La lenta opera di “erosione” interna messa in atto dal populismo demagogico non può rivolgersi solo alla sfera della rappresentanza politica: per godere di una sua piena efficacia necessiterà dell’assoluta assenza di garanzie, specie di quelle giurisdizionali.


 

Se la crisi della democrazia (costituzionale) innescata dal populismo si riflette innanzitutto sul sistema politico, attraverso i diversi “sintomi” descritti (sfiducia nel sistema partitico-parlamentare, personalizzazione dei partiti e gestione autocratica degli Esecutivi, scontro tra tecnica e politica ecc..), non è detto che questa non possa (o non stia già, seppure sono minori le tracce) intaccare anche altri campi del diritto.

A tale proposito è opportuno considerare le prime (benché confermatissime) voci sollevate a proposito della diffusione del populismo anche nella sfera giudiziaria, ovvero si è parlato di populismo penale per sottolineare un tipo di atteggiamento proprio di contesti già “invasi” dal populismo (politico), in particolare di quella corrente populista (solitamente detta neo-conservatrice, o “sovranista”) che si fa risalire (sebbene ne rappresenti spesso solo un “cattivo surrogato”, come è di regola per tutte le correnti populiste), all’area di destra: l’interazione tra populismo e diritto penale fa sì che quest’ultimo venga “utilizzato” per il perseguimento di precisi obiettivi politici (se non demagogici)[1]

Ancora dunque strumentalizzazione e manipolazione, ma stavolta praticati attraverso canali molto più importanti (e con risultati peraltro più efficaci): il perseguimento penale di “fatti criminali” si rivela una leva formidabile per le coscienze, riuscendo a placare quell’ansia “identitaria” creata in precedenza tramite l’enfatizzazione di rischi e drammi di criminalità, spesso collegati alla provenienza dal “diverso” o dall’”esterno” (immigrato, clandestino, o anche semplicemente cittadino, ma che, non rispettando le “regole” si ritiene comunque non rientrante nella stessa categoria identitaria del resto della massa)[2], di cui si promette punizione, estrema durezza, intransigenza, disegnando anche delle misure ad hoc (spesso dal carattere addirittura emergenziale).

Se si volessero utilizzare i termini correnti del linguaggio politico, si potrebbe dire che con ciò sia apparso un “nuovo paradigma di governance[3], pur nella consapevolezza che questo comporterebbe dei risultati piuttosto estremi, rimettendo in discussione i principi fondamentali che separano l’azione giudiziaria rispetto agli altri poteri dello Stato.

Tuttavia è innegabile che l’atteggiamento degli esponenti politici (demagogici, in questi casi) acquisisca in virtù di questa tendenza un tono che si avvicina moltissimo all’impianto accusatorio[4] tipico di quelle figure giurisdizionali presenti in qualche modo in tutti gli ordinamenti (PM, Difensore Civico, Defensor de Pueblo, Ombudsman ecc..), con lo specifico compito di sostenere gli interessi di vittime (o presunte tali) o l’interesse pubblico in relazione a minacce, torti o illeciti (presunti) subiti. Nella stessa logica il “populismo penale” traduce l’impegno del rappresentante eletto dal popolo alla denuncia, indagine, accertamento, contrasto, perseguimento, neutralizzazione di tutti i possibili casi di “criminalità”[5], pericolosità o dannosità generale che possono infrangere la legalità collettiva.

La materia (penale) si presta particolarmente all’utilizzo dei toni semplici e diretti classici della demagogia: la sintesi estrema tra regole chiare e rigorose uguale punizioni certe ed efficaci, sfuggendo a qualsiasi complicato approccio politico o riflessione intellettualistica, è invece alla portata di tutti, capace di sensibilizzare chiunque a riconoscersi nello stesso messaggio.

