Come la missione imperiale e la gestione delle nazionalità all’interno di uno degli imperi più multiculturali di sempre hanno plasmato il nation-making russo.


A cura di Matteo Montano

Dostoevskij nel capitolo dedicato alla biografia del monaco asceta Zosima, nella sua ultima opera, “I fratelli Karamazov”, rintraccia nel “popolo russo” la capacità di resistenza alla modernità, colpevole di «isolare» l’individuo, a fronte di una idea maggiore, identificata da Zosima nella sottomissione alla divinità.
L’intera opera è la storia del confronto tra la dedizione ad un’idea totalizzante, al tempo stesso epistemologica ed escatologica, e dunque rassicurante, e la libertà dal dogma e dall’ideologia, che per lo scrittore russo assume piuttosto le sembianze di assenza.
Difatti, Zosima arriverà ad affermare che «un riformatore non credente non riuscirà mai a compiere nulla in Russia»[1]: ed infatti, la storia russa è permeata dall’idea di assolutismo.
Nel presente articolo, si è tentato di fornire al lettore una rapida disamina di alcune direttrici del mondo russo. Innanzitutto, si è voluto analizzare l’evoluzione della classe dirigente di Mosca (e San Pietroburgo), che sin da subito, al tempo della Rus di Kiev, si è identificata come diversa rispetto al suo popolo[2].
Tale diversità si è mantenuta non solo, ovviamente, nel XVII secolo (il secolo degli assolutismi), con la dinastia Romanov autoproclamatasi regnante per volere divino, ma anche nell’Ottocento, epoca dei nazionalismi, con la retorica della “nazionalità ufficiale” ovvero, il rilancio di una civilizzazione diversa da quella occidentale, all’insegna della sottomissione allo zar piuttosto che trovare la legittimità nell’idea di nazione risorgimentale tipicamente romantica.
Da questo momento storico in poi il Cremlino ha avuto la necessità di trovare una nuova missione per assicurarsi la capacità di esercitare la propria sovranità – come se si dovesse rispettare il “teorema di Zosima” ma mantenendo un unico filo conduttore: l’estrema centralizzazione del potere.
Il regime comunista è riuscito per circa settanta anni a rispondere a tali esigenze (missione imperiale e civilizzatrice, gestione delle nazionalità); è stato necessario attendere l’avvento di Vladimir Putin per riportare a Mosca lo zar con la sua missione. Successivamente, a tale questione si è tentato di affiancare il discorso nazionale russo, che si è sviluppato parallelamente al percorso storico della sua classe dirigente. Sin dagli albori dell’Impero con Ivan IV arrivando fino all’Unione Sovietica, la sottomissione all’autocrate – insieme alla fede ortodossa – era quanto bastava per essere un membro della comunità a tutti gli effetti.
Infine, come sfondo, è sempre necessario tenere presente l’eccentricità della Russia, rispetto all’Occidente, così “Europa” ma anche così diversa da noi; un posto dove la democrazia ha preso molto poco piede ma probabilmente trova una identità proprio per questo gioco di contrapposizioni.

