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Attraverso quali dinamiche si può affermare che il populismo agisca all’interno dei sistemi democratici e quali sono gli elementi liberal-costituzionali maggiormente esposti all’opera di lenta de-strutturazione da queste innescate?


 

 

 


Quando si parla di “strumentalizzazione” delle masse o di “manipolazione del consenso” si è soliti pensare che siano caratteri propri solo ai regimi totalitari, (particolarmente evidenti nelle forme del nazionalsocialismo e del fascismo), i quali, a differenza dei “semplici” autoritarismi, (le dittature), mirano alla costruzione di un sistema di dominio (soprattutto psicologico), di cui strumenti indispensabili sono: un’ideologia di base, diffusa in maniera capillare attraverso la propaganda; un capo carismatico, che instaura un rapporto “diretto” con il suo popolo (ridotto in massa uniforme e omogenea); infine la continua minaccia di uso del terrore, pronto a contrastare coloro che non si adeguino ai canoni imposti.
Eppure, già C. Schmitt, nella sua Dottrina della Costituzione, dice : “In ogni democrazia ci sono sempre partiti, oratori e demagoghi […] oltre a stampa, film e manipolazione psicotecnica delle grandi masse. Tutto ciò si sottrae a una completa disciplina. Esiste perciò sempre il pericolo che forze sociali invisibili e irresponsabili dirigano la pubblica opinione e la volontà del popolo[1].

La presenza di una democrazia (compresa quindi quella costituzionale), non scongiura affatto dalle stesse insidie che caratterizzano i regimi totalitari, nonostante la sostanziale differenza da questi sia data dal fatto che, in virtù dell’esistenza di base delle forme democratiche (caratterizzate da un necessario pluralismo politico), vi sia ora una platea di capi-demagoghi a contendersi il ruolo di “guida del popolo”, mediante l’uso di una retorica che tuttavia appare colma di riferimenti analogici al totalitarismo .

Con ciò preme sottolineare che si tratta pur sempre di principi antitetici a quelli propri della liberal-democrazia: l’anti-pluralismo, il rifiuto della mediazione politica (in particolare l’antipartitismo), e di tutto ciò che rappresenti un “vincolo” (o meglio, un contrappeso) all’ideale del “popolo (illimitatamente) sovrano”; osservazioni, queste, che conducono ad affermare che in ogni regime demagogico si trovi nascosta una “vocazione” totalitaria.

Il populismo demagogico però non è percepito fin da subito quale forma autocratica di governo,  anzi, essa appare piuttosto come una forma di governo “devota” al popolo, (a partire dall’esaltazione delle sue più profonde radici ), e pronta quindi a coglierne tutti i desideri, le passioni e le pulsioni più profonde, per far sì che i governanti siano davvero (ma in realtà sarebbe corretto dire sembrino) lo “specchio” dei governati: questa prospettiva non la fa coincidere semplicemente al prototipo della “democrazia diretta” (quella che si fa risalire all’Ecclesia dei cittadini ateniesi, le cui sole tracce oggi si ritrovano in svariati strumenti di partecipazione normalmente previsti in Costituzione, tra cui il referendum), per quanto la sua idealizzazione sia uno dei metodi essenziali per far fiorire i consensi, ma   più correttamente viene inquadrata nella formula di “democrazia plebiscitaria”[2].  Elemento essenziale per il successo della demagogia è infatti il continuo riferimento al popolo, un popolo che però non è inteso correttamente, quale costituito dai singoli cittadini, (elettori o meno), ma concepito organicamente e atomisticamente come “massa”.

Aristotele descrive giustamente questa forma “degenerata” di democrazia, sottolineandone la sua vicinanza alla tirannide, poiché, egli afferma : “i molti sono sovrani non come singoli, ma nella loro totalità[3]”, ed è allora appunto che “appaiono i demagoghi”, i quali assumeranno la stessa funzione degli “adulatori” del tiranno (esattamente il demagogo sta al popolo come gli adulatori stanno ai tiranni). L’unica, sottile, ma determinante differenza si ritrova se si considera che, mentre gli adulatori rimangono pur sempre vincolati al proprio tiranno, nella demagogia, poiché il popolo non riesce facilmente ad uniformarsi quale “macro-soggetto”, il demagogo stesso (prima o poi) dovrà convertirsi in tiranno[4].