D’altra parte, non può contestarsi il fatto che il diritto penale (o criminal law), sia da sempre un terreno più di ogni altro esposto alle influenze della dimensione comunitaria in cui è analizzato, nonché dei suoi profili storici, ideologici, culturali, religiosi ecc…, con ciò arrivando a rispecchiare quel “minimo etico[6] di un popolo, o a costituire il suo “vessillo o marcatore simbolico di valori il cui rispetto segna il perimetro di un’appartenenza identitaria”.[7] Insomma, il perseguimento penale dei reati assume da sempre un certo ruolo uniformante, almeno dal punto di vista psicologico, in una collettività di persone, ancor più nella comunità sociale organizzata come “popolo” (di uno Stato), predisponendola a identificare il discrimen tra i suoi “amici” e i suoi “nemici”: si comprende allora quanto sia congeniale un tale  modo di ragionare alla politica demagogica (di qualsiasi ascendenza essa sia)[8].

C’è un altro aspetto però che è doveroso inserire in questo quadro, ancora più incerto riguardo i suoi sviluppi, ma sicuramente non meno insidioso e rischioso per la sopravvivenza dello Stato di diritto. L’aspetto ora tracciato infatti (quello del populismo penale ) corrisponde alla situazione di crisi sistemica interna alle forme di governo (quella sintetizzata nella formula di presidenzializzazione); a ciò si va ad aggiungere di conseguenza, una crisi della rappresentanza nelle sua dimensione generale (che dunque coinvolge indistintamente il Parlamento, così come gli organi dell’Esecutivo), innescata non solo dalla sempre più accesa istanza di democrazia diretta, ma anche dalla perdita dei canoni tradizionali (territorio, confini, cittadinanza, sovranità) in cui la stessa si inserisce. A tale crisi corrisponde quel che si è definito propriamente quale “populismo giudiziario”, che vede coinvolti direttamente i protagonisti del terzo potere dello Stato (i giudici e, anche più in generale,  gli organi di garanzia), i quali, una volta accertata l’insicurezza degli organi rappresentativi (non più capaci, almeno negli schemi tradizionali, di mediare tra società e diritto), prendono il sopravvento su questi, facendosi promotori diretti  « o interprete dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo (…) al di là della mediazione formale della legge e altresì in una logica di supplenza se non addirittura di aperto conflitto con il potere politico ufficiale»[9].

Una recessione storica, ideologica e istituzionale dunque della figura giudiziaria, che si propone “rivisitata” nella veste di “magistrato-tribuno, magistrato-sacerdote, paladino della giustizia…”[10], impegnato nella difesa della parte buona della società (il popolo contro élite dominanti), aspirante ad una giustizia finalmente libera, pura (dalle storture della legge) totale. Recessione che a sua volta rimetterebbe in discussione gli stessi fondamenti del diritto positivo, oltre che a portare alla definitiva commistione tra civil law e common law, fino ad arrivare a compromettere l’ordinamento costituzionale nel suo insieme. Se si pensa che un certo grado di “rappresentanza” non possa essere comunque rintracciato anche nella funzione giudiziaria in effetti ci si sbaglia, giacché essendo il popolo pur sempre impossibilitato ad agire direttamente per la punizione dei reati, è il giudice che in tal caso agisce secondo il principio basilare della rappresentanza, ossia “compiendo operazioni per la realizzazione dello scopo altrui”[11].

Tuttavia anche tale ricostruzione non permette di assimilare questo tipo di rappresentanza con la rappresentanza politica tout court, mancando quei molteplici elementi che fanno del “rappresentante eletto” anche un responsabile nei confronti del popolo : questi, a sua volta, quando si trova ad essere “rappresentato” dalla giustizia, non assume quella stessa identità definita in virtù della decisione politica[12]: tra i due corpi rappresentanti (legislativo e giudiziario) e i due corpi rappresentati (popolo-elettore e popolo- corporazione giuridica) si instaura piuttosto un circuito relazionale[13], per il quale la legislazione, che ha come formante il corpo elettorale, viene traslata nelle sedi della giurisdizione ,  che ha il corpo giuridico quale suo fattore permanente da “rendere presente”.

