Nuove applicazioni dell’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto.
Ai sensi del primo comma dell’art. 131-bis c.p., rubricato “Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”, “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità ed il comportamento risulta non abituale”.
La norma descrive un istituto del tutto peculiare che risponde alle specifiche esigenze di sussidiarietà ed extrema ratio del diritto penale nonché alla necessità di assicurare il rispetto del principio di proporzionalità della sanzione, il quale, a sua volta, postula la non punibilità di fatti dotati di scarsa offensività rispetto al bene giuridico tutelato. Come chiarito da consolidata giurisprudenza[1], scopo dell’istituto è dunque “espungere dal circuito penale” fatti che non mostrano un disvalore tale da giustificare l’intervento dell’apparato giurisdizionale. Inoltre, come desumibile dalla stessa attività del Legislatore – soprattutto attraverso ulteriori interventi normativi improntati al medesimo scopo[2] –, oltre alle finalità di carattere sostanziale già menzionate, l’istituto di cui all’art. 131-bis c.p. persegue un ulteriore interesse di carattere processuale: ridurre l’imponente mole di procedimenti giurisdizionali incardinati presso gli uffici giudiziari.
Le innegabili peculiarità della disciplina in esame, in origine, hanno alimentato dubbi circa la sua natura giuridica.
Affermare che questa abbia carattere processuale ovvero sostanziale è scelta foriera di rilevanti conseguenze sul piano applicativo; si pensi ad esempio ai risvolti che la novella legislativa assume rispetto a fatti commessi prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015 n. 28 (che ha introdotto l’art. 131-bis nel codice penale). Come noto, infatti, per gli istituti di carattere processuale vige il principio del tempus regit actum, mentre per gli istituti aventi carattere sostanziale risulta applicabile la disciplina di cui all’art. 2 comma IV c.p..
Chiarire l’intima natura della disciplina attualmente in esame appare, dunque, questione di particolare importanza.
Nonostante le similitudini con istituti affini[3] – che presentano senza dubbio natura processuale – è pacificamente ritenuto che la normativa di cui all’art. 131-bis c.p. assuma carattere sostanziale. Nello specifico, secondo dottrina[4] e giurisprudenza[5] si tratterebbe di una causa di non punibilità in senso stretto poiché il legislatore, mediante una valutazione di opportunità politico-criminale, in ossequio ai già menzionati principi di proporzionalità ed extrema ratio, ha scelto di estromettere dall’alveo della perseguibilità condotte che, pur essendo perfette sul piano oggettivo e soggettivo, disvelano un minimo grado di offensività rispetto al bene giuridico tutelato dalla norma violata. Proprio la circostanza secondo cui tale causa di non punibilità intervenga nei confronti di condotte perfette ed antigiuridiche ha consentito di distinguere tale figura dalle cause di improcedibilità, le quali, invece, rilevano nel caso in cui sussistano circostanze che non consentono l’instaurarsi del procedimento penale. A tal proposito l’istituto in esame deve inoltre distinguersi dalla diversa ipotesi di cui all’art. 49 comma II c.p. – c.d. reato impossibile – che sussiste allorquando l’azione criminosa posta in essere dal reo risulti del tutto inidonea ad arrecare offesa al bene giuridico tutelato. A differenza del reato impossibile, in cui l’azione è del tutto inidonea ad arrecare alcun pregiudizio, nell’ipotesi attualmente esaminata – di cui all’art. 131-bis c.p. – l’azione criminosa dovrà considerarsi completa sia sul piano oggettivo che soggettivo, così da risultare perfettamente idonea ad arrecare danno al bene giuridico tutelato – seppur in forma particolarmente attenuata.
Al fine di risolvere con certezza la questione afferente la natura giuridica dell’istituto in esame assume rilievo particolarmente pregnante la collocazione sistematica prescelta dal legislatore – Titolo V rubricato “Della non punibilità per particolare tenuità del fatto. Della modificazione, applicazione ed estinzione della pena” – che può consentire di escludere che la disciplina posta dall’art. 131-bis c.p. appartenga alla categoria delle cause di esclusione degli elementi costitutivi e di quelle estintive del reato.
