“Renderli simili o inoffensivi. L’ordine liberale, gli Stati Uniti e il dilemma della democrazia” a cura di Gabriele Natalizia, edito da Carocci, analizza alcuni aspetti della politica internazionale approfondendo tra gli altri i temi del disordine e della stabilità internazionale
Qual è il rapporto fra la crisi dell’ordine liberale e l’arretramento della democrazia nel mondo?
Da questa domanda, tornata attuale a causa della torsione strategica operata dagli Stati Uniti, prende avvio l’indagine di Gabriele Natalizia docente di relazioni internazionali alla Sapienza Università di Roma, autore del volume Renderli simili o inoffensivi. L’ordine liberale, Gli Stati Uniti e il dilemma della democrazia, pubblicato recentemente per i tipi della Carocci. L’analisi dell’autore affronta alcuni aspetti della politica internazionale approfondendo tra gli altri i temi del disordine e della stabilità internazionale, notando come l’oscillazione della potenza egemone fra politiche alternative, abbia comunque come obiettivo principale il mantenimento dello status quo.
Nel suo libro “Renderli simili o inoffensivi” l’indagine sull’ordine internazionale conduce inevitabilmente alla lettura ed all’approfondimento del concetto di impero. Un termine che sembra uscito dall’uso comune ma che nello studio delle relazioni internazionali risulta invece quanto mai attuale. Ce ne può parlare?

Quanto dice è vero, ma è possibile avanzare dei distinguo.
Il concetto è uscito dall’uso comune per come si è configurato formalmente nell’Europa medievale e della prima modernità. Allora l’impero assunse le sembianze di un’organizzazione dotata di un’autorità piena e incontrastata, al cui interno erano ricompresi popoli e territori eterogenei, amministrativamente uniti sotto un singolo potere e il cui comando era prevalentemente fondato sulla coercizione. L’ordine che questa configurazione imponeva, pertanto, arrivava a prevedere la soppressione formale o sostanziale dell’autonomia altrui e, di conseguenza, il controllo diretto del territorio “periferico” sia per quanto riguardava i suoi affari interni che esteri. Sotto il profilo istituzionale l’impero formale si verificava per “cessione”, che avveniva in forza di trattati internazionali o per “fusione”, quando un soggetto più forte ne acquistava uno più debole in seguito a un atto di forza. Più di recente, soprattutto dai critici dell’egemonia americana, è stato fatto un frequente ricorso al concetto di impero informale che si ispira al modello storicamente assunto dall’Impero britannico nel XX secolo per un verso e dall’altro all’Impero cinese. L’impero informale differisce da quello formale per il meccanismo di controllo, assumendo le sembianze di una collaborazione tra governi giuridicamente indipendenti, ma in realtà legati da un rapporto profondamente asimmetrico, di carattere permanente e in qualche modo formalizzato da accordi internazionali stretti – solo apparentemente – da soggetti eguali. L’impero, così facendo, diventa tale anche senza assumere gli aspetti squisitamente esteriori di tale configurazione. D’altronde, il centro regola comunque i comportamenti esterni degli attori subordinati e al contempo, impone loro forme accettabili di comportamento interno poiché compatibili con le sue politiche. Le decisioni sostanziali che vengono assunte dalle periferie tuttavia dipendono dal soggetto dominante, ma avvengono attraverso proxy che obbediscono alla sua volontà oppure che la anticipano. Sotto il profilo istituzionale l’impero informale segue principalmente la via della cosiddetta “incorporazione”, in cui «la sintesi politica precedentemente sovrana diventa una parte della sintesi politica dominante» ma «lo Stato assorbito conserva almeno una certa identità amministrativa».
Nell’analisi dei fattori che stabilizzano l’ordine internazionale uno dei concetti chiave che secondo lei è poco approfondito rispetto alla guerra costituente, c’è «l’omogeneità interna». Cosa intende con questa espressione?
