Il Nagorno-Karabakh è una ferita che ormai sanguina ciclicamente nell’ex territorio dell’Unione sovietica. Tuttavia, azeri e armeni sono andati d’accordo per quasi la loro intera esistenza. I rancori reciproci infatti sono piuttosto recenti. Questa breve analisi del conflitto aiuta a comprendere perché questi siano nati.
A cura di Martina Maddaluno
Ventotto anni dopo il cessato il fuoco del 1994 firmato a Biškek, ancora non è stata escogitata una soluzione decisiva capace di pacificare la Repubblica autoproclamata del Nagorno-Karabakh, territorio sito nel Caucaso meridionale, riconosciuto internazionalmente come parte dell’Azerbaigian, ma rivendicato, abitato e governato dall’etnia armena. Si tratta del terreno di scontro di uno dei conflitti congelati di più lunga data al mondo, di uno di quelli più rischiosi per la sicurezza internazionale perché zona di molteplici interessi (principalmente russi, turchi e iraniani, ma anche occidentali), e di quello più longevo in assoluto nel territorio dell’ex Unione Sovietica. In realtà, sebbene qualcuno lo inserisca nella categoria dei “frozen conflicts”, il conflitto armeno-azero è ancora vivo: provoca la morte di circa quaranta soldati annui e porta regolarmente gli analisti (e non solo) a vivere momenti di alta tensione a causa delle innumerevoli violazioni alle tregue concordate nel corso di questo trentennio. A settembre di quest’anno, infatti, le ostilità hanno nuovamente infuocato l’atmosfera a colpi di artiglieria e di droni. Questa volta, però, i bombardamenti non hanno interessato il territorio del Nagorno-Karabakh. Si è trattato infatti di una vera e propria aggressione armata contro uno Stato sovrano. Approfittando della distrazione russa dovuta alla guerra in Ucraina[1], Baku ha attaccato villaggi armeni. Fortunatamente, il conflitto non ha vissuto una sanguinosa escalation come quella verificatasi due anni prima: nel 2020, mentre il mondo non parlava d’altro che della pandemia di Covid-19, la disputa si è trasformata in una guerra calda, causando oltre 6.000 morti e incoraggiando le potenze regionali a entrare nella mischia, con la probabilità di uno sviluppo catastrofico. Una situazione simile si era già verificata nel 2016, quando si combatté quella che è passata alla storia come “guerra dei quattro giorni” i cui bombardamenti furono indirizzati verso un villaggio specifico, Talish, luogo dal quale gli abitanti riuscirono a fuggire in tempo, registrando così un basso numero di vittime. Il dato dei deceduti cresce in modo esponenziale se lo si considera dal 1988, anno di inizio degli scontri: si arrivano a contare 30.000 morti[2], per non parlare delle decine di migliaia di sfollati, dei villaggi distrutti e dei crimini di guerra commessi. Ma tutto questo per cosa? Quali sono le cause alla base di questo conflitto?
Frammenti di storia
Innanzitutto, bisogna chiarire che la religione non ha nulla a che fare con il crescente antagonismo tra le due etnie. Non sono i musulmani e i cristiani a farsi la guerra. Certo, gli azerbaigiani stanno distruggendo i khachkar e i monasteri armeni[3], tuttavia, ciò che sta accadendo ha il solo scopo di eliminare le tracce storiche della passata presenza armena sul territorio. Nemmeno la teoria della greed and grievance di P. Collier e A. Hoeffler riesce a spiegare la genesi del conflitto. La storia infatti dimostra che azeri e armeni sono andati d’accordo per quasi la loro intera esistenza. I rancori reciproci sono piuttosto recenti. Ad aver piantato il seme della discordia è stato sicuramente l’attore instauratosi nella regione transcaucasica nella prima metà del XIX secolo: l’Impero zarista. È stato tramite la sottoscrizione del Trattato di Turkmenchai – contenente clausole speciali prevedenti il rimpatrio degli armeni nei khanati, sultanati, principati e regni georgiani e azerbaigiani[4], soprattutto ad Erevan e in Karabakh – che gli equilibri etno-demografici della regione hanno iniziato a vacillare. L’arrivo, poi, di altri armeni dopo la guerra di Crimea, dopo il confitto del 1877 con il vicino ottomano, e dopo il genicidio armeno del 1915, ha fatto sì che questi fossero scombussolati completamente.