Quando però la legge non riesce più ad operare efficacemente nella selezione e conciliazione degli interessi, divenuti questi sempre più disarticolati e frammentati, da una parte essa viene soppiantata dalle modalità normative “alternative” (quelle regolamentari e legislative  proprie del potere esecutivo o ancora delle Autorità amministrative indipendenti, che pongono problemi ancora più complessi riguardo la loro completa mancanza di legittimazione politica), dall’altra soffre della pervasività da parte dell’azione giudiziaria, sia questa di carattere nazionale che (ancor più) internazionale[14]. È qui che entrano in gioco i fattori più critici del populismo giudiziario, (e dunque della “produzione giurisprudenziale del diritto) che, pur derivando dalle medesime problematiche da cui scaturisce il populismo c.d. “politico”, (ossia complicazioni del sistema delle fonti, inflazione delle sedi di produzione legislativa, crisi della legalità)[15], si svela nelle intenzioni ancora più dannoso di questo nell’ottica in cui lede il concetto stesso di rigidità dei valori costituzionali. 

Sostenendo infatti che il diritto sia oramai prodotto da una “comunità” (e non più da uno “Stato”), perlopiù in forma giurisprudenziale, non ci si fa che riferire alla sola comunità di interpreti “privilegiati” (ossia i giudici, i soli a poter essere chiamati a produrre diritto, anche quando operano  in un ordinamenti legati alla produzione consuetudinaria): a questo livello, le decisioni (sentenze) assumerebbero una funzione di produzione “assoluta” (che, riferito ad un potere, vuole dire “senza limiti”), perché concepita al di fuori di quei meccanismi di legittimazione derivanti dalla Costituzione, ed anzi, potenzialmente capace di ridefinirli nella stessa sede giurisdizionale. Il gubernaculum giurisdizionale risultante dalla distorsione populistica della democrazia costituzionale corrisponderebbe ad una contradictio in adiecto, consistendo questi in uno sconfinamento sistemico, non assimilabile né alla più ampia “creatività” giudiziaria, né tantomeno allo schema concettuale di un sistema di common law.[16]


Note

[1] Il termine “populismo penale” è stato utilizzato da diversi autori, per descrivere la genesi e gli sviluppi concreti di questo tipo di tendenza: tra i tanti, una delle prime immagini ricostruite è quella di D.Salas, La volontè de punir. Essai sur le populisme pénal, Paris, 2005, che ne ravvisa le prime tracce nell’ordinamento statunitense a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, quando la lunga esperienza del New Deal volge ormai al termine e lascia spazio ad una politica neo-conservatrice, in cerca di “sicurezza” (esemplificata dallo slogan tough to crime, “duri verso il crimine”); o un “governo della paura”, come chiamato da J.Simon, Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, trad.ita. Milano, 2008. Ma anche il panorama italiano è ricco di spunti di riflessione sul tema: è nota il duro giudizio di L.Ferrajoli, Democrazia e paura, AA.VV., La democrazia in nove lezioni, 115, che lo indica  : «quale forma di degenerazione politico-criminale che contraddice tutti i principi classici del garantismo».

[2] Efficace è l’immagine data da A.Schiavone, Così la destra crea l’ideologia del guscio, ne La Repubblica (9 maggio 2008) , che chiama “ideologia del guscio” quella in base alla quale la società verrebbe sempre più spinta a chiudersi in sé stessa, dal momento che è autorizzata a porre barricate contro ogni minaccia esterna (reale o presunta), seguendo le logiche di un “diritto penale del nemico”(cfr Ibidem).