Per omogeneità interna intendo l’adozione in un numero quanto più elevato possibile di Stati secondari, del modello di organizzazione politica (anche detto “regime”) proposto dall’egemone. Sia l’egemone che gli altri Paesi, in alcune fasi possono trovare un loro interesse specifico a promuovere o adottare un certo tipo di regime, prefigurando una restrizione degli spazi di autonomia dei secondi rispetto al primo. In altre fasi, soprattutto quelle in cui il potere dell’egemone è sfidato, questo non avviene e l’autonomia degli Stati secondari si accresce.
Nel definire «le travi» dell’ordine liberale, un aspetto importante oggetto del suo studio è il tema dell’allargamento democratico e soprattutto del mito fondante la proiezione internazionale degli Stati Uniti dalla fine del XIX secolo. Quanto è stato determinante l’«eccezionalismo» americano nell’accrescere la consapevolezza della proiezione strategica statunitense?
Il dibattito sorto in merito all’allargamento democratico è direttamente collegato a quella convinzione condivisa trasversalmente dalla classe dirigente e all’opinione pubblica americani, per cui i principi e le istituzioni politiche del Paese sarebbero universalmente validi. Tale idea costituisce il risultato di quell’auto-percezione sviluppata già dai padri pellegrini e che vede negli Stati Uniti un attore qualitativamente differente rispetto a tutti gli altri – la cui rappresentazione più iconica è riscontrabile nel mito della “città sopra la collina” di John Winthrop (Brands, 1998) – essendo stato il primo ad essersi distinto per le qualità liberali del suo regime politico così come codificate fin dalla Dichiarazione di indipendenza. Ne è così derivato l’“eccezionalismo” americano per cui, secondo le parole di Abraham Lincoln, gli Stati Uniti sarebbero «l’ultima e migliore speranza della terra». Il principale risultato di tale modo di intendere i rapporti tra un Paese “eccezionale” e il resto del mondo è che una parte significativa di quest’ultimo, vivrebbe in una condizione sostanzialmente provvisoria e insoddisfacente che – presto o tardi – sarà superata attraverso l’adozione dei modelli politici, economici e sociali americani. Da questa condizione discendono due opzioni diametralmente opposte sull’impegno degli Stati Uniti nella promozione delle loro libertà, sebbene siano entrambe ispirate dalla volontà di preservare l’eccezionalità americana e dalla convinzione che il Paese possa costituire un vettore di cambiamento sulla scena globale. Secondo la prima gli Stati Uniti dovrebbero limitarsi a fornire un “esempio” al resto del mondo, mantenendo così un atteggiamento sostanzialmente inattivo. L’alternativa a tale opzione è quella mossa dalla convinzione per cui sarebbe stato più saggio per gli Stati Uniti farsi “promotori” di un mutamento profondo delle logiche politiche a livello internazionale. In tal prospettiva, per salvare sé stessa e il suo spirito, l’America dovrebbe condurre una politica di intervento universalistico-umanitaria volta a cambiare il mondo.
Cina e Russia sono le potenze che contestano l’ordine liberale imposto dagli Stati Uniti e da questi sono oggi classificati come rivali strategici. Pensa che possano insidiare, nel prossimo futuro, l’egemonia americana?
Se possono insidiarlo non spetta a me dirlo ma agli insidiati stessi. E da questo punto di vista gli ultimi tre presidenti americani in un vero e proprio climax di accuse hanno parlato nei loro documenti strategici prima di “potenze in ascesa” (Barack Obama), poi di “potenze revisioniste” (Donald Trump) e, infine, di competitor strategici (Joe Biden). Ad ogni modo, se per Obama le due minacce erano paritarie, già con Trump emerge come la sfida russa sia solo sul piano militare, sebbene circoscritta sia sul piano spaziale che temporale, mentre nella Interim National Security Strategic Guidance è evidente che la Cina sia la vera minaccia da cui gli Stati Uniti si devono difendere. Per quanto mi riguarda mi sento di poter dire, anzitutto, che “crisi” non significa “fine”. Lo spiega bene il prof. Alessandro Colombo quando definisce questo concetto come un momento in cui vanno prese decisioni strategiche da cui dipende il riconsolidamento o il superamento dell’ordine. Aggiungerei, inoltre, che il primato americano è tuttora molto solido in quella dimensione che rappresenta la condicio sine qua non di ogni egemonia, la dimensione militare. Sia da un punto di vista quantitativo (spesa militare, tipologia di strumenti bellici in dotazione) che qualitativo (riflessione dottrinale, controllo degli spazi comuni e dei choke-points) potrei dire che non si possa neanche parlare di sfida al loro primato.