La nascita di un’idea

Le prime avvisaglie di quello che sarà l’Impero russo le si possono rintracciare a Mosca, dove, affrancatasi nel 1480 dal domino mongolo, inizia quel processo di traslatio imperii che la porterà a reclamare l’eredità spirituale e culturale della capitale dell’ortodossia cristiana, Bisanzio.
Lo spostamento avviene simbolicamente a Mosca con le nozze tra Ivan III il Grande e Sofia Paleologa, ultima erede della dignità imperiale e fuggita da Bisanzio nel 1453 in occasione della conquista turca. Un ulteriore passo in avanti verso la formazione dell’entità imperiale avviene quando Ivan IV, noto nella storiografia occidentale come “il Terribile”, assume il titolo di Gran Principe di Mosca nel 1547 ma, con il rito di incoronazione, questi prende per la prima volta il titolo di zar (termine che i moscoviti lo utilizzavano per indicare sia il khan mongolo che l’imperatore bizantino).
Quando Ivan IV sale al trono i domini sotto Mosca si allargano verso est: con lui inizia una politica espansionistica che formerà questa realtà politica dalle fattezze sempre più imperiali. Dal 1552, con conquista dei khanati di Kazan e Astrachan, inizia la costante espansione dei confini dell’impero russo in tutte le direzioni che durerà fino al periodo sovietico. Si andava formando intanto un popolo, i cui contorni erano ancora molto labili, le cui due principali caratteristiche erano rispettivamente la professione di fede ortodossa e la sottomissione allo zar.
Tale “sottomissione” – che non è altro che il dominio assoluto del potere centrale sullo stato – si manifesta nei primi secoli di esistenza dell’Impero moscovita non come un dominio coloniale della maggioranza di etnia russa sulle altre, ma come comune sottomissione al potere dell’autocrate, come testimoniato dal grande studio dello storico tedesco Andreas Kappeler[3].
Difatti, almeno fin all’ultima parte del diciannovesimo secolo, ovvero in piena epoca di fioritura degli stati-nazione moderni, Mosca ha trattato con una certa equità le popolazioni dipendenti da essa. Dai nobili ucraini e polacchi fino a quelli tatari, l’Impero russo si è rapportato con i soggetti nazionali usando un simile modello: conquista militare, mantenimento della nobiltà riconoscendole uno status giuridico, rispetto della fedeltà a Mosca.
La sacralità, che non è altro ciò che è diverso da noi e terribilmente spaventoso secondo la definizione dell’antropologo Rudolf Otto, dello zar è sancita ulteriormente nel 1613.
Dopo il Periodo dei Torbidi, Michail Romanov viene eletto da una assemblea al titolo di zar. Egli però rigetta qualsiasi tipo di “condivisione” della sua sovranità sullo stato dichiarandosi zar per volontà divina «rivendicando la discendenza dalla dinastia dei Rurikidi e dai Variaghi»[4]
Finalmente, verso la fine del diciassettesimo secolo, lo zar Fedor III Romanov iniziò a riferirsi esplicitamente al suo stato come velikorossiiskoe tsastvie (il termine velikij significa grande, mentre il termine rossiskij è un termine utilizzato per indicare l’appartenenza allo stato russo. Si differenzia dall’aggettivo russkij, il quale indica invece l’etnia russa).
Secondo lo storico Richard Wortman, tale espressione indicava tre concetti che rinforzavano vicendevolmente l’impero: in primis, indicava il potere autocratico svincolato da altre limitazioni; indicava l’estensione imperiale su territori non russi; terzo, rinforzava l’eredità cristiano-bizantina dell’Impero russo[5].

Leggi anche:

Nazione

Con lo svilupparsi dei sentimenti nazionali dopo le guerre napoleoniche lo stato russo si trova a dover difendere il proprio equilibrio da una duplice sfida: da un lato nelle nazionalità soggette, in primis in quella polacca, inizia fiorire un revanscismo militante che porterà per tutto il diciannovesimo secolo a sommosse e congiure contro il regime zarista; dall’altro sarà lo stesso patriottismo russo, con il fiorire dello slavofilismo, ad espandersi in opposizione alla tendenza europeizzante che si è avuta nel secolo precedente a partire dalle riforme di Pietro il Grande.
Dopo la vittoria su Napoleone, presentata dalla propaganda di stato come volere di Dio non come azione popolare, la Russia emerge come lo stato più autocratico e meno colpito dal nazionalismo. La fondazione della Sacra Alleanza è presentata come un patto tra i tre popoli cristiani dei tre stati membri (gli Asburgo erano cattolici, la Prussia era uno stato protestante e la Russia ortodossa) sottomessi “all’autocrate del mondo”, Gesù Cristo. Con Nicola I, il gendarme d’Europa, avviene la più completa concettualizzazione dei tre pilastri dottrina di stato russa nota come nazionalità ufficiale, basata sui principi di autocrazia, ortodossia, nazionalità. Sviluppata dal ministro dell’educazione di Nicola I, Sergeij Uvarov, la dottrina cercava di connettere lo stato con la società ribadendo il legame supremo tra lo zar e il popolo. Nelle parole di un osservatore dell’epoca, il giornalista Fedor Bulgarin[6], la necessità di avere in Russia niente altro che una “nazionalità ufficiale” fondata sulla fede e sulla sottomissione all’autocrazia era data dall’immensa grandezza dello stato e della sua estrema diversificazione.
La nazionalità ufficiale nascondeva dunque la frattura tra la nazione e la dinastia reale ed era un vero e proprio tentativo di mantenere unito lo stato nel periodo dei risorgimenti nazionali.
La nazione, sconnessa dallo stato, diveniva dunque una fonte di legittimità inaccettabile per lo Zar, il quale, aveva necessità di ricevere dalla divinità la sua missione. Difatti, la maggiore intelligencija del periodo, ovvero gli storici “statisti” Konstantin Kavelin, Boris Chicherin e Sereij Solovev si concentrava su una interpretazione statuale della storia russa: è stato lo stato, quindi lo zar, più che il popolo (concetto di per sé molto labile in un impero con circa 100 nazionalità diverse secondo i censimenti), ad aver reso possibile l’evoluzione della società russa.
Dopo le rivolte polacche della seconda metà dell’Ottocento e dopo l’assassinio di Alessandro II, lo zar Alessandro III iniziò politiche russificatrici, al fine di arginare le varie sfide nazionali. Tuttavia, già il Ministro Witte notò il pericolo del nazionalismo, sia russo che quello delle minoranze, annotando così nel suo diario: «è impossibile, a cavallo del 19esimo e 20esimo secolo, condurre politiche che ignorino le tendenze nazionali delle minoranze che sono entrate nell’Impero Russo.
Il motto di questo impero non deve essere “li renderò tutti veri Russi” – questo ideale non unificherà la popolazione, non creerà un unico spirito politico»[7]. Difatti, lo zar fallirà nel tentativo di mantenere lo stato.
Con lo scoppio della guerra civile, i monconi dei Bianchi falliranno nel guadagnare il supporto popolare e l’Impero di Mosca dovrà indossare nuove vesti per mantenersi in vita.