Per le ragioni in precedenza esaminate sembra, pertanto, condivisibile l’opinione che riconosce la natura sostanziale della normativa introdotta dall’art. 131-bis c.p., quale causa di non punibilità in senso stretto.
Chiarita la fondamentale questione afferente la natura giuridica dell’istituto in esame deve procedersi all’esame dei relativi presupposti e limiti applicativi al fine di comprendere le ragioni che hanno reso necessari i ripetuti arresti della Corte Costituzionale, da ultimo intervenuta con la nota sentenza n. 156/2020 mediante cui ha pronunciato la parziale incostituzionalità dell’art. 131-bis c.p..
Esaminando la disciplina normativa emerge, ictu oculi, la necessità che l’esclusione della punibilità possa essere pronunciata solo nel caso in cui, sul piano sia oggettivo che soggettivo, emerga l’esiguità dell’offesa arrecata al bene giuridico tutelato.
Come desumibile dalla lettera della disposizione più volte richiamata l’interprete sarà chiamato a valutare “l’esiguità del danno o del pericolo” mediante gli indici di cui all’art. 133 I comma c.p., sempre che per il reato per cui si procede sia prevista una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni e se il comportamento criminoso non risulti abituale.
Proprio i due limiti, da ultimo, richiamati hanno determinato il sorgere di alcune perplessità che hanno reso necessario l’intervento della Corte Costituzionale al fine di fugare ogni dubbio circa la possibile incostituzionalità dei limiti posti dal legislatore.
Sembra opportuno chiarire preliminarmente che dall’esame delle pronunce che successivamente saranno dettagliatamente scrutinate, emerge la grande attenzione e precisione mostrata dalla Corte Costituzionale nell’esercitare i poteri costituzionalmente attribuitigli, poiché, rispetto alla questione afferente la legittimità dell’art. 131-bis c.p., è stato più volte chiarito dallo stesso Giudice delle Leggi che spetta al Legislatore sulla base delle proprie valutazioni politico-criminali, optare per l’introduzione di freni all’applicabilità di siffatto istituto, potendo la Corte intervenire solo allorquando tali scelte risultino essere illogiche, irragionevoli e dunque in contrasto con il dettato costituzionale[6]. La Consulta, dunque, ha scelto di non sovrapporre le proprie valutazioni a quelle normative, essendo il Legislatore l’unico organo istituzionale cui sono demandate siffatte valutazioni.
Senza dubbio assume rilevanza dirompente l’ultima (in ordine cronologico) delle pronunce che hanno coinvolto l’art. 131-bis c.p., poiché solo mediante tale decisione è stata dichiarata la parziale incostituzionalità della disciplina esaminata[7].
Per comprenderne al meglio le ragioni giuridiche dovrà procedersi al previo esame delle sentenze n. 207/2017 e n. 279/2017 mediante cui la Corte Costituzionale ha rigettato le doglianze prospettate dai giudici rimettenti scegliendo di confermare la legittimità costituzionale dell’art. 131-bis c.p., pur rilevando l’esistenza di un vulnus all’interno di tale disciplina. Quanto affermato circa il cauto rispetto delle prerogative legislative emerge proprio esaminando tali passaggi motivazionali.
Con la sentenza 21 dicembre 2017 n. 279, il Giudice delle Leggi ha ritenuto infondata ogni doglianza prospettata dal Tribunale di Padova, secondo cui il limite della «non abitualità della condotta» avrebbe reso la disciplina contenuta all’art. 131-bis c.p. costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 3, 25 e 27 Cost.. Alla base di tali doglianze veniva posta dal giudice rimettente la circostanza secondo cui tale limite avrebbe determinato la riemersione del c.d. «diritto penale d’autore».