Già nel 1905 e nel 1918, la regione fu teatro di scontro di due brutali guerre civili. La prima non fu di natura etnica ma classista: gli azeri si ribellarono alla superiorità economico-sociale di cui godevano gli armeni, che in quanto cristiani erano – assieme ai georgiani – l’etnia privilegiata dalla politica regionale zarista del divide et impera. Anche quando Baku, all’inizio del Novecento, divenne una prospera realtà petrolifera, arrivando a compensare il 51% del fabbisogno petrolifero mondiale[5], gli operai azerbaigiani furono vittime di una situazione discriminatoria: avevano mansioni meno qualificate e di conseguenza paghe inferiori rispetto agli armeni (e ai russi) che arrivarono ad occupare potenti posizioni manageriali. Si pensi che nel 1905 gli armeni, sebbene rappresentassero solo il 17,5% di tutti gli operai di Baku, occupavano il 25% dei posti di lavoro altamente qualificati[6].
La seconda guerra civile, invece, si inserì nel più ampio quadro di disordini provocati dalla caduta dell’Impero zarista che causò tifo da stadio da parte degli azeri, da un lato, i quali sostenevano l’avanzata turca nella regione, e degli armeni, dall’altro, che esultavano per l’imminente conquista bolscevica.
Una tale esplosione, tra l’altro verificatasi a distanza di poco più di quarant’anni dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, lasciò nuovamente esterrefatta l’Europa, che assistette con stupore alla potenza del nazionalismo emerso con tutta la sua forza politica durante gli eventi del febbraio di quell’anno. Eppure quanto accadde non avrebbe dovuto cogliere nessuno di sorpresa: data la struttura politica in cui le controparti avevano vissuto ed interagito per oltre settant’anni, era prevedibile che, prima o poi, la controversa questione del Nagorno-Karabakh sarebbe scoppiata. Un tale sistema, come quello sovietico, ha involontariamente creato nazionalismi etnici, come quello baltico, armeno-azerbaigiano e abcaso-georgiano, i quali spinti dal bisogno di auto-alimentarsi hanno generato narrazioni d’odio. Quelle armene e azere si legittimarono sulla brutalità degli scontri prima citati, quelli del 1905 e del 1918, a cui poi si aggiunse quello del 1988. Inoltre, va considerato che la disputa territoriale del Nagorno-Karabakh non era una disputa qualsiasi: era ed è tutt’oggi incentrata su un’area senza la quale gli armeni non sentono di essere pienamente tali e gli azeri pure. L’identità si mescola al prestigio.
Cause strutturali
L’Unione Sovietica è stata definita nel 1993 dallo studioso Ronald Grigor Suny come un’incubatrice di nuove nazioni. Ed effettivamente la politica delle nazionalità degli anni Venti aveva la volontà di favorire lo sviluppo di queste ultime, non di annientarlo. Almeno nel Caucaso. Ciò perché, in termini marxisti, le relazioni sociali all’interno di molte realtà locali presentavano ancora caratteri tipicamente feudali e città come Baku, Vladikavkaz, Groznyi e Stavropol costituivano isole urbane all’interno di un più ampio mare contadino-tribale. Pertanto, i bolscevichi, guidati da una genuina fede nella dialettica marxista, comprendendo che il Caucaso era ancora troppo arretrato per raggiungere nel breve periodo lo step socialista, cedettero alla necessità di rafforzare le identità nazionali viste come fase di transizione verso un futuro comunista, che, però, non arrivò mai. In ogni caso, fu con un tale scopo che vennero intraprese determinate misure[9], come quella relativa all’etno-territorializzazione. Ebbene sì, i sovietici territorializzarono l’etnia creando una piramide di entità autonome – dalle repubbliche più estese a territori più piccoli, il più piccolo dei quali aveva le dimensioni di un singolo villaggio – i cui confini erano vere e proprie frontiere etniche e politiche[10]. Ovviamente, anche se ai fini di tale analisi non è essenziale, è bene ricordare e sottolineare che, sebbene lo Stato fosse formalmente organizzato federalmente, il Partito Comunista era assolutamente centralizzato e prendeva ogni decisione per l’intera Unione da Mosca. Tuttavia, secondo la teoria sovietica, creare piccoli soviet sub-nazionali all’interno dei quali ciascuna minoranza etnica avrebbe potuto decretare per sé e avrebbe potuto avere l’ultima parola (o la penultima dopo Mosca), senza il rischio di assimilazione, avrebbe risolto gli scontri derivanti da un mosaico etnico regionale di una tale portata. L’assimilazione con il parent State (utilizzando la definizione di Tomáš Hoch and Vincenc Kopeček[11]) non era una scelta plausibile per il governo bolscevico[12] in quanto potenzialmente in grado di innescare un meccanismo di nazionalismo difensivo, con conseguente conflitto. Questa era la teoria. In pratica, si verificò il contrario.
