proposta dalla Corte di appello, compie un ampio excursus relativo allo stato dell’arte in tema di responsabilità penale del medico.
L’opera di sintesi incomincia dalle innovazioni introdotte dalla richiamata c.d. legge Balduzzi.
Com’è noto, tale normativa ha dato luogo a una pluralità di difficoltà interpretative, affrontate a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha enucleato importanti indicazioni.
Tra queste, la Cassazione segnala: la limitazione dell’addebito penale nei confronti del medico alle “ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica diversa dall’imperizia”[3]; la parziale abolitio criminis degli artt. 589 e 590 c.p. per effetto dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi[4]; in tema di ripartizione dell’onere probatorio, il dovere per la pubblica accusa di provare la rilevanza penale del fatto derivante da una condotta connotata dal mancato rispetto delle linee guida pertinenti al caso concreto, ovvero contraddistinta da colpa grave.
Successivamente, il quadro normativo di riferimento è profondamente mutato per effetto della c.d. legge Gelli-Bianco[5] del 2017.
Tra le molteplici novità, la Corte evidenzia quella relativa all’introduzione nel secondo comma dell’art. 590sexies c.p. di una specifica causa di non punibilità per il sanitario, riguardante i soli casi connotati da imperizia derivante da colpa lieve.
La Cassazione, nel ricordare le Sezioni Unite Mariotti[6], evidenzia come in quest’ultima sentenza il chiarimento più importante sia stato quello relativo ai rapporti tra la normativa prevista nella legge Balduzzi e quella di cui alla legge Gelli-Bianco.
Le Sezioni Unite del 2018, infatti, sul punto hanno affermato che il d.l. n. 158/2012 è più favorevole per il reo rispetto all’art. 590sexies c.p., ciò con riferimento sia alle condotte negligenti o imprudenti connotate da colpa lieve, sia all’errore verificatosi nella fase della scelta di linee guida adeguate al caso concreto e connotato da colpa lieve dovuta a imperizia.
Così ricostruito il quadro normativo, la Cassazione del maggio 2020 passa ad analizzare il peculiare onere motivazionale gravante sul giudice di merito in caso di condotta colposa del sanitario.
In questo senso, si sottolineano i doveri del giudice di verificare concretamente: innanzitutto, se il caso di specie sia o meno regolato da linee guida o da buone pratiche clinico-assistenziali; in secundis, la specifica consistenza della condotta colposa, dovendosi accertare, per un verso, la natura generica o specifica della colpa, e, per altro verso, l’eventuale connotazione impudente, negligente o imperita dell’agere del medico; in terzo luogo, se e in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata dalle pertinenti linee-guida o buone pratiche clinico assistenziali[7] e, di conseguenza, il grado della colpa; infine, qual è la disciplina più favorevole – legge Balduzzi o legge Gelli-Bianco – per l’imputato con riguardo allo specifico caso, ai fini e per gli effetti dell’art. 2 co. 4 c.p.[8]
In questo senso, si sottolinea come sotto la vigenza della legge del 2012 la giurisprudenza escludesse l’illiceità penale sia in caso di condotta lievemente colposa nella scelta di linee guida (in concreto inadatte), sia in caso di colpa lieve manifestatasi nella trasposizione esecutiva (c.d. adempimento imperfetto, od errore di esecuzione) di linee guida a monte correttamente individuate.
L’introduzione nel 2017 del nuovo art. 590sexies c.p., invece, ha circoscritto la non punibilità del sanitario ai casi in cui il medico, pur avendo correttamente individuato le linee guida pertinenti al caso concreto, abbia errato per colpa lieve nell’applicazione di queste ultime.
Peraltro, secondo la Cassazione uno specifico problema si annida nella fase dell’attuazione delle linee guida al caso concreto.
Per questa via, si evidenzia che per l’opinione dominante le linee guida siano “esclusivamente o prevalentemente raccomandazioni necessariamente generiche”. Da ciò deriva il dovere, pressoché indefettibile, per il medico di  di procedere di volta in volta all’adattamento delle stesse al caso di specie.
La Suprema Corte, nel continuare l’operazione di sintesi, pone in essere uno specifico focus riguardante l’opportunità o meno della distinzione tra colpa per negligenza, imprudenza e imperizia, in passato al centro di un ampio dibattito.
Da un lato, infatti, c’era chi propendeva per l’inutilità di tale classificazione, ciò in virtù della circostanza per cui colpa si risolvesse in ogni caso in una negligenza. Dall’altro lato, invece, c’era chi sosteneva la necessità di distinguere tra negligenza, imperizia e imprudenza.
La Corte, preliminarmente, riscontra l’intrinseca opinabilità della distinzione, posto che “la scienza penalistica non offre indicazioni di ordine tassativo, nel distinguere le diverse ipotesi di colpa generica, contenute nell’art. 43 c.p., terzo alinea”.
È, d’altronde, proprio a causa di questa “intrinseca opinabilità” che parte della giurisprudenza di legittimità, tra cui la Cassazione “Denegri”, ha proposto il superamento di tale distinzione.