L’incostituzionalità sarebbe, dunque, derivata dalla disparità di trattamento alla cui base vi sarebbero indici desunti esclusivamente dalla pregressa condotta del reo. In concreto, il Legislatore, a parità di disvalore della condotta avrebbe legittimato una sensibilità punitiva diversa a seconda del tipo di autore[8], rendendo così inapplicabile la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. ad una determinata “tipologia” di soggetti. L’ordinanza del Tribunale di Padova[9] ritiene, inoltre, che a causa di tale diversa reazione dell’ordinamento, sulla base di indici non legati al disvalore del fatto concretamente connesso, sarebbero frustrati anche i principi di legalità e finalità rieducativa della pena.
La Corte Costituzionale, come già anticipato, considera infondato ogni rilievo di incostituzionalità prospettato dal giudice rimettente.
Secondo quanto espresso dalla Consulta «la disposizione censurata non viola il principio di uguaglianza, dato che anche in presenza di fatti analoghi le ineguali condizioni soggettive giustificano il diverso trattamento penale, e per lo stesso motivo non è irragionevole e non risulta in contrasto con gli artt. 25 e 27 Cost. Posto che il fatto particolarmente lieve è comunque un fatto offensivo, che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire, sia per riaffermare la natura di extrema ratio della pena e agevolare la “rieducazione del condannato”, sia per contenere il gravoso carico di contenzioso penale gravante sulla giurisdizione, applicare la causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p. anche quando il comportamento illecito dell’agente risulti connotato dall’abitualità contrasterebbe con le esigenze di prevenzione speciale e significherebbe garantire all’imputato l’impunità per tutti gli analoghi reati che dovesse in futuro commettere»[10].
Diversa, invece, la vicenda che ha determinato l’emanazione della sentenza n. 207/2017, maggiormente connessa alla questione esaminata nella più recente pronuncia n. 156/2020.
I fatti da cui traevano origine entrambi i giudizi a quo riguardavano ipotesi di reato di ricettazione attenuata (art. 648 comma II c.p.). L’art. 648 c.p. prevede, come noto, per la ricettazione “ordinaria”, la pena detentiva della reclusione da due ad otto anni; per la fattispecie “attenuata” di cui al comma II, è, invece, prevista la sanzione della reclusione fino a sei anni. Evidente come non essendo previsto alcun minimo edittale riemerge, per quanto concerne tale specifico aspetto, la disciplina generale di cui all’art. 23 c.p., secondo cui «la pena della reclusione si estende da 15 giorni fino a 24 anni». Da ciò deriva che per la ricettazione “attenuata”, lo spazio edittale entro cui il giudice può stabilire la pena della reclusione è compreso tra quindici giorni e sei anni – a fronte della cornice edittale da due ad otto anni prevista per l’ipotesi di ricettazione “ordinaria”.
Proprio l’ampiezza dei margini edittali prevista per il delitto di ricettazione di cui al II comma dell’art. 648 c.p. determina l’inapplicabilità dell’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto in ragione del limite espressamente previsto dall’art. 131-bis c.p. – che come più volte affermato risulta applicabile solo a reati la cui pena detentiva non superi nel massimo i cinque anni .
Con l’ordinanza di rimessione del 14 gennaio 2016, n. 88, il Tribunale di Nola sollevava questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 131-bis c.p. nella parte in cui non ne era ammessa l’applicabilità per fatti di ricettazione “attenuata”. Il giudizio di legittimità, in questa occasione, veniva incentrato sulla mancata previsione legislativa di un limite minimo edittale al di sotto del quale fosse consentito al giudice di applicare l’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, anche se il relativo massimo edittale eccedesse il limite dei cinque anni previsto dalla disposizione di cui all’art. 131-bis c.p..
Risulta opportuno precisare che ove fosse stato previsto, accanto al limite individuato nel massimo edittale posto dalla norma incriminatrice violata, un limite minimo edittale nel senso sopra precisato, in ipotesi assimilabili a quella della ricettazione “attenuata”, il giudice avrebbe potuto procedere alla declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto a seguito di attenta valutazione in concreto di ogni circostanza sussistente, così da rispettare la ratio della scelta normativa in precedenza posta in luce[11].
