La smaterializzazione del processo penale alla luce della legge n.27 del 24 aprile 2020 (legge di conversione decreto Cura Italia)
«Noi dobbiamo conservare in tutte le circostanze, anche nelle più gravi, la nostra calma e la nostra dignità, e dobbiamo dare al mondo civile la prova che noi sappiamo rispettare i diritti della giustizia, che sappiamo assolvere il compito nostro, senza lasciarci sopraffare da sentimenti di odio o di vendetta, da nessuna passione che possa velare la nostra mente e fuorviare il nostro giudizio»[1]
Esclamava l’Avv. Francesco Saverio Merlino durante la sua arringa, da antologia, pronunciata innanzi la Corte d’Assise di Milano in difesa dell’anarchico Gaetano Bresci, accusato del regicidio di Umberto I di Savoia.
Correva l’anno 1900 allorquando quel difensore, conscio del grave clima politico sviluppatosi attorno alla vicenda del suo assistito – basti pensare che l’Avv. Filippo Turati, deputato socialista nominato inizialmente dal Bresci quale proprio difensore, aveva rinunciato al mandato difensivo conferitogli – chiedeva ai giudici di non cedere alle passioni umane con il conseguente rischio di non applicare in modo corretto la legge.
Il rischio che stiamo correndo nel presente momento storico è il medesimo, ovvero quello di cedere alla paura del contagio, rinunciando a quei principi cardini dell’ordinamento giuridico e sui quali si fonda anche il processo penale.
Se da un lato è ben comprensibile la necessità di adottare cautele e nuovi strumenti, anche nel settore della giustizia, utili per fronteggiare la pandemia in atto, per altro verso bisogna che questi strumenti siano compatibili con i diritti costituzionali di ciascun individuo.
Gli strumenti che il Parlamento ha approvato, e che sono divenuti legge dello Stato, incidono pesantemente sulla struttura e sulla natura del processo penale, e sulle libertà individuali di ciascun individuo.
Il processo penale possiede una propria liturgia che non è fine a sé stessa, ma costituisce l’estrinsecazione di una serie di principi e regole antichissime, tramandate nel corso della storia.
Tra questi principi fondamentali che regolano lo svolgimento del processo penale vi sono il principio dell’oralità, dell’immediatezza e quello della pubblicità dell’udienza.
Tali principi, ispiratori del cosiddetto «giusto processo», sono stati posti a rischio dalle nuove norme approvate dal Parlamento in sede di conversione del Decreto Legge “Cura Italia”.
La pericolosa eccezione già prevista dal medesimo decreto, ovvero la regola della partecipazione al processo a distanza (mediante collegamento con pc “da remoto”) per l’imputato detenuto o in stato di custodia cautelare, anziché restare una eccezione confinata a quelle ipotesi è stata, con la conversione in legge, estesa notevolmente.
Difatti, il testo della legge approvato in via definitiva il 24 aprile, statuisce che dal 9 marzo 2020 al 30 giugno 2020, le udienze penali che non richiedano la partecipazione di soggetti diversi dal P.M., dalle parti private e dai rispettivi difensori, dagli ausiliari del giudice, da ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, da interpreti, consulenti o periti potranno essere tenute mediante collegamenti “da remoto”. Lo stesso è previsto in relazione alle indagini preliminari, durante le quali il P.M. e il giudice potranno avvalersi di collegamenti “da remoto” per compiere atti che richiedono la partecipazione della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa, del difensore, di consulenti, di esperti o di altre persone, nei casi in cui la presenza fisica di costoro non può essere assicurata senza mettere a rischio le esigenze di contenimento della diffusione del virus COVID-19.
Il collegamento, in pratica, avviene su di una piattaforma informatica ove sono collegate le parti che intervengono nel processo che, da luogo fisico dell’aula del tribunale, si tramuta in una stanza virtuale.
Prima dell’udienza il giudice fa comunicare ai difensori delle parti, al pubblico ministero e alle altre parti processuali, il giorno, l’ora e la modalità del collegamento. I difensori partecipano al collegamento direttamente dal proprio studio legale. Gli assistiti, se liberi o sottoposti a misure cautelari diversa dalla custodia in carcere, partecipano all’udienza solo dallo studio del proprio difensore. Per il compimento, invece, di atti nel corso delle indagini preliminari il pubblico ministero e il giudice possono avvalersi di collegamenti da remoto, le persone chiamate a partecipare all’atto sono tempestivamente invitate a presentarsi presso il più vicino ufficio di polizia giudiziaria, che abbia in dotazione strumenti idonei ad assicurare il collegamento da remoto. Il difensore partecipa “da remoto” mediante collegamento dallo studio legale, salvo che decida di essere presente nel luogo ove si trova il suo assistito.
