Nota a sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione, del 6 settembre 2016, causa C-182/15, Aleksei Petruhhin

A cura di Gaetano D’Avino

Il giudizio conclusosi con la sentenza in commento è originato dalla pregiudiziale interpretativa inoltrata a Lussemburgo dalla Corte suprema lettone, chiamata a decidere dell’impugnazione del provvedimento col quale era stata accolta la richiesta d’estradizione in Russia di un cittadino estone, già in stato di custodia cautelare in Lettonia.

A sostegno della sua impugnazione, l’estradando aveva sostenuto che, in forza del trattato sull’assistenza giudiziaria e sui rapporti giudiziari concluso tra le Repubbliche baltiche1, egli godesse, in Lettonia, degli stessi diritti di un cittadino lettone e, pertanto, che lo Stato lettone fosse tenuto a tutelarlo contro l’estradizione.

Invero, testualmente, né il diritto nazionale lettone, né alcuno degli accordi internazionali conclusi tra la Repubblica di Lettonia e la Federazione russa ovvero gli altri paesi baltici dispone limitazioni all’estradizione di un cittadino estone (rectius: di un cittadino non lettone) in favore della Russia; il diritto lettone prevede invece, tra le ipotesi in cui l’estradizione possa e debba essere negata, innanzitutto il caso in cui essa riguardi proprio un cittadino lettone2; quanto sopra vale anche per l’accordo internazionale sull’assistenza giudiziaria e sui rapporti giudiziari concluso tra la Repubblica di Lettonia e la Federazione russa, ov’è prevista, tra le ipotesi di opposizione all’estradizione, quella che riguardi – reciprocamente – «un cittadino della parte contraente cui è stata presentata la richiesta o [che] ha lo status di rifugiato in tale paese»3.

E tuttavia, a “complicare” il quadro normativo in questione – ed a fondare le speranze dell’estradando – interveniva il richiamato accordo tra le Repubbliche di Estonia, di Lettonia e di Lituania, ai sensi del quale, «in materia di diritti soggettivi e patrimoniali, i cittadini di una parte contraente godono, nel territorio dell’altra parte contraente, della stessa tutela giuridica garantita ai cittadini di quest’ultima»4; una norma, quella appena riportata, desumibile invero, per quel che sarebbe rilevato nella fattispecie, già dal combinato disposto del divieto di discriminazione sulla base della nazionalità e del diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri di cui – rispettivamente – agli artt. 185e 216 TFUE, disposizioni che il Giudice a quo ha infatti posto a sostegno della sua ordinanza di rinvio: su queste basi, la Corte suprema lettone si è spinta a sostenere che, a suo avviso, in casi del genere, «l’assenza di protezione dei cittadini dell’Unione contro l’estradizione, nel caso in cui essi si siano recati in uno Stato membro diverso da quello di cui hanno la cittadinanza, è contraria all’essenza stessa della cittadinanza europea, ossia [a]l diritto dei cittadini dell’Unione europea a una protezione equivalente a quella dei cittadini nazionali»7.

Per tutto quanto sopra esposto, la Corte remittente ha deciso di sottoporre al Giudice dell’Unione diverse questioni pregiudiziali, tendendo a determinare in primo luogo «Se gli articoli 18, primo comma, e 21, paragrafo 1, TFUE debbano essere interpretati nel senso che, ai fini dell’applicazione di un accordo di estradizione concluso tra uno Stato membro e uno Stato terzo, il cittadino di un qualunque Stato membro dell’Unione debba beneficiare dello stesso livello di tutela conferito ai propri cittadini dallo Stato membro cui è diretta la domanda di estradizione verso uno Stato non appartenente all’Unione»; con la seconda questione, il Giudice a quo ha inoltre chiesto alla Corte se, in circostanze quali quella sopra esposta, il giudice dello Stato membro al quale sia pervenuta la richiesta di estradizione dovesse applicare «le condizioni per l’estradizione fissate dallo Stato membro di cui [l’estradando] è cittadino o in cui risiede abitualmente»8.