Innanzitutto, la tracciatura di decine di migliaia di confini nazionali costrinse ogni villaggio e ogni individuo a dichiarare una fedeltà nazionale. Essere osseti, abchazi, azeri, armeni o georgiani acquistò un significato reale per la prima volta. Soprattutto perché c’era una gerarchia di nazioni. Ai primi posti si collocavano gli armeni e i georgiani in quanto ritenuti avanzati assieme a russi, ucraini, ebrei e tedeschi, mentre gli azeri si posizionavano ad un gradino inferiore poiché nazioni in formazione, che richiedevano aiuti allo sviluppo. Ciò significava che, come nella Russia zarista, mentre i primi potevano avanzare rapidamente nella scala sociale, gli ultimi dovevano accontentarsi di posizioni marginali[13].
In secondo luogo, una tale politica etno-territorializzante implicò la nascita di istituzioni locali legislative, esecutive e di partito. Infatti, nell’Oblast’ autonoma del Nagorno-Karabakh nacque una struttura politico-amministrativa ben organizzata: l’organo di base era il Soviet regionale che eleggeva un Comitato esecutivo, il cui presidente era il leader[14]. Fu infatti il Soviet regionale del Nagorno-Karabakh ad approvare nel 1988 la risoluzione che chiedeva il trasferimento dalla giurisdizione della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian a quella della Repubblica Socialista Sovietica dell’Armenia. Fu sempre lui, insieme a quello armeno, a dichiarare di voler procedere con la fusione in un’unica entità all’interno dell’Unione. Queste – all’epoca nascenti – istituzioni furono in grado di forgiare leader politici capaci di portare avanti proprie istanze e rivendicazioni.
Cause prossime
I conflitti non hanno mai una sola causa[15]: molteplici sono quelle che lo originano e molteplici sono quelle che lo accompagnano. È la prima distinzione da fare durante un’analisi di conflitto. Ciò che è visibile di un conflitto, ciò che è manifesto, è solo la punta dell’iceberg, mentre la parte più sommersa è impossibile da vedere a primo impatto. Quest’ultima, infatti, simboleggia le cause strutturali, difficili da identificare senza un’analisi approfondita. Sono cause di lungo periodo, sistemiche, radicate nella struttura di una società. Le cause prossime, invece, sono le più recenti, le più volatili, quelle che non generano il conflitto ma che si sovrappongono a quelle primordiali e lo complicano.
Applicando tale discorso al conflitto del Nagorno-Karabakh è emerso, nel paragrafo precedente, che furono le autorità sovietiche, offuscate dal sogno comunista, a rafforzare i diversi nazionalismi residenti nel territorio transcaucasico. I leader partoriti da tali sentimenti – e dalle istituzioni locali prima citate – si ritrovarono presto a voler risolvere quelle che consideravano proprie faccende domestiche senza l’intromissione russa. Effettivamente, l’arbitro sovietico, soprattutto negli ultimi anni di vita, non era stato in grado di fornire un verdetto sul contenzioso territoriale e, perdendo parte della sua autorità, non era più stato capace di bloccare tragedie come quella consumatasi nel 1988 (anno a cui si fa risalire l’inizio del conflitto), durante il quale i pogrom organizzati dagli azeri contro gli armeni e viceversa fecero rabbrividire la comunità internazionale.