Questa modalità di celebrazione dell’udienza, mediante un collegamento “da remoto” e su due piattaforme web alternative, già individuate dal Ministero della Giustizia quali “Skype for Business” o “Teams” (piattaforme di proprietà della società Microsoft Corporation), ha destato la ferma protesta ed opposizione di gran parte degli avvocati penalisti, e dei cultori della materia processuale penale. [2]
L’approvazione definitiva ha sollevato molti dubbi circa la compatibilità del sistema “da remoto” con i principi e le regole costituzionali alla base del processo penale.
Ai predetti dubbi di costituzionalità si sono, poi, aggiunti i dubbi circa il rispetto delle garanzie minime in tema di riservatezza e protezione dei dati personali dei partecipanti al processo penale “da remoto”, in considerazione del fatto che il processo si svolge su di una piattaforma commerciale privata.
Sul punto il Garante della Privacy è intervenuto con una lettera indirizzata al Ministro della Giustizia invitando il Ministro a fornire «ogni elemento ritenuto utile alla migliore comprensione delle caratteristiche dei trattamenti effettuati nel contesto della celebrazione, a distanza, del processo penale, ai fini dell’esercizio delle funzioni istituzionali attribuite a questa Autorità».[3] Allo stato le polemiche non si sono placate, ed il Governo si è riservato di valutare modifiche volte ad escludere dal processo “da remoto” quanto meno la fase della discussione orale delle parti, e la fase dell’esame testimoniale.
Dal canto suo, l’Associazione Nazionale Magistrati nel comunicato stampa del 27/04/20 ha espresso giudizio positivo sul processo “da remoto”, che a giudizio dell’associazione non rappresenta una deroga ai principi ed alle garanzie costituzionali, indicandolo quale «l’unica risposta adeguata» in relazione alla situazione di emergenza attuale.[4]
Il processo penale si basa sulla parola parlata nel dibattito orale, che si svolge tra accusa e difesa dinanzi al giudice terzo. In tal modo, nel contraddittorio tra le parti, si forma e viene assunta la prova che sarà sottoposta alla valutazione del giudice. In questa forma si attuano e si sostanziano il principio dell’oralità e dell’immediatezza del processo penale.
Questo metodo millenario che si fonda sia sulla comunicazione verbale, sia su quella non verbale ovvero la mimica e la gestualità, strumento imprescindibile per il giudice del dibattimento al fine di valutare ad esempio la credibilità del teste e l’attendibilità dello stesso, rischia di essere demolito dal processo penale da remoto.
Tutto ciò non potrà mai avvenire, allorquando tutte le parti processuali saranno collegate, chi dal proprio ufficio, chi dal proprio studio legale, chi dal luogo di esecuzione della misura cautelare in atto, chi dalla caserma di appartenenza. I principi regolatori del processo penale sono stati enucleati, in maniera chiara e precisa, nel paragrafo 6 dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo. Con riguardo alla regola dell’oralità nel processo penale, diverse volte la Corte Europea dei diritti dell’Uomo si è pronunciata statuendo, sempre, la necessità che l’assunzione delle prove avvenga oralmente dinanzi al giudice terzo, attraverso il contraddittorio delle parti quale momento irrinunciabile di formazione della prova e di un processo “giusto”.[5]
I medesimi principi sono stati collocati sistematicamente all’art. 111 della costituzione italiana con l’introduzione delle formali regole del giusto processo, secondo uno schema ispirato al paragrafo 6 della CEDU. In particolare, il contraddittorio inteso come la formazione delle prove, sancito come carattere specifico del processo penale dal comma 4 dell’art.111 Cost., individua l’intervento dialettico delle parti nel corso del giudizio. Anche in tal caso, quindi, si esplicita la regola dell’oralità del contraddire ovvero il dire contro di una parte e l’altra, sotto gli occhi del giudice terzo che forma il suo convincimento assistendo direttamente alla formazione della prova, senza alcuna intermediazione (principio dell’immediatezza).
Tali principi sono stati più volte ribaditi dalla Corte Costituzionale, la quale ha individuato l’oralità quale regola e metodo in base al quale si svolge il contraddittorio in udienza.[6] L’ulteriore rischio conseguente, all’approvazione delle nuove norme, è quello della compromissione della regola della pubblicità dell’udienza.
Nell’ambito della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il diritto all’udienza pubblica si colloca nell’alveo delle garanzie che realizzano l’ “equo processo”, sancite dall’art. 6 CEDU.