Di tale popolo “costruito” come plebs non possono far parte coloro che ne “corrompono” in qualche modo l’uniformità, o perché non condividono quelle stesse origini comuni al resto dei componenti (da qui l’ inclinazione discriminatoria tendente al nazionalismo presente in quasi tutti i movimenti populisti), o anche perché muniti di maggiori mezzi economici (da cui  discende il basilare disprezzo per i ceti “più abbienti”, che nel linguaggio populista contemporaneo si traduce nella sistematica accusa rivolta a tutto ciò che in generale appartenga al campo economico[5]), o finanche perché dotati di maggiori conoscenze, (bersaglio particolarmente noto in tutte le forme di populismo è la cosiddetta casta dell’ intelligencjia[6], attualmente indicata con espressioni quali espertocrazia o dei “tecnocrati”).

Tutti questi soggetti sono considerati “nemici del popolo”, e a tal fine si suole indicarli con termini indistinti, il c.d. establishment, o élites, o “poteri forti”, in cui l’essere collocati, a prescindere dalla propria area di provenienza (politica, economica, culturale o scientifica), comporta automaticamente l’esser giudicati parte di una casta privilegiata, corrotta e improduttiva, distante dal “reale popolo” che invece lavora e chiede diritti.

Tema caro al populismo è difatti la logica del contrasto “nemico-amico”, una logica semplice e comprensibile a tutti, su cui si fonda gran parte della speculazione retorica del demagogo: egli infatti si presenta solitamente quale “amico” del popolo, dal momento che proviene dal popolo e ne condivide le ragioni (e in special modo le “passioni”); il suo messaggio è chiaro, il suo stile comunicativo, (il che è molto diverso da  “dialogico”), diretto, emotivamente coinvolgente; il suo intento è quello (apparentemente innocuo, e anzi per certi versi corretto) di “fare il suo dovere”, (in base a una sorta di “predestinazione”, che si colloca anche al di sopra di qualsiasi logica elettorale), ovvero tradurre la volontà popolare in realtà, non accontentandosi solamente di “rappresentarla”, bensì pretendendo di “incarnarla” nella sua stessa persona[7]. Egli così non è un semplice “governante”, egli è un leader , spesso posto a capo di una formazione politica, che però tende sempre di più a non volersi definire “partito”, preferendo denominazioni più “neutre” e funzionali (quali movimento, fronte, blocco), che a loro volta non si esprimono attraverso le classiche “vie” istituzionali del sistema parlamentare (bandite quali “inutili lungaggini”, per di più fonte di corruzione ed esposte alla “contaminazione” lobbistica), ma tramite l’appello diretto al popolo, rivoltogli attraverso la sola voce del “capo carismatico”.

Qui appare davvero il lato più “inquietante” di questa contorta evoluzione della democrazia: la sfiducia nelle istituzioni della rappresentanza comporta il “naturale” ripiego del popolo ad affidarsi ad altre modalità di comunicazione, più dirette e a volte anche più drastiche rispetto al debole associazionismo partitico, la quale natura dipende a questo punto dagli strumenti che materialmente possono costituire un‘alternativa efficace.

Se i “populismi” del passato hanno avuto a disposizione il solo uso della parola (a cominciare dall’ emblematica abilità oratoria di Pericle, per passare ai movimenti propagandistici nelle campagne russe e ai programmi economico-sociali di tono paternalistico in America Latina), quelli di oggi vivono in un contesto particolarmente favorevole: il mondo della tecnologia, con i mezzi di comunicazione di massa, offre tutte le potenzialità per realizzare appieno l’ingegnoso (e oscuro) disegno del demagogo, quello (“profetizzato” da Schmitt)[8] di assumere il completo controllo sulle opinioni e sugli interessi dell’intera comunità. Interessi che essenzialmente non verranno “filtrati” da alcun corpo intermedio, né in qualche modo elaborati per essere inseriti nella fondamentale categoria del Bene comune[9], essi invece verranno semplicemente divulgati (tramite i molteplici canali esistenti, istituzionali e non), e ciò li renderà ancor più facilmente esposti ad alterazione e/o manipolazione[10].

