Ci sono alcuni nodi critici che caratterizzano la governance economica europea, tra cui il deficit democratico e il paradigma di austerità neoliberale.
La crisi del debito sovrano e la crisi del Covid-19 possono essere definite come critical junctures nella storia del processo di integrazione europea[1]. Entrambe sono sopraggiunte in seguito a eventi di dimensioni transnazionali, che non potevano essere affrontati con gli strumenti a disposizione dei singoli Stati membri. Questi avvenimenti sono stati seguiti da una serie di azioni intraprese da diversi attori, che possono essere incolpati delle carenze e degli errori commessi. Inoltre, entrambe le crisi hanno avuto un impatto in termini di legittimità democratica delle decisioni prese, riguardo al processo con cui queste scelte sono state prese, l’efficacia di queste politiche e il coinvolgimento e la soddisfazione dei cittadini. Tuttavia, una questione posta da molti studiosi riguarda l’adeguatezza degli strumenti impiegati per affrontare la crisi del debito sovrano per fronteggiare anche la crisi del Covid-19.
La crisi dell’Eurozona
Ci sono diverse spiegazioni per le origini della crisi dell’Eurozona. Per la maggior parte degli studiosi americani, la crisi del debito sovrano è stata una crisi della struttura istituzionale, poiché l’UE non soddisfa la maggior parte delle condizioni che la qualificherebbero per essere un’area valutaria ottimale. Nessuna unione monetaria sarebbe mai sopravvissuta senza un serio trasferimento di competenze in materia fiscale. L’incompletezza dell’UEM ha privato i paesi dell’Eurozona di uno strumento importante per affrontare shock e crisi, cioè la politica monetaria. Soprattutto nell’Europa del Nord, questa è stata descritta come una crisi di spesa pubblica eccessiva e di deficit di bilancio[2]. La procedura di deficit eccessivo nell’ambito del Patto di Stabilità e di Crescita (PSC) non era stata precedentemente attivata per la Germania e la Francia, dando vita a un circolo vizioso per cui anche altri Stati pensavano che la loro sregolatezza fiscale non sarebbe stata punita in futuro. Altre teorie, al contrario, annoverano tra le cause della crisi i grandi squilibri macroeconomici tra le diverse regioni dell’Eurozona e le differenze di competitività.
Gli Stati dell’Eurozona approvarono il Meccanismo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria e il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria per fornire assistenza finanziaria attraverso obbligazioni e altri strumenti di debito sul mercato dei capitali. Poi, nel 2012, vide la luce il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES): uno strumento permanente per la stabilità finanziaria dell’intera zona euro, che sostituiva i precedenti MESF ed EFSF. Nello stesso anno, il presidente della BCE Draghi dichiarò l’impegno della BCE a fare tutto il necessario a preservare l’euro, avanzando successivamente varie politiche di acquisto di obbligazioni sovrane sui mercati secondari e altre politiche monetarie non convenzionali come il Quantitative Easing.
In quegli stessi anni, furono varare diverse misure legislative, tra cui il Two-Pack e il Six Pack, l’introduzione del semestre europeo, e più tardi la conclusione del Fiscal Compact. Questi provvedimenti hanno riaffermato che la risposta europea alla crisi e la nuova architettura istituzionale ruotano intorno alla problematica relazione tra disciplina fiscale e crescita economica. In effetti, la recessione economica ha aumentato le disuguaglianze all’interno delle società, la disoccupazione e la povertà. Per queste ragioni, la crisi economica si è trasformata in una crisi di legittimità[3]: le decisioni più importanti sono state sottratte ai cittadini europei e i governi non si sono assunti la responsabilità di queste scelte, incolpando l’Europa dei processi di spending review. Possiamo osservare fenomeni come la crescita di partiti nazionalisti ed euroscettici e sentimenti di sfiducia e malcontento nei confronti dell’Unione. A livello nazionale, questo si traduce in una forte volatilità politica, con diversi cambi di governo e l’ascesa di movimenti populisti ed estremisti, sia di destra che di sinistra. Le politiche di austerità e di riforma strutturale adottate per affrontare la crisi dell’Eurozona sono state descritte da molti studiosi come prive di legittimità democratica. C’è stata una mancanza di coinvolgimento politico dei cittadini; i processi decisionali dominati dalla regola intergovernativa sono stati preferiti a scapito di un significativo coinvolgimento del Parlamento europeo e di quelli nazionali.