Nel suo excursus sulla politica estera statunitense emergono dei tratti ricorrenti a tutte le amministrazioni al di là del partito di provenienza. Nota questa continuità anche fra Trump e Biden?
Ancora non possiamo saperlo, perché Biden si è insediato solamente due mesi fa. Quello che è certo è che in comune hanno l’obiettivo di fondo di tutti i presidenti americani eletti dopo la fine della Guerra fredda: preservare l’ordine a guida americana. Da quello che si è potuto evincere fino ad ora, il principale elemento in comune sembra essere la postura “confrontazionale” con la Cina e una certa fermezza nel voler ostacolare i tentativi di riavvicinamento tra la Germania e la Russia, di cui la Merkel si è resa artefice negli ultimi anni. Infine, Biden come Trump non sembra interessato ad un “impegno profondo” degli Stati Uniti come quello degli anni Novanta e Duemila. Non per convinzione personale ma perché si sta consolidando a Washington l’idea che gli Stati Uniti non possano occuparsi di tutto come avvenuto in passato e, soprattutto, non si debbano occupare di chi ha le capacità di badare a sé stesso. Faccio naturalmente riferimento ai Paesi europei a cui Biden, come Trump, ha sostanzialmente negato un aiuto sostanziale sulla questione della pandemia. Poco si è parlato sui grandi media del recente diniego del responsabile operativo della campagna di vaccinazione americana Jeffrey Zients alla richiesta di aiuto del commissario all’Industria Ue Thierry Breton. “Solo a emergenza finita negli Stati Uniti” è stata la risposta americana.
Concentrando l’attenzione sull’Unione Europea, che linea si aspetta che terrà il nuovo presidente americano?
Anzitutto occorre sottolineare che il ruolo attribuito all’Europa è il principale elemento di discontinuità tra i due presidenti. Se Trump considerava sostanzialmente marginale il nostro continente, Biden sembra considerarlo centrale per gli equilibri futuri. Al punto da inserirlo insieme all’Indo-Pacifico e all’Emisfero occidentale tra le aree di interesse vitale per gli Stati Uniti. In linea con la tradizione politica dell’anglosfera, anche Biden e i membri più influenti del suo gabinetto sembra interessati ad evitare il sorgere di un soggetto egemone in Europa. Scrive a chiare lettere Biden che gli Stati Uniti si impegneranno nel ricostruire una partnership transatlantica solida per «forgiare una forte e comune agenda con l’Unione Europea e il Regno Unito». Un’agenda non pensata «per contrastare le sfide del passato, ma quelle del presente e del futuro». E dalla lettura del documento emerge in tutta evidenza come quelle prioritarie tra queste siano il revisionismo cinese e le minacce che gravano sulle dimensioni sanitaria, cyber e dell’innovazione tecnologica. Rispetto a tali sfide, l’amministrazione Biden rivendica la necessità di coesione tra «le democrazie del mondo» per contrastarle da quella che – con un linguaggio mutuato dalla Guerra fredda – potrebbe essere definita una “situazione di forza”. Alla luce di queste affermazioni, Biden non può vedere di buon occhio le sempre più frequenti rivendicazioni di “autonomia strategica” avanzate nei documenti di Bruxelles e dai leader di Germania e Francia.
Foto copertina: Immagine web
Gabriele Natalizia è ricercatore di Scienza politica presso Sapienza Università di Roma, dove insegna International Relations e Scienza politica. Ha conseguito il PhD in “Storia e formazione dei processi politici nell’età contemporanea”. Dal 2015 collabora con il Centro Alti Studi della Difesa (CASD), come coordinatore del modulo di Organizzazioni internazionali del Corso Superiore di Stato Maggiore Interforze (ISSMI). È membro dell’Observatório de Relações Exteriores – Universidade Autónoma de Lisboa e coordina lo Standing Group “Russia e Spazio Post-Sovietico” della Società Italiana di Scienza Politica (SISP).