[3]Cit.. J.Simon, op.cit., 206

[4] J.Simon, Ibidem, 69 ss, parla di “complesso accusatorio”(prosecutorial complex)

[5] G.Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, Criminalia (Annuario di scienze penalistiche) AA.VV., ETS, 2013, 99 : «In effetti, di questo “complesso accusatorio” abbiamo avuto, e continuiamo ad avere, esemplificazioni significative anche nel contesto italiano. […] com’è intuibile, si allude al fenomeno di esponenti politici (nel ruolo di parlamentari, sindaci governatori regionali ecc.) che pongono al centro del loro impegno o del loro programma di governo, innanzitutto sul piano simbolico e della comunicazione pubblica, la lotta alla criminalità o la difesa della legalità » e poi, in riferimento ai risvolti che tale atteggiamento provoca sul piano sostanziale : «Mentre –ed ecco un profilo “populistico” già ben evidenziato nell’esperienza americana- passano assolutamente in seconda linea le preoccupazioni individualgarantistiche e le esigenze di giustizia equitativa riferibili ai singoli casi concreti, anzi, preoccupazioni ed esigenze di questo tipo tendono ad essere bollate come intralci all’efficacia dell’azione repressiva o come lussi da anime belle »

[6] Così, G.Jellinek, Die sozialethisce Bedeutung von Recht, Unrecht und Strafe, 1908.

[7]Cit. sull’autore  G.H. Mead in La psicologia della giustizia punitiva, trad.ita., in AA.VV., Carcere e società liberale, (a cura di) Santoro, Torino, 2004, 154.

[8] G.Fiandaca, op.cit., 99 , evidenzia tra l’altro una certa differenza di orientamento specifico del populismo giudiziario, a seconda del tipo di schieramento politico di provenienza: «[..] l’appartenenza al centro-destra sollecita, tendenzialmente, un impegno a muovere una guerra alla criminalità da strada; mentre l’appartenenza al centro-sinistra induce, per lo più, a enfatizzare la lotta contro le mafie e, più in generale, contro la criminalità dei colletti bianchi».

[9] Cit. G.Fiandaca, op.cit., 105

[10] Cit.. B.Randazzo, Populismo e diritto. Dialogando con Enrico Scoditti…, Questione Giustizia, riv. Trimestrale, 1/2019, questionegiustizia.it

[11] S.Pugliatti, Il rapporto di gestione sottostante alla rappresentanza(1929), in Id. Studi sulla rappresentanza, Milano 1965, 166. Tra l’altro tale ricostruzione trova conferma nel principio costituzionale per cui i giudici amministrano la giustizia “in nome del popolo” (art. 101 Cost. ita.), dunque “rendendo presente” il popolo nelle decisioni che essi prendono, sul fondamento di quei “limiti e modi” di esercizio della sovranità popolare.

[12] S.Staiano, Rappresentanza, in Sovranità, Rappresentanza, Territorio, riv. AIC, 3/2017, 8 ss: «Il “popolo” in nome del quale è amministrata la giustizia è un’entità assai meno definita nelle modalità di manifestazione della volontà; è piuttosto […] di natura analoga al corpus mysticum dell’elaborazione tomista quando questo viene identificato come corpus repraesentatum, collettività personificata, corporazione giuridicamente destinata a durare indefinitamente. […] Si potrebbe parlare di [..] due corpi giuridici, dei quali il primo –il popolo che opera come corpo elettorale- è rappresentato dai soggetti che esso abilita con un atto di investitura e che sottopone a controllo (almeno) alla scadenza del rapporto; il secondo è assunto come il fattore di permanenza e di unità dell’ordinamento, da “rendere presente” nelle sedi di esercizio del potere»

[13] Cit. S.Staiano, op.cit., 9

[14] S.Staiano, op.cit., 22 : «Alla recessione della rappresentanza politica nella produzione di diritto statale si accompagna la progressione incrementale della produzione normativa sovranazionale, nelle cui sedi la rappresentanza politica ha un campo limitato e indiretto o non ha affatto campo. Su entrambi questi versanti di erosione della rappresentanza politica-statale interno e sovrastatale esterno- si afferma la produzione giurisprudenziale del diritto [..] sul secondo perché la produzione normativa sovranazionale, per la genesi dell’ordinamento in cui si colloca e per il fondamento normativo da cui tale ordinamento trae legittimità, è giurisprudenziale […] . E, per la propensione crescente delle Corti sovranazionali a operare come giudici costituzionali, si creano interferenze con la produzione […] in ambito nazionale. Le dinamiche della produzione normativa diventano una partita tra giurisdizioni».