Ad ogni modo, tale mancata previsione, ad avviso del giudice rimettente, non consentendo l’applicazione dell’istituto in parola ad ipotesi di reato sostanzialmente simili ad altre per cui è applicabile, determina la necessità di una declaratoria di incostituzionalità dell’art. 131-bis c.p. nella parte in cui non ne è ammessa l’applicazione all’ipotesi di reato di cui all’art. 648 comma II c.p..
Nell’ordinanza di rimessione sono così individuate innumerevoli fattispecie di reato considerate dal giudice a quo omogenee, rispetto alla ricettazione “attenuata”. La violazione (tra gli altri) del principio di eguaglianza contenuto nell’art. 3 Cost. sarebbe rilevabile proprio a seguito della comparazione con tali norme incriminatrici per cui l’art. 131-bis c.p. è applicabile (in ragione della sussistenza di un limite di pena massimo non superiore a 5 anni di pena detentiva).
Come già accennato, tuttavia, la Consulta si è pronunciata negativamente rispetto al contenuto dell’ordinanza di rimessione, ritenendo ogni questione prospettata infondata. Il passaggio motivazionale di maggiore rilievo – di fatto assorbente rispetto alle ulteriori doglianze prospettate dal giudice remittente – concerne l’esclusione che il limite massimo di cinque anni previsto dall’art. 131-bis c.p. determini un’irragionevole disparità di trattamento, ribadendo che l’estensione di cause di non punibilità, che costituiscono deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio, che appartiene primariamente al legislatore.
Ciò che, dunque, emerge dall’esame della sentenza della Corte Costituzionale, è la riaffermazione dell’impossibilità per il Giudice delle Leggi di sindacare le scelte legislative ove non si possa rilevare una manifesta irragionevolezza o illogicità. Al fine di avvalorare ulteriormente tale posizione la Corte sottolinea, inoltre, come i tertia comparationis citati dal giudice a quo risultino essere eccessivamente eterogenei per poter assurgere a parametro di riferimento in un giudizio di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 3. Attraverso tale passaggio motivazionale la Corte ammette, dunque, la possibilità che dinanzi ad ipotesi di reato eterogenee siano adottate scelte di politica criminale differenti, purché non risultino manifestamente irrazionali. Così, sulla base di tali rilievi, la Consulta conferma la legittimità delle scelte legislative per quanto concerne i limiti di applicabilità posti dall’art. 131-bis c.p..
Sebbene attraverso la sentenza 207/2017 la Corte abbia disatteso ogni questione di legittimità costituzionale prospettata dal Tribunale di Nola, il passaggio motivazionale conclusivo risulta particolarmente pregno di significato in quanto disvela un monito al Legislatore che, essendo stato disatteso, diviene determinante ai fini della pronuncia di incostituzionalità di cui successivamente si tratterà. Pur non sovrapponendo le proprie valutazioni a quelle legislative, la Consulta rileva l’esistenza di un possibile “cortocircuito” innescato dalla lettera della disposizione di cui all’art. 131-bis c.p. rispetto alla specifica fattispecie di cui all’art. 648 c.p..
La cornice edittale eccessivamente ampia prevista al comma II (per l’ipotesi “attenuata”) ben potrebbe generare un’anomalia in considerazione dell’asimmetria tra gli estremi del compasso edittale “giacché mentre il massimo di sei anni, rispetto agli otto anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione particolarmente contenuta, al contrario il minimo di quindici giorni, rispetto ai due anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione enorme”[12]. Da ciò deriverebbe la necessità dell’intervento legislativo al fine di ovviare ad ogni possibile cortocircuito che in concreto potrebbe verificarsi rispetto a fattispecie di ricettazione “attenuata” che risultino particolarmente miti rispetto al bene giuridico tutelato.
È a tal proposito innegabile che prevedere una pena minima al di sotto della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità possa rappresentare una soluzione alla questione[13].