Tuttavia, la Corte di Cassazione ritiene che l’avvento della legge Gelli-Bianco abbia riproposto il problema di distinguere i profili della colpa generica, stante l’espresso riferimento all’imperizia nell’art. 590sexies c.p.
È per tale motivo che i giudici giungono a ricercare nella giurisprudenza di legittimità dei parametri utili a discernere correttamente tra negligenza, imprudenza e imperizia.
Nello specifico, una risalente pronuncia del 1985[9] ritenne imprudente l’attività positiva “che non si accompagna nelle speciali circostanze del caso a quelle cautele che l’ordinaria esperienza suggerisce di impiegare a tutela dell’incolumità e degli interessi propri ed altrui”. Siffatta impostazione si basava sulla tesi secondo cui l’imprudenza consisterebbe pur sempre in un’attività positiva, mentre la negligenza riguarderebbe le attività contraddistinte da un non facere.
Per la Cassazione del 2020, tuttavia, questo modo di ragionare non è corretto.
Ciò perché anche un comportamento attivo può essere negligente e, viceversa, un comportamento omissivo essere imprudente.
Tra l’altro, con specifico riferimento all’attività medica, l’impostazione prevalente sostiene che l’errore diagnostico sia normalmente sintomatico di imperizia[10], mentre è di regola imprudente la condotta legata alla scelta del medico di compiere l’attività più agevole, ma maggiormente rischiosa[11].
Tuttavia, anche tali conclusioni vengono smussate dalla Corte in virtù dell’impossibilità di operare generalizzazioni astratte, stante l’eterogeneità di forme con cui la condotta medica può di volta in volta manifestarsi.
In questo senso, inoltre, i giudici ricordano come uno stesso atto medico possa in concreto dipendere da “radici causali diverse”[12].
Dunque, il principale nodo da sciogliere in caso di responsabilità per condotta colposa del medico è quello dell’individuazione dell’origine dell’errore.
In caso di perdurante incertezza circa la causa dell’errore, infatti, il medico dovrà essere assolto, stante il principio del favor rei e il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio di cui all’art. 533 c.p.p.
In ogni caso, al fine di semplificare il ragionamento, la sentenza in analisi afferma che tradizionalmente la perizia riguarda l’agere del professionista, in quanto soggetto dotato di specifiche competenze tecnico-scientifiche, non riferibili al quivis de populo.

Tuttavia, anche in questo caso i giudici di legittimità si affrettano a chiarire che ciò non comporta di per sé l’aprioristica esclusione della possibilità che l’errore del professionista trovi la propria ragione nella negligenza o nell’imprudenza.

In questi termini, quindi, i giudici suggeriscono di ripudiare qualsiasi astratta categorizzazione e di procedere preventivamente a indagare l’effettiva e concreta origine dell’errore del professionista[13].

Un altro aspetto della responsabilità medica finito sotto la lente d’ingrandimento della Cassazione è quello relativo all’evoluzione che ha interessato i concetti di colpa lieve e non lieve.

In tema, i giudici evidenziano che in passato la tesi prevalente distingueva tra culpa levissima, culpa levis e culpa lata. Ciò, principalmente, in quanto solo la prima comportava l’esenzione da rimprovero penale.

Peraltro, anche il codice Rocco del 1930 non disconobbe questa antica distinzione.

Successivamente, però, si fece strada la tesi dell’irrilevanza del grado della colpa.

Suddetta interpretazione si fondava, da un lato, sull’art. 133 c.p., che distingue il grado della colpa ai soli fini della dosimmetria della pena e, dall’altro lato, sulla teoretica della c.d. società del rischio.

Quest’ultima, in particolare, ha comportato l’emersione e la moltiplicazione delle insicurezze e dei rischi, tanto da imporre a ogni consociato un dovere di cautela nell’attività da porre in essere.