[15] L.Ferrajoli, Iura Paria. I fondamenti della democrazia costituzionale, (a cura di) D.Ippolito e F. Mastromartino, Napoli 2015, 78 ss : «Per quanto riguarda la giurisdizione, la crisi è il prodotto di un vero e proprio crollo del principio di stretta legalità. Ovviamente […] il giudice non sarà mai, perché non può esserlo, “bocca della legge” [..], a causa dei margini insopprimibili di discrezionalità giudiziaria […] E dovrà riconoscersi una fisiologica, insopprimibile dimensione politica della giurisdizione, che pesa sulla responsabilità dei giudici dai quali richiede perciò il rispetto di talune elementari massime deontologiche […] Ciò che peraltro determina la crisi odierna della giurisdizione è il fatto che quei margini di discrezionalità giudiziaria sono oggi diventati patologici. [..] Ne risulta compromessa la capacità regolativa del diritto, così nei confronti dei cittadini come dei giudici, e un aumento patologico della discrezionalità giudiziaria che pesa sulla certezza del diritto e perciò sulle nostre libertà.[…]. È sempre più difficile infatti, di fronte a una simile crisi della legalità, continuare a configurare la giurisdizione come un’attività prevalentemente cognitiva, di applicazione, anziché di produzione di diritto.»

[16] Come fa notare anche S.Staiano, op.cit., 30 (v .nota 103), questa assimilazione non è consentita proprio in virtù della netta distinzione tra sedi di decisione politica e sedi giurisdizionali (seppure è innegabile che è in quest’ultima che il diritto trova una sua “completezza”), che in tali sistemi rende impossibile ogni confusione o sovrapposizione di ruoli: si riporta l’esempio della decisione dell’Alta Corte di Londra (3 novembre 2016), che, precludendo al Segretario di Stato di adottare l’atto di recesso dall’UE in seguito al risultato ottenuto dal referendum sulla “Brexit”, ha reso ben chiaro l’esempio di atteggiamento che le Corti dovrebbero assumere per contrastare ogni inflessione “populistica” del loro operato. Tracce di queste “coraggiose” reazioni delle Corti contro la strumentalizzazione politica della loro funzione si sono rinvenute, più di recente, anche in territorio italiano: nell’ordinanza sul c.d. “caso Cappato” (ord. 24 ottobre 2018), riguardo i dubbi di legittimità costituzionale sollevati sulla tenuta dell’art. 580 cp (con ord. Del 14 dicembre 2018 dalla Corte di Assise di Milano), la Corte arriva non solo a ri-perimetrare l’area effettiva di incostituzionalità rispetto a quanto sostenuto dal giudice a quo, bensì, scartando del tutto l’ipotesi di una declaratoria di illegittimità, adotta una decisione (detta di “incostituzionalità differita”), che ,seppur molto contestata, evita la sua trasformazione da “giudice delle leggi” in “giudice- legislatore”, o, meglio, in giudice –“politico” (per una maggiore chiarezza della vicenda v. M.Bignami, Il caso Cappato alla Corte Costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, Questione Giustizia, 19-11-2018, questionegiustizia.it; e C. Cupelli, Il caso Cappato, l’incostituzionalità differita e la dignità nell’autodeterminazione della morte, Diritto Penale Contemporaneo, 3 dicembre 2018, dpc.it)


Foto copertina:immagine web


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