La maggior parte degli Stati membri che hanno presentato osservazioni alla Corte in vista della sentenza in commento avevano sostenuto l’inapplicabilità del diritto dell’Unione alla fattispecie, ritenendo in sostanza che, in assenza di convenzioni internazionali tra l’Unione ed il Paese terzo interessato, le norme in materia di estradizione rientrassero nella competenza esclusiva degli Stati membri. E tuttavia, secondo la Corte, non ci si sarebbe potuti esimere dalla considerazione che, anche in assenza di accordi bilaterali, «in situazioni ricadenti nell’ambito del diritto dell’Unione, le norme  nazionali  di  cui  trattasi  devono  rispettare  quest’ultimo»9. È  vero  anche  che,  come riconosciuto dalla Grande Sezione, vietando «ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità», l’articolo 18 TFUE impone la parità di trattamento delle persone che si trovino in una situazione rientrante nel campo di applicazione dei Trattati10, ma al fine di valutare il campo d’applicazione dei Trattati stessi occorre leggere tale norma – si è affermato risolutamente – in combinato disposto con le disposizioni sulla cittadinanza dell’Unione: «le situazioni rientranti in tale campo di applicazione comprendono quindi, in particolare, quelle rientranti nell’esercizio della libertà di circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri quale conferita dall’articolo 21 TFUE»11. Tale era, secondo la Corte, la situazione attuale, laddove l’estradando si era avvalso, in qualità di cittadino dell’Unione, del suo diritto di circolare liberamente recandosi in Lettonia; tanto ha consentito quindi alla Grande Sezione di ricondurre la fattispecie nel campo d’applicazione del diritto unionistico e di “autoriconoscere” la propria competenza.

Tanto premesso, occorreva stabilire se norme nazionali sull’estradizione come quelle di cui trattasi nel procedimento principale fossero compatibili con gli articoli 18 e 21 TFUE e se le stesse disposizioni dovessero essere interpretate nel senso che, ai fini dell’applicazione di un accordo di estradizione concluso tra uno Stato membro ed uno Stato terzo, i cittadini di un altro Stato membro dovessero potersi giovare della norma che vieta l’estradizione dei propri cittadini da parte del primo Stato membro.

Invero, a modesto avviso di chi scrive, una volta ricondotta la questione nell’ambito d’applicazione del diritto dell’Unione, non stupisce affatto la premessa adottata al riguardo dai Giudici di Lussemburgo, secondo cui norme nazionali sull’estradizione come quelle di cui trattasi nel procedimento principale siano in linea di principio suscettibili di dar luogo ad «una differenza di trattamento a seconda che l’interessato sia un cittadino nazionale o un cittadino di un altro Stato membro, in quanto la loro applicazione comporta che ai cittadini di altri Stati membri […] non sia concessa la protezione contro l’estradizione di cui godono i cittadini nazionali»12, risultando in tal modo potenzialmente foriere di «una restrizione alla libertà di circolazione, ai sensi dell’articolo 21 TFUE»13.

Ora, per giurisprudenza consolidata, restrizioni del genere di quella suddetta possono essere ritenute giustificate solo qualora siano basate su considerazioni oggettive e risultino proporzionate all’obiettivo legittimamente perseguito dalla normativa nazionale14. In proposito, nelle proprie osservazioni, diversi Governi avevano sottolineato che la misura de qua fosse stata adottata nell’ambito   della   cooperazione  penale   internazionale,  conformemente  ad   una  convenzione sull’estradizione, e mirasse ad evitare il rischio di impunità. Nell’interpretazione resa dalla Corte di Lussemburgo, l’obiettivo di evitare il rischio di impunità delle persone che abbiano commesso un reato si colloca pienamente nel contesto dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia che l’Unione mira ad offrire e deve pertanto essere considerato pienamente legittimo15; ciò non risulta sufficiente, tuttavia, in quanto «misure restrittive di una libertà fondamentale, come quella di cui all’articolo 21 TFUE, possono essere giustificate da considerazioni oggettive solo ove risultino necessarie ai fini della tutela degli interessi che esse mirano a garantire e solo nella misura in cui tali obiettivi non possano essere raggiunti mediante misure meno restrittive»16. Orbene, come osservato dall’avvocato generale delle sue conclusioni17, la procedura d’estradizione mira, in generale, a scongiurare lo stato d’impunità di una persona che si trovi in un territorio diverso da quello nel quale si ritiene abbia commesso il reato; come rilevato anche da diversi governi nazionali nelle loro osservazioni, mentre, tenuto conto del brocardo «aut dedere, aut judicare» (o estradare o giudicare), la mancata estradizione dei cittadini nazionali è generalmente compensata dalla possibilità per lo Stato membro richiesto di perseguire i propri cittadini per reati gravi commessi fuori dal suo territorio, tale Stato membro è di norma incompetente a giudicare tali fatti quando né l’autore né la vittima del presunto reato siano suoi cittadini: l’estradizione consente quindi di evitare che reati commessi nel territorio di uno Stato membro da persone che si siano allontanate da detto territorio rimangano impuniti. In tale contesto, secondo la Grande Sezione, norme nazionali come quelle di cui in questione nel procedimento principale, che consentano di dare seguito favorevole ad una domanda di estradizione ai fini dell’esercizio dell’azione penale nello Stato terzo in cui si suppone sia stato commesso il reato, risultano adeguate per conseguire l’obiettivo perseguito.