Missione

Con il crollo dell’Impero austro-ungarico e quello ottomano e con il collasso di quello zarista, Lenin e Stalin hanno dovuto trovare una nuova formula per mantenere insieme quanti più territori possibili dell’ormai deceduto Impero dei Romanov.
Con il suo fondamentale saggio, Terry Martin ha mostrato come l’Unione Sovietica sia stato l’unico affirmative-action empire. Attraverso la nuova epistemologia marxista teorizzata da Stalin ne “Il marxismo e la questione nazionale”, le comunità nazionali venivano ora pensate come dei soggetti da tenere al centro della riflessione politica, sebbene questi non siano prodotti da un qualsivoglia passato mistico ma semplicemente come gruppi affermatisi storicamente.
Nella prima parte degli anni ’20, in URSS sono state implementate dunque forti politiche di “indigenizzazione” (korenizatsiia) volte a diffondere e implementare le culture delle popolazioni soggette.
Non solo: fu possibile una proliferazione di soggetti autonomi (oblast, guberniia sino ad arrivare alle repubbliche) per tutte le nazionalità (circa 88 autonomie). Tuttavia, ben presto, complice anche la prematura morte di Lenin, l’indigenizzazione provocò un cortocircuito ideologico. Per Mosca e per Stalin l’indigenizzazione era, per utilizzare i termini di Martin, una politica di “secondo rango” di fronte all’obbiettivo principale del PCUS, la collettivizzazione e l’industrializzazione forzata.
La resistenza dei contadini, soprattutto in Ucraina, a cui Stalin assegnò una connotazione nazionale, alle politiche pianificatrici centrali, provocò la spietata repressione moscovita che generò poi l’holodomor[8].
Questo evento è emblematico della parabola della gestione di Mosca del suo impero (sia zarista che sovietico): si può assumere toni nazionali nelle varie zone dell’impero, ma il volere di Mosca e del suo autocrate è legge inderogabile.

Civilizzazione

All’indomani del collasso sovietico, sebbene ci sia stata una rimodulazione dell’Impero di Mosca, secondo lo storico Adriano Roccucci, la continuità tra i vari soggetti imperiali è innegabile[9] (Impero zarista – Unione Sovietica – Federazione Russa). Pertanto, dopo il decennio iniziale di crisi sotto la guida di Boris Eltsin, dove Mosca ha subito la più grande riduzione dei territori ad essa soggetti della sua storia, con Putin c’è stata una riquadratura degli obbiettivi strategici della nuova Federazione Russa.
La rimodulazione c’è stata, tra gli altri, nel discorso nazionale. Malgrado l’invito di Eltsin a «prendere quanta più sovranità possibile» rivolto alle minoranze presenti in Russia, le due guerre in Cecenia hanno presto ristabilito l’imperativo del Cremlino di non cedere più parti del suo territorio. Con il susseguirsi del deterioramento delle relazioni con l’Occidente, a partire dalla celeberrima Conferenza di Monaco del 2007, Putin ha elaborato un discorso nazionale alternativo, di civilizzazione diversa rispetto a quella occidentale. Analizzando i discorsi pubblici degli esponenti del Cremlino, si può notare come a partire dagli anni ’10 del nuovo millennio, l’aggettivo russkij venga preferito a quello rossiskij, dando ben più centralità al russian core dello stato.
Tuttavia, come nota Helge Blakissrud, tale terminologia non è da intendersi come etno-nazionalista bensì come civica: non è la discendenza o la famiglia a rendere un individuo russkij, ma l’adesione alla sua cultura, alla lingua e soprattutto ai suoi valori culturali. A seguito del famoso discorso di Putin contro la Gayropa del 2012, la retorica del Cremlino ha iniziato a riferirsi alla Russia come uno stato-civilizzazione (gosudarstvo-tsivilizatsiia).
Da qui è nato il concetto del “Mondo Russo” (Russkij Mir), che mira ad aumentare il soft power di Mosca sia verso i 25 milioni di russi etnici che vivono fuori dai confini nazionali, sia verso coloro i quali cercano una “civilizzazione” e un mondo di valori diverso rispetto a quello liberal-occidentale[10].