Tra le principali conseguenze di questo nuovo modo di intendere le cose c’è stato il passaggio dal modello del c.d. uomo medio a quello dello homo eiusdem condiciones et professionis[14], o, ancor di più, del c.d. agente modello. 

In giurisprudenza, tuttavia, con specifico riguardo alla colpa medica ed al fine di contrastare il dilagante fenomeno della c.d. medicina difensiva, si arrivò a restringere la responsabilità penale del medico ai soli casi connotati da colpa grave, cioè di “macroscroscopica violazione delle più elementari regole dell’arte”.

Questa opera di delimitazione tenne specificamente conto delle intrinseche difficoltà connesse all’ars medica ed all’inesistenza di un criterio generale e tassativo di cure. Di qui, la necessità di operare una distinzione tra i diversi gradi della colpa. 
In questo modo, il comportamento penalmente rilevante del sanitario fu individuato nella condotta del professionista “incompatibile con il minimo di cultura e di esperienza”, caratteristiche che devono legittimamente pretendersi da chi sia abilitato all’esercizio della professione medica[15].
L’impostazione favorevole alla suddivisione tra colpa lieve e grave trovò il riferimento normativo nell’art. 2236 c.c.[16].
Tale impostazione, avallata anche dalla Consulta[17], fu poi nuovamente sottoposta a critica e superata dalla giurisprudenza di legittimità, con conseguente progressivo disinteresse verso il grado della colpa.

Ciò nonostante, prima con il decreto Balduzzi e poi con la legge Gelli-Bianco, tornò al centro della scena il concetto della gravità della colpa.

Ebbene, per la Cassazione del 2020 la responsabilità penale del sanitario passa oggi attraverso l’esame del grado della colpa, da analizzare con riguardo ai criteri della gravità della violazione della regola cautelare, alla prevedibilità ed all’evitabilità dell’evento, alle condizioni dell’agente ed al possesso delle qualità personali utili a fronteggiare la situazione pericolosa, oltre che alle motivazioni della condotta.

In tal senso, ai fini della personalizzazione del rimprovero per colpa è necessario valutare le difficoltà con cui il professionista si è dovuto confrontare. Nello specifico, “vanno apprezzate e misurate le contingenze in cui si sia in presenza di difficoltà o novità tecnico-scientifiche…e le contingenze nelle quali il medico si trova ad operare in emergenza e quindi in quella situazione intossicata dall’impellenza che, solitamente, rende quasi sempre difficili anche le cose facili”.

Di colpa grave potrà parlarsi, quindi, solo nel caso in cui la deviazione rispetto all’agire appropriato sia ragguardevole, anche con riguardo al parametro dato dal complesso delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento.

In particolare, quanto più la situazione specifica dinanzi al medico si presenti “problematica, oscura, equivoca o segnata dall’impellenza, tanto maggiore dovrà essere la propensione a considerare lieve l’addebito nei confronti del professionista che, pur essendosi uniformato a una accreditata direttiva, non sia stato in grado di produrre un trattamento adeguato e abbia determinato, anzi, la negativa evoluzione della patologia” (sul punto, Cassazione Cantore).

Fondamentale ai fini dell’indagine sulla colpa è, peraltro, il riferimento al modello dell’agente, soprattutto rispetto alla prevedibilità ed all’evitabilità dell’evento (come indicato, tra l’altro, dalla giurisprudenza in tema di responsabilità penale dei medici specializzandi[18]).

La grande importanza delle linee guida fu, come visto, normativamente ribadita dalla legge Balduzzi, che fece propri molteplici aspetti della Cassazione Cantore.

In questa prospettiva, per la Cassazione l’attività medica non è di regola governata da puntuali prescrizioni aventi natura di regole cautelari.

Allo stesso modo, comunque, l’agere del sanitario deve essere fortemente orientato sia dal sapere scientifico, sia dalle consolidate strategie tecniche, elementi spesso “codificati” in linee guida ad hoc. Queste ultime, a differenza dei protocolli “non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti”, ma propongono all’esercente la professione sanitaria “direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti”

È con la riforma introdotta dalla legge Gelli-Bianco che si è riproposta l’attenzione della giurisprudenza alle linee guida.

Ciò è dovuto principalmente alla volontà del legislatore di selezionare le linee guida attraverso un procedimento di definizione e pubblicazione “ai sensi di legge”.