E tuttavia, neanche tanto risultava bastante a fornire soluzione alle questioni interpretative poste all’attenzione della Corte, dovendosi anche «verificare se non esista una misura alternativa meno lesiva per l’esercizio dei diritti conferiti dall’articolo 21 TFUE che consenta di raggiungere in modo parimenti efficace l’obiettivo consistente nell’evitare il rischio di impunità»18; a tal fine, la Grande Sezione ha adottato, più che mai, una prospettiva di massima valorizzazione del principio di leale cooperazione di cui all’articolo 4, terzo paragrafo, TUE19, degli strumenti (compiuti, quali soprattutto il mandato d’arresto europeo20, od in nuce) previsti dal Titolo dedicato allo Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia nonché, soprattutto, delle finalità perseguite dal Titolo stesso21: in mancanza di una Convenzione tra l’Unione e la Federazione russa ed in assenza di norme disciplinanti l’estradizione tra gli Stati membri ed uno Stato terzo, la Corte ha sostenuto infatti che, al fine di tutelare i cittadini dell’Unione contro misure che possano privarli dei diritti di libera circolazione e di soggiorno previsti dall’articolo 21 TFUE, senza per questo rinunciare alla lotta all’impunità, sia «necessario attuare tutti i meccanismi di cooperazione e di assistenza reciproca esistenti in materia penale in forza del diritto dell’Unione»22. Per tutto quanto sopra, in un caso come quello oggetto del procedimento principale, occorre, secondo la Grande Sezione, «privilegiare lo scambio di informazioni con lo Stato membro di cui l’interessato ha la cittadinanza al fine di fornire alle autorità di tale Stato membro, purché siano competenti in base al loro diritto nazionale a perseguire tale persona per fatti commessi fuori dal territorio nazionale, l’opportunità di emettere un mandato d’arresto europeo ai fini dell’esercizio dell’azione penale»; come rilevato dai Giudici di Lussemburgo, «L’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della decisione quadro 2002/584 non esclude infatti, in tal caso, la possibilità per lo Stato membro di cui il presunto autore del reato ha la cittadinanza di emettere un mandato d’arresto europeo in vista della consegna di tale persona ai fini dell’esercizio dell’azione penale». Così facendo, cooperando in tal modo con lo Stato membro di cui l’interessato abbia la cittadinanza e «dando priorità a detto eventuale mandato d’arresto rispetto alla domanda di estradizione, lo Stato membro ospitante agisce in maniera meno lesiva dell’esercizio del diritto di libera circolazione, evitando al tempo stesso, per quanto possibile, il rischio che il reato perseguito rimanga impunito»23.

Pertanto, la Corte ha potuto concludere nel senso gli articoli 18 e 21 TFUE debbano essere interpretati nel senso che, quando, ad uno Stato membro nel quale si sia recato un cittadino dell’Unione avente la cittadinanza di un altro Stato membro, venga presentata una domanda d’estradizione da parte di uno Stato terzo con il quale il primo Stato membro abbia concluso un accordo di estradizione, esso sia tenuto ad informare lo Stato membro del quale il predetto cittadino abbia la cittadinanza e, se del caso, su domanda di quest’ultimo Stato membro, a consegnargli tale cittadino, conformemente alle disposizioni della decisione quadro sul mandato d’arresto europeo, purché detto Stato membro sia competente, in forza del suo diritto nazionale, a perseguire tale persona per fatti commessi al di fuori dal territorio nazionale.

