Dopo le opposte soluzioni adottate dalla giurisprudenza della Cassazione, è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione del rapporto tra i reati previsti dagli articoli 576 co. 1 n. 5.1 c.p. e 612bis c.p.
Le condotte persecutorie purtroppo con sempre maggiore frequenza si collocano al centro della cronaca giudiziaria, oltre che di quella quotidiana.
Il fenomeno dello stalking, oltre a destare grande allarme sociale, è oggi spesso facilitato dalle possibilità pressoché infinite date dalle moderne tecnologie di comunicazione.
In concreto la morbosità e la violenza delle condotte tenute dal c.d. stalker possono portare la persona offesa a patire conseguenze negative di varia intensità: dalla “mera” necessità di modificare le proprie abitudini, alla perdita della vita.
Proprio con riguardo a tale ultima evenienza, di recente la giurisprudenza e gli interpreti hanno prestato grande attenzione al delicato tema dell’omicidio cagionato dallo stalker.
Oggetto di dubbi, in particolare, è stato l’art. 576 co. 1 n. 5.1 c.p., che punisce con l’ergastolo l’omicidio commesso «dall’autore del delitto previsto dall’art. 612bis c.p. nei confronti della stessa persona offesa». La norma prevede una circostanza aggravante che, come suggerito dalla numerazione, è stata introdotta nel codice penale in un secondo momento[1] con l’intento di combattere efficacemente le derive più drammatiche dello stalking.
Ebbene, negli ultimi due anni la giurisprudenza che è stata chiamata ad affrontare la questione dei rapporti tra omicidio e stalking è giunta a soluzioni contraddittorie, apparentemente inconciliabili.
Da un lato, infatti, la Cassazione con sentenza n. 20786/2019[2], ha escluso l’assorbimento del delitto di stalking all’interno dell’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576 co. 1 n. 5.1 c.p., in tal modo concludendo per il concorso di reati.
Al contrario, la Terza Sezione della Cassazione nel 2020[3], attraverso il ricorso al meccanismo del reato complesso ex art. 84 c.p., ha considerato il reato di atti persecutori assorbito nella fattispecie aggravata di omicidio richiamata.
L’importanza del contrasto appena richiamato ha spinto la Quinta Sezione della Cassazione con pronuncia del marzo 2021 a rimettere alle Sezioni Unite la questione: «se, in caso di concorso tra i fatti-reato di atti persecutori e di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma primo, n. 5.1, cod. pen., sussista un concorso di reati, ai sensi dell’art. 81 c.p., o un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., che assorba integralmente il disvalore della fattispecie di cui all’art. 612-bis cod. pen. ove realizzato al culmine delle condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall’agente ai danni della medesima persona offesa».
In sintesi, il quesito è quello dell’ammissibilità o meno del concorso di reati in caso di omicidio commesso dallo stalker.
Prima di analizzare le motivazioni utilizzate dai giudici nelle due sentenze richiamate, è opportuno ricostruire sommariamente le principali acquisizioni in tema di reato complesso e di concorso di reati.
In generale, siffatti istituti si riferiscono alla dicotomia esistente tra unità e pluralità di reati.
Il reato complesso ex art. 84 c.p., infatti, rientra nel primo gruppo, viceversa il concorso di reati si riferisce all’ipotesi di pluralità di delitti.
La premessa logica da cui partire per affrontare il tema dell’unità o pluralità di reati è il concorso apparente di norme. Con tale espressione si descrivono le ipotesi in cui prima facie un fatto penalmente rilevante appare riconducibile a due o più fattispecie incriminatrici di parte speciale.
In questi casi, compito dell’interprete è risolvere la situazione di apparenza al fine di individuare se nel caso concreto si debbano applicare o meno più fattispecie delittuose.
Al fine di dirimere il descritto quesito, la Giurisprudenza prevalente[4] ricorre al criterio di specialità di cui all’art. 15 c.p., per cui una norma è speciale rispetto all’altra quando contiene tutti gli elementi della fattispecie generale, più almeno un altro elemento.
Dunque, nei casi in cui il Legislatore non è espressamente intervenuto prevedendo clausole ad hoc finalizzate ad evitare il concorso, il criterio da utilizzare è quello ex art. 15 c.p.