La Corte, nonostante l’intervento delle Sezioni Unite, sottolinea che i contrasti relativi alla natura delle linee guida sono tutt’altro che sopiti: per alcuni, sono mere raccomandazioni dal contenuto generico e defettibile che sta al medico adeguare al caso concreto; per altri, devono essere considerate alla stregua di vere e proprie regole cautelari, rigide od elastiche.

In ogni caso, a prescindere dall’interpretazione prescelta, per la Cassazione resta il fatto che è in ogni caso presente uno “spazio valutativo affidato per intero al sanitario, che in solitudine è chiamato a individuare l’agire doveroso”, anche in relazione al contesto in cui si deve esplicare l’attività, all’oscurità del quadro clinico ed alle altre contingenze del caso.

In conclusione, per la Suprema Corte il grado della colpa del medico deve essere valutato avendo riguardo, in primis, alla natura della regola cautelare violata, in quanto “suscettibile di incidere sulla concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento”. Dovrà, poi, procedersi alla valutazione dell’esigibilità della condotta doverosa.

Come visto, dunque, notevole è stato lo sforzo ricostruttivo dei giudici di legittimità.

La sintesi vista ha il grande merito di contribuire a chiarire le idee in uno degli ambiti più affascinanti, controversi e dibattuti del diritto.

Come sottolineato a più riprese nella sentenza in commento, proprio la specificità connaturata all’attività del medico impone di ripudiare ogni categorizzazione generalizzante ed astratta.

Viceversa, fondamentale e imprescindibile per l’interprete nella materia in esame è l’opera di contestualizzazione della condotta.
Tutto ciò al fine, e nell’ottica, di individuare il difficile punto di equilibrio tra la necessità di garantire il più elevato livello di cure per il paziente e di delineare con precisione i confini della responsabilità.


Note

[1]Cassazione Penale, Sez. IV, sentenza 18 maggio 2020, n. 15258;

[2]D.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito in legge 8 novembre 2012, n. 189, “Disposizioni per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”;

[3] Cassazione Penale, Sez. IV, sentenza 6 giugno 2016, n. 23283, Denegri;

[4]Cassazione Penale, Sez. IV, sentenza 9 aprile 2013, n. 16237, Cantore; 

[5]Legge 8 marzo 2017, n. 24, “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie”;

[6]Sezioni Unite Penali, sentenza 22/02/2018, n. 8770, Mariotti;

[7]Cassazione Penale, Sez. IV, sentenza 6 agosto 2018, n. 37794, De Renzo;

[8] Sezioni Unite Penali, sentenza 24/09/2018, n. 40986;             

[9] Cassazione Penale, Sez. IV, sentenza 5 giugno 1985, Cannella;

[10] Cassazione Penale, Sez. IV, sentenza 5 gennaio 1999,  n. 57, Cappelli;

[11] Cassazione Penale, Sez. IV, sentenza 4 dicembre 2008, n. 45126, Ghisellini;

[12]La Cassazione 2020 evidenzia come, ad esempio, “la somministrazione di un farmaco in dose non curativa ma letale può dipendere tanto dalla scarsa attenzione posta nel leggere la prescrizione redatta dal primario, quanto dalla carente conoscenza delle caratteristiche del farmaco, che lascia credere alla innocuità del quantitativo somministrato”.

[13] Ancora una volta, la Cassazione corrobora il ragionamento con un puntuale esempio: “un medico, praticando l’epidurale penetra la cute in un punto diverso da quello prescritto dalle leges artis; egli risponderà per imperizia se aveva le cognizioni richieste dall’atto medico in merito al punto esatto nel quale introdurre l’ago; risponderà per imperizia se non ha le competenze esecutive richieste dalle leges artis, es. non sa tenere fermo l’ago nell’atto di infliggerlo; risponderà per negligenza se erra nella esecuzione dell’atto perché distolto dalla conversazione con il suo assistente, a meno che non vi sia una norma tecnica che impone di tenere costantemente sotto osservazione il campo operatorio mentre si introduce l’ago”;

[14] Nel senso di “persona scrupolosa che opera secondo i criteri della prevedibilità e dell’evitabilità dell’evento”, secondo una astratta figura di agente modello, esperto ed accorto;

[15] Cassazione Penale, Sez. IV, sentenza 6 luglio 1967, n. 447;

[16]  Cassazione Penale, Sez. IV, sentenza 26 ottobre 2007, n. 39592, Buggè;

[17]  Corte Costituzionale, sentenza 22 novembre 1973, n. 166;

[18] Cassazione Penale, Sez. IV, sentenza 16 febbraio 2010, Pappadà;


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