La pubblicità dell’udienza costituisce un elemento essenziale per l’attuazione del giusto processo in quanto assicura trasparenza all’operato e alla decisione finale del giudice, impedendo «una giustizia segreta, sottratta al controllo del pubblico».[7]
Il medesimo principio è condiviso dalla Corte Costituzionale la quale ha più volte indicato che il principio di pubblicità dell’udienza, pur non essendo esplicitamente menzionato nella carta costituzionale, è un valore di rango costituzionale ed estrinsecazione del giusto processo.
Non appare possibile quindi, secondo coloro che si sono opposti all’approvazione del processo “da remoto”, coniugare le nuove norme approvate con i principi costituzionali ispiratori e regolatori del processo penale, che affondano le loro radici in valori e regole fondamentali. Coloro i quali, invece, ritengono il processo “da remoto” costituzionalmente legittimo, ne sottolineano le analogie con l’art.146 bis dis. Att. c.p.p. (partecipazione al dibattimento a distanza). Tale norma, introdotta nel nostro ordinamento con la legge 07-01-1998 (recentemente modificata dalla legge Orlando), ha previsto la partecipazione a distanza, in videoconferenza “da remoto”, dell’imputato detenuto e solo nei processi di criminalità organizzata. Diverse sono state le questioni di legittimità costituzionale sollevate per la compatibilità di tale norma con i principi costituzionali, in particolare con riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
La questioni sono state rigettate dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 342 del 1999, il cui orientamento è stato poi confermato dalla sentenza della Corte EDU nella sent. Viola /Italia del 2006. In tali ipotesi non è stata ravvisata alcuna violazione del diritto di difesa poiché la deroga al diritto dell’imputato, ad essere fisicamente presente in aula, era una peculiare eccezione con riferimento a soggetti imputati di reati specifici ed in presenza di precise condizioni.
La Corte EDU, invero, ha esaminato la mancata partecipazione fisica del ricorrente nel solo giudizio di appello, definendo quest’ultima «priva della stessa importanza decisiva del primo grado».
La nuova disciplina recentemente approvata determina, invece, una applicazione più ampia della videoconferenza “da remoto” consentendone il ricorso a qualsiasi tipo di processo e con riferimento a tutte le parti processuali. Pertanto, le decisioni della Consulta e della Corte EDU circa la legittimità costituzionale dell’146 bis disp. att. c.p.p appaiono ininfluenti circa la vicenda in esame, e quell’istituto non sembra sovrapponibile al nuovo processo “da remoto”. In attesa, quindi, di pronunce circa la illegittimità o meno delle nuove norme, la soluzione maggiormente auspicabile è che i dirigenti degli uffici giudiziari dispongano che si faccia ricorso il meno possibile al processo “da remoto” nel periodo emergenziale e, che, tale esperienza si esaurisca il 30 giugno 2020.
Solo in tal modo il processo penale continuerà ad esistere nella forma attuale, così come ci è stata insegnata e tramandata dalla storia altrimenti, se l’eccezione diventerà regola, assisteremo alla morte del processo penale.
*Le proteste dei penalisti italiani non sono state vane, difatti il Governo in data 30.04.20, ha adottato il decreto legge “giustizia”, escludendo dal processo da remoto l’esame dei testi e la discussione delle parti.
**Articolo licenziato in data 29.04.20
Note
[1] Riv. “Il Pensiero” 25 dicembre 1903, num.11-12. Pag. 172
[2] Cfr. delibera dello “stato di agitazione” da parte dell’Unione Camere Penali Italiane del 24 apirle 2020, www.camerepenali.it
[3] Cfr. lettera del Garante della Privacy, pubblicata in data 17 aprile 2020, www.garanteprivacy.it
[4] Cfr. comuncato stampa del 27 aprile 2020 da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati, www.associazionemagistrati.it
[5]Decisione del caso Kostovski c. Paesi Bassi, del 20 novembre 1989, a proposito di un caso in cui la condanna era stata basata su dichiarazioni rese durante la fase d’indagine da testi anonimi:, la Corte evidenziava che «…la mancanza in aula dei testi anonimi ha precluso a ciascuna delle Corti giudicanti l’osservazione del loro comportamento sotto interrogatorio e così la formazione di un proprio concetto in merito ala loro affidabilità. …senza dubbio i magistrati hanno osservato cautela nel valutare le dichiarazioni in questione, ma questo difficilmente può essere considerato come una sostituzione adeguata dell’osservazione diretta».
[6] Cfr. Sent. Corte Costituzionale n. 255 del 18 maggio 1992 “il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio maggiormente rispondente all’esigenza di ricerca della verità; ma accanto al principio dell’oralità è presente, nel nuovo sistema processuale, il principio di non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili col metodo orale”
[7]Decisione caso Riepan c. Austria, 14 novembre 2000
Foto copertina: Il processo a Gaetano Bresci. Arengario
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