Dentro e dopo il Covid-19
La crisi pandemica del Covid-19 è caratterizzata da una situazione di profonda incertezza sui tempi e i modi della sua risoluzione, e che ha determinato un aumento generale della disoccupazione in tutta Europa e messo sotto pressione le finanze pubbliche. Partendo dalla politica monetaria, la BCE guidata da Christine Lagarde, dopo un iniziale esitazione[4], è intervenuta con un massiccio programma di acquisto di titoli del debito pubblico – in parte come era già successo con la BCE sotto Mario Draghi durante la crisi del debito sovrano. Più precisamente, attraverso il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), introdotto nel marzo 2020 e prorogato fino alla fine del 2021, la BCE ha acquistato titoli di debito pubblico e privato per un importo di 750 miliardi di euro, allo scopo di rassicurare i mercati e mitigare la crescita del debito dovuta all’aumento degli spread e dei tassi di interesse. La BCE ha agito come “prestatore di ultima istanza” attraverso, di fatto, la monetizzazione del debito. Tuttavia, almeno per ora, questo non implica la realizzazione permanente del progetto degli Eurobond o, come è stato suggerito, dei Coronabond – cioè titoli emessi a livello europeo e non dai singoli Stati membri.
Per quanto riguarda la politica fiscale, su proposta del Consiglio europeo, il PSC è stato sospeso per permettere ai vari Paesi di attuare manovre espansive di finanza pubblica per sostenere famiglie e imprese. Oltre al ruolo dei singoli Stati membri, le istituzioni europee hanno intrapreso iniziative autonome per affrontare le crisi. Tra queste, vale la pena ricordare il programma temporaneo SURE (Support to Mitigate Unemployment Risks in an Emergency), istituito nell’aprile 2020 e basato su prestiti (a tassi di interesse estremamente bassi e perfino negativi) fino a un totale di 100 miliardi di euro, predisposti attraverso l’emissione di appositi social bond, da distribuire agli Stati membri per preservare l’occupazione e i redditi in calo. Più ambizioso e importante è il programma chiamato NextGenerationEU, il cui obiettivo a medio e lungo termine è “riparare i danni economici e sociali causati dalla pandemia, e rendere l’Europa più verde, più digitale, più resiliente e più adatta alle sfide attuali e future”. Il programma, il cui epicentro è il Recovery and Resilience Facility, prevede un investimento di 800 miliardi di euro, circa il 5% del Pil dell’Unione, e sarà reso disponibile nell’ambito del bilancio 2021-2026[5].
I fondi sono composti da prestiti (386 miliardi di euro) e da spese proprie dell’Unione (407 miliardi di euro, più 12,5 miliardi di euro assegnati attraverso programmi competitivi). Gli Stati membri sono obbligati a rimborsare il finanziamento dell’Unione direttamente (tramite prestiti) o indirettamente (tramite contributi al bilancio comune europeo) entro il 2058. Come per i prestiti SURE, l’Unione emetterà dei bond per conto degli Stati membri, che poi girerà loro alle stesse condizioni. L’operazione è legata alla fiducia di cui l’Unione gode sui mercati, e quindi alle condizioni favorevoli per la vendita dei bond sui mercati finanziari. Infine, è anche importante specificare che il meccanismo di spese e prestiti sarà parte di un programma dettagliato di riforme e investimenti elaborato a livello nazionale. Nell’ambito del Recovery and Resilience Facility, ogni Stato membro si impegna a redigere un programma dettagliato in cui presenterà alla Commissione il suo piano di riforme e investimenti per i prossimi anni.