La specialità è stata scelta dalla giurisprudenza perché considerata l’unica che, dando luogo a una comparazione strutturale tra fattispecie astratte, si è rivelata in grado di rispondere alle principali esigenze che governano il diritto penale, tra cui quelle connesse alla legalità ed al ne bis in idem sostanziale.
Viceversa, sono stati scartati i cc.dd. criteri valoriali, che secondo i più sarebbero incompatibili, oltre che con i principi appena citati, con le istanze di uguaglianza e tutela della persona.
Tuttavia, nonostante la chiara presa di posizione della giurisprudenza in favore del criterio strutturale della specialità, nella prassi giudiziaria è costante il ricorso, esplicito o implicito, a criteri integrativi, tra cui quelli di sussidiarietà e consunzione[5].
In ogni caso, all’esito di tali operazioni interpretative sarà possibile comprendere se la condotta delittuosa concreta sia da riportare a un unico reato, ovvero a plurimi reati in concorso, materiale (in caso di più azioni od omissioni) o formale (in caso di una sola azione od omissione).
In questo contesto, il c.d. reato complesso di cui all’art. 84 c.p. è considerato dalla legge un unico reato, come si evince dalla disciplina giuridica ricavabile dagli artt. 131[6] e 170 co. 2 c.p.[7]
L’art. 84 c.p. afferma che si ha reato complesso «quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato»[8].
Come attestato dalla giurisprudenza, la principale funzione dell’istituto è quella di evitare il concorso di reati ponendo in essere una «unificazione legislativa sottoforma di identico reato di due o più figure criminose, i cui rispettivi elementi costitutivi sono tutti compresi nella figura risultante dall’unificazione»[9].
Infine, per i più, nella categoria del reato complesso rientra il reato progressivo, che si riferisce alle ipotesi in cui sussiste un’offesa crescente nei confronti di uno stesso bene, per cui la commissione di un reato maggiore implica il passaggio attraverso un reato minore[10].
È da segnalare, comunque, che parte della dottrina considera superfluo il congegno predisposto dall’art. 84 c.p., in quanto già il principio di specialità sarebbe in grado di regolare compiutamente tali ipotesi[11].
Ciò detto, in merito alla problematica afferente l’omicidio commesso dallo stalker, si può affermare che il quesito sottoposto alle Sezioni Unite sia proprio quello riguardante la sussistenza di un reato complesso, ovvero di un concorso di reati.
Sul punto, come accennato, le due recenti sentenze della Cassazione sono arrivate a conclusioni opposte.
In particolare, la Cassazione del 2019 ha escluso l’assorbimento del reato di atti persecutori nell’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576 co. 1 n. 5.1. c.p. per molteplici ragioni, tra cui si segnala «scelta del legislatore di porre l’accento, nella costruzione dell’aggravante in esame, sulla mera identità del soggetto autore sia degli atti persecutori che dell’omicidio e non sulla relazione tra i fatti commessi non può ritenersi frutto di una casuale modalità espressiva».
A tal fine, la Corte sottolinea la diversità tra tale formulazione e quella dell’aggravante di cui al comma 5 n. 1 della medesima disposizione, che espressamente delimita l’ambito spazio-temporale dell’omicidio alle condotte tenute “in occasione” dei reati di maltrattamenti, prostituzione minorile, violenza sessuale etc.
Nel caso dell’art. 576 co. 1 n. 5.1 c.p. così non è. In questo caso, infatti, l’aggravamento della pena è motivato dal fatto che l’omicidio sia stato commesso dall’ «autore del delitto previsto dall’articolo 612bis c.p.».
La sentenza ritiene «l’elemento aggravatore […] di natura soggettiva», riferendosi non alla condotta ed alle modalità di commissione, ma all’incremento di disvalore che si realizza in virtù del fatto che l’autore è colui che «prima, non importa quando, ha oppresso la vittima con atti persecutori».
La Cassazione, dunque, aderisce alla tesi secondo cui l’elemento aggravatore in questo caso deve essere considerato di impronta marcatamente soggettivistica. Per tale motivo i giudici ammettono il concorso tra i due delitti.
Agli antipodi si è collocata la pronuncia della Cassazione del 2020.