Come detto, tuttavia, pur se possano prospettarsi innumerevoli soluzioni alla problematica afferente la disposizione di cui all’art. 648 comma II c.p., la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’istituto di cui all’art. 131-bis c.p., per due volte nel medesimo anno, ritiene di deferire ogni scelta in tal senso all’organo legislativo, cui sono demandate le scelte di politica criminale.
Tuttavia, il mancato accoglimento di tale “monito”, ha recentemente reso necessario un ulteriore intervento della Corte Costituzionale.
Nuovamente adita per pronunciarsi circa la legittimità costituzionale dell’art. 131-bis c.p. rispetto alla fattispecie di cui all’art. 648 comma II c.p., la scelta operata dal Giudice delle Leggi ha assunto carattere diametralmente opposto rispetto a quelle già esaminate n. 207/2017 e 279/2017.
Con la sentenza del 21 luglio 2020, n. 156 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 131-bis c.p. “per i reati – come la ricettazione “attenuata” – che lo stesso legislatore, attraverso l’omessa previsione di un minimo di pena detentiva e la conseguente operatività del minimo assoluto di cui all’art. 23 I comma c.p., ha mostrato di valutare in termini di potenziale minima offensività”. La declaratoria di incostituzionalità coinvolge, dunque, l’art. 131-bis c.p. nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva, lasciando intatti tutti gli altri requisiti applicativi dell’esimente in parola.
Dall’esame della chiara motivazione della decisione in esame emerge la circostanza per cui la Corte Costituzionale abbia scelto di intervenire a causa del perdurare dell’inerzia legislativa, in considerazione del “monito” già sollevato con la sentenza n. 207/2017.
La Consulta, infatti, ha mostrato come l’illogicità della scelta legislativa non si riferisca ai limiti posti dall’art. 131-bis c.p., essendo piuttosto illegittima la scelta di non consentire l’applicazione dell’istituto della particolare tenuità del fatto per ipotesi – come quella della ricettazione di cui all’art. 648 comma II c.p. – che in astratto il Legislatore stesso abbia considerato di tenue offensività rispetto al bene giuridico tutelato prevedendo, nel caso di cui al II comma, una pena minima edittale così esigua.
Al fine di dimostrare come la fattispecie di cui all’art. 648 comma II c.p. non sia particolarmente offensiva del bene giuridico tutelato, oltre al dato letterale afferente il margine del minimo edittale più volte richiamato, la Corte ha assunto quali tertia comparationis ipotesi di reato – come ad esempio furto e danneggiamento, rispettivamente artt. 624 I comma e 635 I comma c.p. – per cui la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è applicabile. Le fattispecie da ultimo menzionate sono state considerate (stavolta) omogenee rispetto alla fattispecie di cui all’art. 648 comma II c.p., ed è proprio per questa ragione che la Corte rileva l’incostituzionalità dell’art. 131-bis c.p. per violazione dell’art. 3 Cost.; medesime fattispecie di reato, sul piano dell’aggressione al bene giuridico tutelato, sarebbero irragionevolmente valutate in astratto in termini differenti. Come già accennato, ciò è desumibile dalla circostanza secondo cui per la ricettazione “attenuata” di cui al II comma dell’art. 648 c.p. il legislatore prevede una cornice edittale che spazia dal minimo di 15 giorni – previsto nel caso di specie dalla disposizione generale di cui all’art. 23 c.p. – ad un massimo edittale di 6 anni. La semplice sussistenza del massimo edittale che superi il limite di 5 anni previsto dall’art. 131-bis c.p. non è considerato dalla Corte elemento sufficiente per giustificare l’esclusione dell’applicabilità alla ricettazione “attenuata” dell’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto. Proprio la possibilità per il giudice di comminare una sanzione detentiva così esigua (da quindici giorni) disvela l’essenza di una fattispecie che, in concreto, ben può considerarsi scarsamente offensiva rispetto al bene giuridico tutelato. Tale considerazione, secondo la Consulta, è ancor più avvalorata dal confronto con le citate fattispecie che fungono da tertia comparationis, di fatto considerate pienamente omogenee in termini di offensività del bene giuridico tutelato rispetto all’ipotesi in esame. Dunque, l’impossibilità per il giudice di applicare l’istituto di cui all’art. 131-bis c.p. ad ipotesi sostanzialmente simili determina, ad avviso della Corte Costituzionale, l’incompatibilità dell’art. 131-bis c.p. con la disposizione di cui all’art. 3 Cost. nei termini in precedenza evidenziati.