Dunque, l’indipendenza dell’Armenia e dell’Azerbaigian (anche della Georgia ma questo è un’altra questione) va letta così: attraverso la volontà di affrontare i propri problemi nazionali senza ingerenze esterne. Tuttavia, la conquista dell’indipendenza nel 1991 fu un regalo inaspettato. Le élite al potere si ritrovarono a dover costruire dal nulla un nuovo Stato nazionale pienamente funzionante, senza aver alcuna esperienza in merito e senza essere pienamente consapevoli dell’entità del compito che dovevano affrontare. Creare l’immagine di un nemico comune avrebbe distratto la popolazione dal caos interno che si sarebbe generato e l’avrebbe mobilitata attorno agli ideali di solidarietà e lealtà, elementi necessari per un Paese neonato. I leader al governo questo lo sapevano. Per diventare consapevoli della propria identità collettiva, un “noi” deve essere sempre contrapposto ad un “loro”. Creare l’alterità è necessario. Ovviamente, essa è associata a caratteristiche diverse, se non opposte e negative rispetto a quelle del gruppo di appartenenza. L’altro è minaccioso perché non esistono possibilità di conoscere in anticipo le sue intenzioni. Ciò fa crescere la sensazione di allerta. Perciò, l’armeno iniziò a causare all’azero una percezione di potenziale pericolo e viceversa. In un tale clima di insicurezza, bastò una miccia e la guerra del 1992 divampò.
Conclusioni
«I have never ever thought that I can be friends with Armenians but I made few Armenian friends when I was living in Vilnius. I don’t feel threatened or scared around Armenians but still I have some anxiety. I think that young generations in my country are more rational and peace-lovers. Older ones are usually blame Armenians and majority of them are supporters of the war. They send their children to the war on purpose in order to protect and bring back the land. Personally, I think there is a possibility for peace. I hope».
Queste sono le parole di un venticinquenne azero, Turan, in soggiorno a Vilnius con i corpi di solidarietà dell’Unione europea. La sua ansia ormai interiorizzata quando è in presenza di armeni fa pensare a rancori di lunga data. In realtà, prima degli scontri del 1988, la maggior parte degli azeri del Karabakh andava d’accordo con gli armeni locali a livello quotidiano: lavoravano insieme, avevano le stesse tradizioni culinarie, parlavano rispettivamente la lingua dell’altro e avevano lo stesso modo di vestire e comportarsi[16]. È quindi falsa la nozione degli odi antichi. Questi sono stati creati a tavolino attraverso la (ri)costruzione di narrazioni di de-umanizzazione dell’altro nel tentativo di garantire, da un lato, la sopravvivenza della nascente Nazione azera e, dall’altro, quella della nascente Nazione armena. La mobilitazione attorno ad un territorio conteso va vista in quest’ottica.
Anche tra Georgia ed Armenia se ne interponeva uno. Tuttavia, il diverso significato che la popolazione armena attribuiva al Javakheti rispetto al Nagorno-Karabakh è uno degli elementi che spiega perché i due territori siano andati incontro ad una sorte differente. Il ruolo di Javakheti nella storia armena è stato in gran parte quello di una zona periferica, mentre l’Artsakh è stata – anche se solo per pochi decenni – una roccaforte armena sia dal punto di vista economico che culturale. Fu proprio la città di Shusha/Shushi a divenire uno dei principali centri culturali del vicereame russo del Caucaso nel XIX secolo con la più grande popolazione armena dopo Tiflis[17]. Ovviamente, oltre al motivo simbolico, se ne aggiunse un altro più concreto: l’impegno in un conflitto ridusse la capacità degli armeni di compiere sforzi sincronizzati per rispondere agli eventi che si verificarono contemporaneamente su un altro fronte. Il tempo e le risorse da dedicare ad altre situazioni turbolente furono ridotti. Per concentrarsi sul conflitto contro gli azeri, gli armeni attenuarono le tensioni con i georgiani.
