La strage del naufragio di Cutro dello scorso 26 febbraio e le reazioni istituzionali che sono seguite ci spingono a riflettere sul significato dell’illegalità che viene imputata ai migranti: mentre la politica si domanda come fermare le partenze illegali, è bene fare un passo indietro e chiedersi il perché e il come i movimenti migratori entrino in conflitto con la legge.


A cura di Tommaso Contò

Il naufragio di Cutro

Decine di bare allineate sul pavimento del palazzetto dello sport di Crotone, le preghiere delle famiglie delle vittime, una comunità che si stringe nel dolore. Il naufragio di Cutro dello scorso 26 febbraio ci ha posto, ancora una volta, di fronte alle ingiustizie che attraversano il globo e che, quando arrivano tanto vicine a noi da infrangersi sulle nostre coste, toccano la nostra sensibilità, risvegliano sentimenti di umanità, galvanizzano l’attenzione e reclamano uno spazio nel discorso pubblico fintanto che la compassione scema per tornare alla solita, placida, indifferenza.
Mentre ancora si dibatte e si cerca di individuare un responsabile a cui addossare le colpe della tragedia consumatasi davanti alle coste calabresi nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, che siano gli scafisti, Frontex, la guardia costiera, il governo o chicchessia, è lecito venire investiti da un senso di impotenza. Noi, singoli, siamo piccoli di fronte alla morte degli altri. Molti avrebbero apprezzato una risposta più attiva e decisa da parte del governo; invece, la reazione dell’esecutivo di Palazzo Chigi è stata timida, è arrivata soltanto dopo essere stata sollecitata, e definirla fuori luogo è un eufemismo. Il ministro dell’Interno Piantedosi, mentre ancora si contavano le vittime, ha affermato: «L’unica cosa che va detta ed affermata è: non devono partire. (…) Io non partirei se fossi disperato perché sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi cosa devo chiedere io al luogo in cui vivo ma cosa posso fare io per il Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso.»[1] Giustapponendo queste parole alle immagini del naufragio gela il sangue. La premier Meloni, più moderata nei termini, si è mantenuta sulla stessa linea: «(…) per evitare che altra gente muoia vanno fermate le partenze illegali.» [2]
Dall’Italia, e in generale dall’Europa, il messaggio è chiaro: alcune categorie di migranti non sono benvenute. E questa è una dichiarazione di principi troppo semplicistica, acritica, espressione di una classe dirigente che non si interroga su come tale “illegalità” imputata ai migranti si venga a generare.

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L’illegalità del migrante

È necessario ripulire il lessico con cui si affronta la questione. Parlare di immigrati illegali è scorretto: un’azione può essere illegale, ma non una persona. Oltre al problema della connotazione fortemente negativa associata alla nozione di “immigrato illegale”, che impedisce un’analisi attenta e imparziale, il linguista Otto Santa Ana argomenta che come «non chiamiamo un pedone che attraversa nel mezzo della strada un pedone illegale» e «un ragazzo che salta la scuola per andare a Disneyland non è uno studente illegale», così parlare di migranti illegali è grammaticalmente scorretto.[3] Associare l’illegalità a una persona significa dare un giudizio totalizzante, che non ammette redenzione: l’umanità del migrante passa in secondo piano rispetto alla sua condizione di fronte alla legge. Nella letteratura accademica anglofona, spesso, si preferisce il termine illegalized: non illegale, ma “illegalizzato”, “reso illegale”; per ricordare che l’illegalità non nasce in modo naturale come conseguenza del passaggio di una persona da uno Stato a un altro, bensì è generata dal sistema legale, politico ed economico vigente.
I confini tra Stati non sono spazi neutri. Generano categorie di persone posizionandole all’interno di una gerarchia in base alla loro desiderabilità e, in ultima analisi, in base alla loro produttività economica: un expat occupa una posizione più elevata nella gerarchia migratoria rispetto a un “extracomunitario”, e ai piedi di questa scala sociale viene relegato il migrante illegale (o meglio, illegalizzato). A quest’ultimo status – o piuttosto a quest’assenza di uno status riconosciuto – corrispondono diritti pressoché nulli, associati a una condizione di subordinazione e alterità.
Solitamente, nel tentativo di comprendere i fenomeni migratori, è bene evitare la retorica delle fughe dalla miseria e dalla guerra verso terre promesse. Sono rappresentazioni semplicistiche che non colgono la complessità delle vicende umane. Dobbiamo pensare piuttosto a persone che utilizzano la propria capacità di agire e sfruttano le risorse a loro disposizione per migliorare le proprie condizioni di vita, che valutano le opportunità geografiche a propria disposizione e che compiono delle scelte; e a volte, ma non sempre, quella di partire è una scelta “obbligata” dalle circostanze, com’è sovente il caso dei migranti che attraversano il Mediterraneo per arrivare sulle coste italiane.
La causa ultima delle migrazioni illegali può essere ricercata nella mancanza di adeguati canali legali, ragionevolmente accessibili, per migrare. Bloccare le persone togliendo loro la possibilità di movimento non è concepibile. È necessario invece domandarsi come rendere sicuro il tragitto – o, perlomeno, non renderlo meno sicuro di quanto già non sia.
Le politiche migratorie dei paesi occidentali volte a ridurre o selezionare accuratamente coloro a cui è consentito l’ingresso costringono gli “indesiderati” a ricorrere a canali alternativi: se le rotte sicure e legali vengono sigillate per alcune persone, quelle pericolose e illegali sono ciò che resta loro. Prima di puntare il dito contro gli scafisti è sempre bene che un paese si chieda se non sia complice, o addirittura artefice, di un sistema che spinge i migranti ad affidarsi loro.
L’infelice assunto che sta alla base dell’operato del governo in materia di migrazioni, esemplificato dalle dichiarazioni dei ministri in relazione al naufragio di Cutro, è che i movimenti migratori siano di per sé un problema. La mobilità delle persone attraverso i confini statuali viene considerata solo in quanto conseguenza e, soprattutto, causa di crisi. Nel loro mondo ideale la mobilità non è contemplata e le società rimangono compartimenti pressoché stagni, facendo eccezioni solamente per pochi fortunati, accuratamente selezionati. La storia insegna che un tale mondo non è realizzabile, né tantomeno auspicabile.[4] È giusto e legittimo il desiderio che le condizioni nei paesi d’origine dei migranti che approdano sulle coste europee attraversando il Mediterraneo migliorino. È sacrosanto sostenere il bisogno di traversate più sicure. Ma invocare semplicemente la fine delle partenze “illegali” è scevro di ogni significato fintato che si agisce come parte del problema, e non della soluzione.


Note

[1] Matteo Piantedosi, dichiarazione del 26 febbraio 2023.
[2] Giorgia Meloni, dichiarazione del 4 marzo 2023.
[3] L. GAMBINO, «‘No human being is illegal’: linguists argue against mislabeling of immigrants», The Guardian, dicembre 2015.
[4] B. ANDERSON, N. SHARMA, C. WRIGHT, «Editorial: Why No borders? », Refuge, n.26, 2016.


Foto copertina: naufragio di Cutro