In quest’occasione la Corte, dopo aver apertamente criticato la soluzione seguita dalla sentenza dell’anno prima, ha affermato che l’art. 576 co. 1 n. 5.1. c.p. deve «essere considerato, a tutti gli effetti, un reato complesso ai sensi dell’art. 84 comma 1 c.p.».
Si pone l’accento sull’ «infelice e incerta formulazione» della norma, che nel fare riferimento all’autore del delitto di stalking confonde le idee.
Tuttavia, si legge nel provvedimento che l’imprecisione legislativa non può portare l’interprete a giustificare una deriva soggettivistica, «incentrata sul tipo di autore, senza considerare che la pena si giustifica non per ciò che l’agente è, ma per ciò che ha fatto».
Per tale ragione, la pena dell’ergastolo si giustifica perché «ciò che aggrava il delitto di omicidio non è il fatto che esso sia commesso dallo stalker in quanto tale, ma che esso sia stato preceduto da condotte persecutorie che siano tragicamente culminate, appunto, con la soppressione della vita della persona offesa».
Nel motivare tale conclusione la Corte evidenzia la ratio legis della disposizione ricavabile dai lavori preparatori della riforma del 2009, laddove l’incremento sanzionatorio era stato spiegato dalla necessità di «reprimere un allarmante fenomeno sociale che vedeva in costante aumento il numero di omicidi consumati ai danni delle vittime di atti persecutori».
Con l’intento di consolidare le basi del proprio ragionamento, la Cassazione richiama il principio del ne bis in idem sostanziale.
Quest’ultimo vieta di addossare due volte al medesimo soggetto la condotta già integralmente ed adeguatamente considerata e punita.
Come segnalato da molti autori[12] tale principio fondamentale è ontologicamente collegato al reato complesso.
Per queste ragioni, i giudici di legittimità affermano criticamente che concludere per il concorso tra l’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576 co. 1 n. 5.1 c.p. e il delitto di atti persecutori condurrebbe a un bis in idem in relazione alla condotta persecutoria, prima punita di per sé, poi considerata ai fini dell’aggravamento sanzionatorio.
Dunque, in attesa delle Sezioni Unite le pronunce richiamate si collocano su posizioni radicalmente diverse, sia in punto di ragionamento che per quanto riguarda le conclusioni.
A prescindere dalla soluzione che le Sezioni Unite adotteranno, è opportuno segnalare le molteplici criticità che l’opzione soggettivistica avanzata dalla Cassazione del 2019 porta con sé.
Oltre ai problemi di bis in idem, infatti, ciò che desta sconcerto è la possibilità di riesumare – per l’ennesima volta! – il diritto penale d’autore.
È innegabile, infatti, che dare rilievo ai fini della punizione alla mera qualifica di stalker del soggetto attivo significherebbe dare peso unicamente allo stigma che il soggetto porta su di sé, “a ciò che è o è stato”.
Siffatto modo di ragionare, peraltro, non sembra tenere correttamente in considerazione l’evoluzione della Giurisprudenza di Legittimità in tema di diritto penale d’autore[13].
Viceversa, il diritto penale di uno Stato di diritto, democratico e costituzionale non può che fondarsi sulla punizione di ciò che l’imputato ha fatto, in quanto è qui che si incentra il disvalore e, di conseguenza, si giustifica la pena.
Fondamentale ai fini della punizione non è lo status del soggetto di per sé, ma è la condotta posta in essere in un determinato contesto di spazio e di tempo. Anche lo status soggettivo può essere considerato ai fini della condotta, ma solo se e nella misura in cui abbia effettivamente aggravato il disvalore del fatto, oggettivizzandosi nella condotta concreta[14].
In tal senso, punire il soggetto con la pena derivante dal concorso tra i reati di stalking e di omicidio aggravato per il solo fatto che il soggetto attivo è lo stalker comporterebbe verosimilmente una doppia punizione della condotta di stalking: una prima volta quale status autonomo; una seconda volta quale disvalore ulteriore connesso alla condotta omicidiaria.
La soluzione del 2019, quindi, sembra in effetti difficilmente conciliabile con il diritto penale del fatto e con i principi di materialità, offensività, le istanze rieducative di cui all’art. 27 co. 3 Cost., legalità e del ne bis in idem.