In ultima analisi, però, sembra che il fattore più importante che spiega il diverso destino spettato ai due territori risieda nel fatto che, in epoca sovietica, la regione di Javakheti, a differenza di quella del Nagorno-Karabakh, non ricevette uno statuto di autonomia, impedendo la costituzione di strutture di autogoverno locale capaci di sviluppare il potenziale per entrare in conflitto aperto con Tbilisi dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica[18]. Sicuramente, gli armeni di Javakheti hanno creato numerose e vivaci associazioni nazionali, al punto che la regione ad oggi si trova in una situazione di perdurante tensione, tuttavia, essi non sono arrivati ad un’esplicita rivendicazione separatista (le loro richieste riguardano una maggior autonomia politica e culturale, l’uso della lingua armena nell’amministrazione, la fine dei tentativi di alterare la composizione etnica della regione, la salvaguardia del patrimonio artistico e religioso). Ciò conferma l’idea secondo cui l’etno-territorializzazione è stata fondamentale per porre le basi al conflitto dell’Alto Karabakh. Addirittura, gli stessi armeni di Javakheti hanno sostenuto gli armeni del Nagorno-Karabakh durante la guerra del 1992. Nessun armeno, ovunque abitasse, aveva accettato la decisione sovietica degli anni Venti di cedere la regione all’Azerbaigian: questa perdita venne e, tutt’oggi, viene considerata una delle più grandi tragedie della storia armena. Ciononostante, però, l’Azerbaigian non scenderà mai a compromessi con il principio di integrità territoriale che difende a denti serrati.
Note
[1] www.carnegieendowment.org/2022/04/25/ukraine-war-is-reshaping-armenia-azerbaijan-conflict-pub-86994
[2] M. KUBURAS, «Ethnic Conflict in Nagorno Karabakh», Review of European and Russian Affairs, n. 1, 2011.
[3] www. opiniojuris.it/oltre-la-fede-la-mediazione-religiosa-nel-conflitto-in-nagorno-karabakh/
[4] G. NATALIZIA, D. P. VINCELLI, Azerbaigian. Una lunga storia, Passigli Editori, Gennaio 2012, p. 29.
[5] T. DE WAAL, The Caucasus. An Introduction, Oxford University Press, Ottobre 2010, p. 33.
[6] A. MARSHALL, The Caucasus Under Soviet Rule, Routledge, Agosto 2010, p. 37.
[7] B. NAHAYLO, V. SWOBODA, Disunione sovietica, Rizzoli, Agosto 1991, p. 350.
[8] T. DE WAAL, Black Garden: Armenia and Azerbaijan Through Peace and War, New York University Press, Luglio 2013, p. 28.
[9] A. MARSHALL, The Caucasus Under Soviet Rule, Routledge, Agosto 2010, p. 37.
[10] T. MARTIN, The Affirmative Action Empire. Nations and Nationalism in the Soviet Union, 1923-1939, Cornell University Press, Novembre 2001, p. 100.
[11] T. HOCH, V. KOPEČEK, De Facto States in Eurasia, Routledge, Marzo 2021, p. 21.
[12] T. MARTIN, The Affirmative Action Empire. Nations and Nationalism in the Soviet Union, 1923-1939, Cornell University Press, Novembre 2001, pp. 32-33.
[13] T. DE WAAL, The Caucasus. An Introduction, Oxford University Press, Ottobre 2010, p. 80.
[14] T. HOCH, V. KOPEČEK, De Facto States in Eurasia, Routledge, Marzo 2021, p. 113.
[15] F. OLIVA, L. CHARBONNIER, Conflict Analysis Handbook: A field and headquarter guide to Conflict Assessment, United Nations System Staff College, Marzo 2018, p. 56.
[16] T. DE WAAL, The Caucasus. An Introduction, Oxford University Press, Ottobre 2010, p. 101.
[17] T. HOCH, V. KOPEČEK, De Facto States in Eurasia, Routledge, Marzo 2021, p. 118.
[18] A. FERRARI, (2010), «Armenia e Georgia, un rapporto complesso», ISPI Policy Brief, n. 47, 2010.
Foto copertina: Mappa del conflitto del Nagorno-Karabakh dopo la guerra del Nagorno-Karabakh del 2020. Wikipedia