Tale pronuncia assume dunque effetti particolarmente dirompenti poiché consentirà ai giudici di applicare la disciplina di cui all’art. 131-bis c.p. nonostante la disposizione incriminatrice violata preveda una pena massima edittale superiore al limite dei 5 anni ivi previsto. Seguendo, però, attentamente il decisum della Corte Costituzionale deve precisarsi che tale soluzione risulti possibile solo allorquando la specifica disposizione incriminatrice, non individuando alcun quantum di pena quale limite minimo edittale, determini l’applicazione della disciplina generale di cui all’art. 23 c.p., così da disvelare la possibilità che in astratto la fattispecie determini minima offensività rispetto al bene giuridico tutelato.
La lettura del decisum del Giudice delle Leggi sembra senza dubbio condivisibile pur se risulta necessario precisare che, come dimostrato dallo stesso giudice delle leggi, l’interprete, non potrà in alcun modo sovrapporre le proprie valutazioni a quelle legislative poiché, mediante la propria pronuncia, la Corte Costituzionale non ha modificato in alcun modo la struttura essenziale dell’art. 131-bis c.p.. Sebbene, come più volte sottolineato, prevedere un limite minimo edittale al di sotto del quale la disciplina della non punibilità per particolare tenuità del fatto sia applicabile, potrebbe consentire di risolvere ogni possibile frizione costituzionale, in ragione della possibilità che vi siano fattispecie incriminatrici che presentino caratteristiche simili all’art. 648 c.p., la cui struttura ha determinato la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 131-bis. È innegabile che, alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale esaminata, il limite della non abitualità della condotta, così come il limite massimo edittale di cinque anni previsti dall’art. 131-bis c.p., restano senza dubbio pienamente in vigore, risultando essere unici parametri di riferimento espressi ai fini dell’applicabilità dell’istituto in parola, così rispettando le prerogative rispettivamente attribuite alla Corte stessa ed all’organo legislativo.
Note
[1] cfr. su tutte sentenza Cassazione Sezioni Unite del 25 febbraio 2016, n. 13681.
[2] si pensi alla “sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto” del processo minorile ex art. 27 D.P.R. n. 448/1922; ovvero alla “esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto” nei procedimenti penali innanzi al Giudice di Pace disciplinata dall’art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274.
[3] cfr. riferimenti normativi contenuti in nota nr. 2.
[4] cfr. tra gli altri G. Marinucci-E. Dolcini, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano 2015.
[5] cfr. ex multis Cassazione Sezione III, 15 aprile 2015, n. 15449 nonché la già citata sentenza Sezioni Unite 25 febbraio 2016, n. 13681.
[6] cfr. a tal proposito la sentenza della Corte Costituzionale n. 207/2017 che dichiara infondate le questioni sottoposte dal giudice rimettente.
[7] cfr. sentenza Corte Costituzionale 21 luglio 2020, n. 156.
[8] cfr. G. Ballo, “Particolare tenuità del fatto: la Corte Costituzionale salva l’indice-requisito della non abitualità”, in diritto penale contemporaneo n. 5/2018.
[9] cfr. Tribunale di Padova ordinanza del 6 aprile 2016 n. 106.
[10] cfr. sentenza Corte Costituzionale del 21 dicembre 2017, n. 279.
[11] cfr. per una critica all’istituto così come congegnato dal legislatore Padovani, “Un intento deflattivo dal possibile effetto boomerang”, in Guida dir., 2015, n. 15).
[12] cfr. sentenza Corte Costituzionale 17 luglio 2017, n. 207.
[13] A tale soluzione la stessa Corte Costituzionale fa riferimento nella sentenza n. 156/2020.
Foto copertina: Immagine web Centro Ehs