Conclusione

In questa sede si è provato ad analizzare il concetto, ritenuto qui fondamentale, di sottomissione ad una classe dirigente “sacrale”, quindi intoccabile e altera, e la sua importanza per il processo di nation-building della popolazione russa.
La grande varietà etnica dei territori soggetti al Cremlino ha reso impossibile cercare nella nazione etnica la fonte di legittimità statale, pertanto Mosca ha sempre avuto la necessità di costruirsi una nuova missione.
Pur non essendo possibile qui compiere una disamina e una comparazione con gli analoghi processi fatti dagli stati-nazione del XIX secolo in Europa occidentale, è interessante notare come negli ex territori della Rus’ si sia mantenuta una entità imperiale sovranazionale sino almeno al 1991.
Il mantenimento del difficile equilibrio dei vari gruppi nazionali all’interno dell’Impero è stato il principale motivo di preoccupazione della classe dirigente di Mosca e San Pietroburgo.
Gli ultimi zar hanno tentato di mantenere l’impero attraverso una politica russificatrice nell’ultima parte del XIX secolo e ciò ha condotto, insieme ad altri fattori, alla sconfitta dei Bianchi durante le guerre civili sorte dopo il collasso dello stato nel 1917. Lenin e Stalin hanno trovato una formula capace di tenere incollato, e addirittura ingrandire come mai era stato fatto, il dominio della Terza Roma, con una nuova missione palingenetica.
Tuttavia, nel momento in cui le crisi del sistema economico comunista emersero, riemersero anche i problemi che erano sottostati, come un unico filo conduttore: il nazionalismo grande-russo e russificatore, che opprimeva le nazionalità soggette. Un netto peggioramento delle relazioni tra Russia e Occidente, insieme con un revanscismo imperiale da parte di Mosca, ha poi imposto a Mosca la necessità di ritrovare una narrativa e una missione – e si ricordano qui le parole di Zosima – per assicurare alla Russia il suo posto nel mondo, con il suo unico caposaldo di sempre: l’autocrazia.


Note

[1] F. Dostoevskij, I Fratelli Karamazov, Garzanti, 2006, p. 432.
[2] R. G. Suny, The Empire Strikes Out: Imperial Russia, “National” Identity and Theories of Empire in (a cura di) R. G. Suny, T. Martin, A State of Nations. Empire and Nation-Making in the Age of Lenin and Stalin, Oxford University Press, 2001, p. 35
[3] A. Kappeler, La Russia. Storia di un Impero Multietnico, Edizioni Lavoro, 2006.
[4] R. G. Suny, The Empire Strikes Out: Imperial Russia, “National” Identity and Theories of Empire in (a cura di) R. G. Suny, T. Martin, A State of Nations. Empire and Nation-Making in the Age of Lenin and Stalin, Oxford University Press, 2001, p. 33.
[5] R. Wortman, Myth and Ceremony in Russian Monarchy from Peter the Great to the abdication of Nicholas II, Princeton University Press, 1995, p. 44.
[6] Citato in, N. Riasanovskij, Nicholas I and Official Nationality in Russia, University of California Press, 1969, p. 77.
[7] Francis C. Weislo, “Witte, Memory, and the 1905 Revolution: A Reinterpretations of the Witte Memoris”, Revolutionary Russia 7, no. 2, 175.
[8] T. Martin, The Affirmative Action Empire: Nations and Nationalism in the Soviet Union, 1923-1939, Cornell University Press, 2001.
[9] A. Roccucci, Russia-URSS-Russia. Interpretazioni e Metamorfosi di un Impero, in Limes, CCCP. Un Passato che Non Passa, 2, 2020.
[10] H. Blakissrud, Russkij as the New Rossiskij? Nation-Building in Russia after 1991, in Nationality Papers (2023), 51, Cambridge University Press, pp. 64-79.


Foto copertina: V.V. Kandinskij, La vita variopinta, 1907. Tempera su tela, 130×162,5 cm.
Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus. Wikipedia