Il giudizio, di per sé non facile, era complicato dall’ulteriore quesito inoltrato dal Giudice lettone, tendente a determinare se, «qualora l’estradizione debba aver luogo senza tener conto del livello particolare di tutela garantito ai cittadini dello Stato membro cui è pervenuta la richiesta di estradizione, […] quest’ultimo Stato sia tenuto a verificare il rispetto delle garanzie di cui all’articolo 19 della Carta» (ai sensi del quale nessuno può essere estradato verso uno Stato in cui rischi seriamente di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti), ed inoltre «se, a tal fine, sia sufficiente accertare che lo Stato richiedente l’estradizione sia parte contraente della Convenzione contro la tortura o se, invece, debba verificarsi la situazione di fatto, tenendo conto della valutazione di tale Stato realizzata dagli organi del Consiglio d’Europa»24.

Vertendosi, per le ragioni suesposte, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, nulla quaestio per l’applicabilità dell’evocata disposizione della Carta dei diritti fondamentali e quindi sull’obbligo, posto innanzitutto in capo al giudice nazionale, di verificarne il rispetto25; occorreva ora determinare, in buona sostanza, se ed in quale misura dovesse tenersi conto della circostanza che lo Stato in questione fosse firmatario della Convenzione contro la tortura26 ovvero parte della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (il cui art. 4 espressamente proibisce la comminazione di pene e la pratica di trattamenti inumani o degradanti)27.

Orbene, al fine di fornire soluzione all’interrogativo suddetto, correttamente – ma senza che rilevasse affatto la preoccupazione di usare un linguaggio “politicamente corretto” e di ricambiare la “cortesia” dimostrata dalla Corte europea nell’affermazione del principio di “protezione equivalente” – i Giudici di Lussemburgo hanno richiamato all’uopo la giurisprudenza della stessa Corte di Strasburgo, secondo cui «l’esistenza di dichiarazioni e l’accettazione di trattati internazionali che garantiscono, in via di principio, il rispetto dei diritti fondamentali non sono sufficienti, da sole, ad assicurare una protezione adeguata contro il rischio di maltrattamenti quando fonti affidabili riportano pratiche delle autorità – o da esse tollerate – manifestamente contrarie ai principi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»28; indi, nell’interpretazione resa dalla Grande Sezione nella sentenza in commento, «quando l’autorità competente dello Stato membro richiesto dispone di elementi che attestano un rischio concreto di trattamento inumano o degradante delle persone nello Stato terzo richiedente, essa è tenuta a valutare la sussistenza di tale rischio al momento di decidere in ordine all’estradizione di una persona in tale Stato»29; a tal fine, è richiesto all’autorità competente dello Stato membro di fondarsi su elementi oggettivi, attendibili, precisi ed opportunamente aggiornati; su questo quadro, con ciò riconoscendosi anche il ruolo e l’importanza della propria “omologa” di Strasburgo, la Corte di giustizia ha poi affermato che «tali elementi possono risultare in particolare da decisioni giudiziarie internazionali, quali le sentenze della Corte EDU, da decisioni giudiziarie dello Stato terzo richiedente, nonché da decisioni, relazioni e altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d’Europa o appartenenti al sistema delle Nazioni Unite»30.

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L’articolo è stato altresì pubblicato sul sito dell’Osservatorio sullo Spazio europeo di Libertà, Sicurezza e Giustizia, istituito presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Salerno e diretto dalla Professoressa Angela Di Stasi.

Immagine in copertina: Mark Rothko, No. 61 (Rust and Blue) 