Queste dinamiche però, oltre che di difficile dimostrazione, sono in principio scarsamente percepite dalla società, che in tanto vive sempre più assecondata (e non ascoltata), chiusa nei suoi stessi desideri (che si finge siano gli stessi per tutti)[11], “assuefatta” dal mito dell’uomo medio che le fa da “guida straordinaria”[12].


Note

[1] Cit.C.Schmitt, Verfassungslehre, Dottrina della Costituzione, op.cit., p. 324

[2] S.Carloni, La dialettica tra democrazia rappresentativa e democrazia plebiscitaria,(a partire da un saggio di Ernst Fraenkel) op.cit., pag. 5 ss, : «Quasi specularmente, anche la forma di democrazia che Fraenkel chiama “plebiscitaria” non si identifica sic et simpliciter con la “democrazia diretta”(o immediata) […]: sebbene infatti il sistema di governo plebiscitario si sia sviluppato “sulla base della adunanza di tutti i cittadini attivi”, i suoi sostenitori non contestano, sia pure “per ragioni di opportunità, l’esigenza di organi rappresentativi”[…], ma essi vedono  “in una decisione parlamentare solamente il surrogato rispetto a un plebiscito”»

[3] Aristotele, Politica. Costituzione degli Ateniesi, Laterza, Bari 1972, 1292a, pag. 200.

[4] L.Ferrajoli, Democrazia e populismo, op.cit., pag. 516

[5] Particolarmente sfruttato dai “populisti” di tutti i tempi è il tema dell’ ingiustizia economica subita dal “piccolo” popolo (dal caso dei farmers americani) , o in certi casi già lontano dall’ideologia rurale-contadina del populismo russo, ma pur sempre vivente una situazione transitoria di netto disagio, di fronte al quale non si sente tutelato (il caso specifico delle grandi masse urbane latinoamericane di inizio ‘900, mobilitate dai leader attraverso il ricorso ad ampie politiche sindacali). Oggi il tema si fa sempre più complicato, datosi che lo spazio dell’economia ha superato i confini nazionali: ciò ha determinato un controverso rapporto di subordinazione della “politica” all’”economia”, da cui discende, per influenza del populismo, la critica generalizzata sia alle responsabilità dell’una (economia e la finanza mondiale), che alle mancate “riforme” dell’altra (i legislatori, impotenti nei confronti dei mercati). In un tale contesto, a rimetterci sono pur sempre i diritti delle persone (dai diritti dei lavoratori, ai servizi sociali, al mancato controllo sulle imposte), di fronte alla devastante conclusione per cui “non ci sono alternative”.

[6] Parola coniata in Russia già a partire dal XVIII secolo, indicante in generale la classe “colta” della società. Essa veniva tuttavia utilizzata dalla seconda metà del XIX secolo per designare in particolare la categoria socio-politica di intellettuali-progressisti, legati alle idee liberali (di provenienza Occidentale) e ad un radicale riformismo costituzionale, dunque potenzialmente tutti “nemici” delle idee del “popolo comune” (i populisti). Da questa categoria proverranno più tardi gli intellettuali militanti  nell’era del socialismo russo. (fonte Enc. Treccani online)