Accanto a nuovi strumenti, è stata riproposta anche l’attivazione del regime di aiuti finanziari nell’ambito del MES. Nel caso specifico della pandemia, l’opzione del MES è stata attivata – con le solite rigorose condizionalità e sotto il controllo della Commissione europea, del FMI e della BCE – per coprire le spese sanitarie legate al Covid-19. Tuttavia, è significativo che, ad oggi, nessuno Stato membro abbia richiesto questo strumento. Uno stato che sceglie di creare nuovo debito attraverso il MES (a condizioni leggermente migliori) potrebbe dare segnali di debolezza agli investitori internazionali per future emissioni di titoli di debito. Infine, con la costituzione di programmi più importanti che investono tutti gli Stati membri e non solo quelli in difficoltà, come SURE e NextGenerationEU, il MES – e forse la stagione europea in cui è nato – appare in parte superato[6].
Di crisi in crisi, in un contesto di emergenza permanente, sono state evidenziate diverse questioni centrali che caratterizzano la governance economica dell’Eurozona: dall’imposizione di un unico modello di politica economica (cioè di austerità neoliberale) al deficit democratico, un processo che ha contribuito a indebolire la democrazia rappresentativa anche a livello nazionale. Ma significative sono anche le linee di frattura tra gli Stati del Nord e del Sud Europa, enfatizzate dalla logica intergovernamentale che domina la conduzione della politica europea. Nella crisi del Covid-19, i contrasti tra Paesi del Nord e del Sud sono emersi quasi subito, per poi essere risolti dopo difficili negoziati. In questo senso, è legittimo supporre che questi contrasti possano tornare dopo la pandemia[7]. Nei prossimi anni capiremo se la crisi del Covid-19, con tutte le sue drammatiche conseguenze, sia stata effettivamente un’occasione per ripensare a fondo i rapporti sociali o solo l’ennesima missed opportunity per democratizzare[8] e riequilibrare il processo di integrazione del Vecchio Continente.
Note
[1] Ladi, S., and Tsarouhas, D. (2020) EU Economic Governance and Covid-19: Policy Learning and Windows of Opportunity, Journal of European Integration 42: 1041-56.
[2] Matthijs, M. (2014) “The Euro Crisis: Growing Pains or Doomed from the Start?” in Handbook of Global Economic Governance, eds. Manuella Moschella and Catherine Weaver (Abindgon:Routledge).
[3] Schmidt, V. A. (2020) Europe’s Crisis of Legitimacy: Governing by Rules and Ruling by Numbers in the Eurozone, Oxford: Oxford University Press.
[4] Nel marzo 2020 Christine Lagarde ha dichiarato che “non siamo qui per chiudere gli spread” per quanto riguarda i mercati del debito sovrano, aggiungendosi alla sensazione di abbandono da parte delle istituzioni comunitarie in Italia e in altri paesi altamente indebitati in Europa.
[5] Kreilinger, V. (2020) “Tectonic in the EU’s Institutional System,” Working Paper Series SOG-WP 62/2020.
[6] Buti, M. and Papaconstantinou, G. (2021) “The legacy of the pandemic: how Covid-19 is reshaping economic policy in the EU,” CEPR Policy Insights.
[7] Cozzolino, A. (2021) Prima, dentro e dopo il Covid-19: la politica economica dell’Eurozona e i suoi futuri possibili, in FUTURI, 15, giugno 2021.
[8] È degna di nota la proposta della Commissione e del Parlamento europeo di una Conferenza sul Futuro dell’Europa, un’opportunità unica per i cittadini europei di discutere le sfide e le priorità dell’Europa.
Foto copertina: Immagine web. OpenPolis