  1. Accordo dell’11 novembre 1992 tra la Repubblica di Estonia, la Repubblica di Lettonia e la Repubblica di Lituania sull’assistenza giudiziaria e sui rapporti giuridici.
  2. All’interno del capo 66 del codice di procedura penale lettone, intitolato «Estradizione verso altri paesi», l’articolo 697, paragrafo 2, punti 1, 2 e 7, dispone quanto segue: «L’estradizione è negata nei seguenti casi: 1) l’interessato è un cittadino lettone; 2) la domanda di estradizione è stata presentata allo scopo di perseguire penalmente o di punire la persona interessata per motivi di razza, religione, nazionalità od opinioni politiche, oppure sussistono fondate ragioni per ritenere che, per i suddetti motivi, l’estradando possa subire una violazione dei propri diritti; […] 7) è possibile che l’estradando sia sottoposto a tortura nello Stato estero».
  3. Così dispone l’art. 62 dell’Accordo del 3 febbraio 1993 tra la Repubblica di Lettonia e la Federazione russa sull’assistenza giudiziaria e sui rapporti giudiziari in materia civile, familiare e penale.
  4. Articolo 1, paragrafo 1, dell’Accordo dell’11 novembre 1992 tra la Repubblica di Estonia, la Repubblica di Lettonia e la Repubblica di Lituania sull’assistenza giudiziaria e sui rapporti giuridici.
  5. L’art. 18 del TFUE dispone che «Nel campo di applicazione dei trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire regole volte a vietare tali discriminazioni».
  6. L’art. 21, par. 1, del TFUE dispone quanto segue: «ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi».
  7. Par. 16 della sentenza in commento.
  8. Par. 17 della sentenza in commento.
  9. Par. 27 della sentenza in commento; cfr., al riguardo, Corte di giustizia, sentenza del 2 marzo 2010, causa C-135/08, Rottmann, par. 41 e giurisprudenza ivi citata.
  10. Cfr., in tal senso, Corte di giustizia, sentenza del 2 febbraio 1989, causa 186/87, Cowan, 186/87, par. 10.
  11. Par. 30 della sentenza in commento; cfr., al in tal senso, Corte di giustizia, sentenza del 15 marzo 2005, causa C- 209/03, Bidar, parr. da 31 a 33 e giurisprudenza ivi citata.
  12. Par. 32 della sentenza in commento.
  13. Par. 33 della sentenza in commento.
  14. V., in particolare, Corte di giustizia, sentenza del 12 maggio 2011, causa C-391/09, Runevič-Vardyn e Wardyn, par. 83 e giurisprudenza ivi citata.
  15. Cfr., in tal senso, Corte di giustizia, sentenza del 27 maggio 2014, causa C-129/14 PPU, Spasic, parr. 63 e 65; si è espresso in questo senso anche l’avvocato generale al paragrafo 55 delle sue conclusioni per il giudizio in esame.
  16. Par. 38 della sentenza in commento; cfr., al riguardo, Corte di Giustizia, Runevič-Vardyn e Wardyn, cit., par. 88 e giurisprudenza ivi citata.
  17. Cfr. il paragrafo 56 delle conclusioni dell’avvocato generale per il giudizio in esame.
  18. Par. 40 della sentenza in commento.
  19. Il terzo paragrafo dell’art. 4 TUE dispone quanto segue: «In virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati. Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai  trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni  dell’Unione. Gli  Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione».
  20. Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009.
  21. Cfr. i paragrafi da 43 a 45 della sentenza in commento, ove la Grande Sezione rileva che, al meccanismo di cooperazione giudiziaria costituito dal mandato d’arresto europeo, «si aggiungono numerosi strumenti di assistenza intesi a facilitare tale cooperazione Peraltro, nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini, conformemente all’articolo 3, paragrafo 5, TUE. Tale protezione si costruisce gradualmente mediante strumenti di cooperazione quali gli accordi di estradizione conclusi tra l’Unione e paesi terzi».
  22. Par. 47 della sentenza in commento.
  23. Par. 49 della sentenza in commento.
  24. Par. 17 della sentenza in commento.
  25. Pertanto, «nell’ipotesi in cui a uno Stato membro venga presentata una domanda di uno Stato terzo diretta a ottenere l’estradizione di un cittadino di un altro Stato membro, il primo Stato membro deve verificare che l’estradizione non recherà pregiudizio ai diritti di cui all’articolo 19 della Carta»: così sancisce la Corte al par. 60 della sentenza in commento.
  26. Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984, entrata in vigore il 27 giugno 1988 (autorizzazione alla ratifica ed ordine di esecuzione in Italia con l. n. 489 del 3 novembre 1988).
  27. La Corte rammenta che tale proibizione ha carattere assoluto in quanto è strettamente connessa al rispetto della dignità umana, di cui all’articolo 1 della Carta, richiamandosi a quanto già sancito nella sentenza del 5 aprile 2016, C- 404/15 e C-659/15 PPU, Aranyosi e Căldăraru, par. 85.
  28. Par. 57 della sentenza in commento, ove si richiama Corte EDU, sentenza del 28 febbraio 2008, Saadi c. Italia, par. 147.
  29. Par. 58 della sentenza in commento, con richiamo, per quanto riguarda l’articolo 4 della Carta, alla sentenza Aranyosi e Căldăraru, cit., par. 88.
  30. Par. 59 della sentenza in commento, con richiamo, per quanto riguarda l’articolo 4 della Carta, alla sentenza Aranyosi e Căldăraru, cit., par. 89.