[7] A.D’atena, Tensioni e sfide della democrazia, op.cit., pag. 13 ss : «[..] Max Weber, quando metteva in luce la elementarietà espressiva della democrazia diretta, la quale, potendo contare su sole due parole –Ja oder Nein- non è in condizione di concorrere a decisioni complesse [..] . è vero che i parlamentari, quando sono chiamati ad esprimere il proprio voto, dispongono del medesimo, elementarissimo vocabolario. Essi tuttavia, attraverso la discussione e attraverso la proposta i emendamenti, possono concorrere alla costruzione del testo normativo». E poi, sull’importanza della rappresentatività per la tutela del rapporto responsabilità/fiducia tra eletto ed elettore: «Non può inoltre non considerarsi che la responsabilità politica postula la distinzione tra chi “risponde” e chi fa valere la responsabilità. Essa quindi senza istanze rappresentative non esiste; perché solo tali istanze rendono possibile al corpo elettorale sanzionare, con lo spostamento dei consensi, le maggioranze politiche che non abbiano soddisfatto le attese».

[8] Oltre al passo già citato, dalla Dottrina della Costituzione, op.cit., pag. 322, si evince un’altra evocativa suggestione dell’autore, per cui : «Potrebbe immaginarsi che un giorno, per mezzo di ingegnose invenzioni, ogni singolo uomo, senza lasciare la sua abitazione, con un apparecchio possa continuamente esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste opinioni vengano automaticamente registrate da una centrale, dove occorra solo darne lettura ».

[9] Categoria che ha invece un valore intrinsecamente relazionale, in quanto la sua identificazione può avvenire solo sulla base della stessa  esistenza di un popolo, il quale si fonda sulla coesistenza. Per questo in uno Stato è fondamentale mantenere in vita tutti i presupposti della c.d. socialità. V. la costituzione pastorale del Concilio Vaticano II Gaudium et spes, n.26, che definisce “bene comune” «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente»

[10] A.Spadaro, Su alcuni rischi, forse mortali..op.cit. , pag. 19 : «[…] dall’attuale, enorme incremento della portata e diffusione dei mezzi di comunicazione e informazione di massa, che possono indurre a “emotivismo” perché operano in tempo reale (internet, social networks, blogs, smartphones..). Essi hanno reso centrale, oggi più che mai, il ruolo della c.d. opinione pubblica. Purtroppo la possibilità che- anche nei regimi democratico-costituzionali- l’opinione pubblica sia manipolata è altissimo. Il populismo è la più pericolosa – perché strisciante, subdola e impercettibile-forma di corruzione/manipolazione del processo democratico. […] anche quando assume le forme più accattivanti di “democrazia dei sondaggi” o addirittura “telematica”.»; ancora,  A.D’Atena, Tensioni e sfide della democrazia, op.cit, 15 : «è infatti noto che, in virtù delle tracce che lasciamo in rete, il “profilo” di ciascuno di noi è riducibile ad un algoritmo, che può circolare senza controllo e che consente che ci vengano indirizzati messaggi su misura, corrispondenti a ciò cui siamo maggiormente sensibili. Senza contare che il medesimo algoritmo rende possibile l’isolamento del cittadino elettore in una sorta di bolla informativa dalla quale sono esclusi tutti i contenuti che potrebbero metterne in discussione i pregiudizi».

[11] Ancora illuminanti le considerazioni di A. De Tocqueville, op.cit., libro II, cap VI, pag. 812, : «Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su sé stessi per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. […] quanto al resto dei cittadini, egli vive al loro fianco, ma non li vede, li tocca ma non li sente; non esiste che in sé stesso e per sé stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire che non ha più patria. Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare […]; è contento che i cittadini si svaghino, purchè non pensino che a svagarsi».

[12] A.Spadaro, Costituzionalismo vs. Populismo, op.cit., 16 : «Il populismo si basa sull’esaltazione dell’uomo medio-melius mediocre- ed è “un concetto camaleontico che implica talvolta la denigrazione delle masse, ma che rinvia ormai a una convenzione in cui il popolo si configura quale entità indivisa ed omogenea, composta da uomini ordinari guidati da un capo straordinario”».(Cfr. R.Bodei, Stregati dall’uomo qualunque, Domenicale del Sole 24 Ore, 17 maggio 2009, pag. 1).


Copertina: Civicus.org

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