Viceversa, più correttamente, il disvalore del fatto di cui all’art. 576 co. 1 n. 5.1 c.p. sembra da rintracciare nella progressione criminosa che l’autore ha realizzato passando dalle attività persecutorie all’omicidio.
Per questa via, dalla condotta “minore” di stalking si passa a una “maggiore” di omicidio, così tracciando una linea evolutiva criminosa, oggettiva e circostanziata. D’altronde, la pena dell’ergastolo è giustificata dal crescendo offensivo del comportamento persecutorio, talmente inarrestabile da arrivare alla soppressione della vita della vittima.
Ciò che va dequotato e ridimensionato è il tenore letterale dell’art. 576 co. 1 n. 5.1 c.p., senz’altro impreciso allorché si riferisce al “tipo di autore”.
Al contrario, ciò che sembra doversi valorizzare è il riferimento alla “stessa persona offesa”.
In conclusione, in attesa dell’intervento delle Sezioni Unite la questione dell’omicidio dello stalker continua ad agitare la giurisprudenza ed a fornire un banco di prova per la tenuta dei principi fondanti il potere punitivo dello Stato.
Note
[1]Numero inserito dall’art. 1 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, come modificato dalla l. 23 aprile 2009, n. 38;
[2]Cassazione Penale, Sez. I, sentenza del 14 maggio 2019, n. 20786;
[3]Cassazione Penale, Sez. III, sentenza del 6 novembre 2020, n. 30931;
[4]Tra le altre, le Sezioni Unite n. 41588/2017, le quali hanno ricordato che l’art. 15 c.p. si applica unicamente quando le due disposizioni penali riguardino la “stessa materia”, locuzione che per le Sezioni Unite si riferisce alla “stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico nel quale si realizza l’ipotesi di reato; con la precisazione che il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità”;
[5]In tema, Sezioni Unite, sentenza del 25 febbraio 2011, n. 7537, secondo cui “il reato di cui all’art. 316Ter c.p. assorbe quello di falso previsto dall’art. 483 c.p. dello stesso codice in tutti i casi in cui l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituiscono elementi essenziali per la sua configurazione…la fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato…si configura come fattispecie complessa ex art. 84 c.p…. Né può attribuirsi rilievo alla diversità di bene giuridico tutelato dalle due norme, considerato che in ogni reato complesso si ha, per definizione, pluralità di beni giuridici protetti”;
[6]La norma, con riguardo ai casi di reato complesso prevede che “si procede sempre d’ufficio, se per taluno dei reati, che ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti, si deve procedere d’ufficio”;
[7]In tema di estinzione del reato-presupposto, il comma 2 dell’art. 179 c.p. dispone che “la causa estintiva di un reato, che è elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato complesso, non si estende al reato complesso”;
[8]Esempi convincenti di reato complesso sono il furto in abitazione di cui all’art. 624bis c.p., frutto della combinazione tra il furto e la violazione di domicilio e l’omicidio aggravato commesso in occasione di atti sessuali, incriminato dall’art. 576 co. 1 n. 5 c.p.;
[9]“Diritto Penale parte generale”, VII edizione, Fiandaca-Musco, Zanichelli Editore, pag. 726 ss.;
[10]Esempi ricorrenti di reato progressivo possono essere considerati il passaggio dalle lesioni all’omicidio e quello dal sequestro di persona alla riduzione in schiavitù;
[11]Tra gli altri, Marinucci e Dolcini;
[12]Tra i più attenti sostenitori di tale tesi, c’è Mantovani;
[13]Tra le pronunce più significative, si segnalano, da un lato, le sentenze della Corte Costituzionale nn. 249 e 250 del 2010 che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 61 co. 1 n. 11bis c.p. per contrasto con gli artt. 3 e 25 co. 2 Cost., dall’altro lato, la Corte Cost. n. 370/1996, che ha constatato l’illegittimità dell’art. 708 c.p. per contrasto, tra gli altri, con gli l’art. 27 Cost.;
[14]È il caso, ad esempio, dei reati posti in essere dai pubblici ufficiali, laddove ciò che comporta la punizione o l’aggravamento di pena non è la asettica qualifica soggettiva, ma è il fatto che tale condizione abbia effettivamente dispiegato effetti diretti o indiretti sulla condotta del soggetto, tanto da aumentarne il disvalore.
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