Fermento e apprensione fra gli israeliani, decine di manifestazioni in tutto il Paese contro il Governo Netanyahu di estrema destra e il pugno di ferro delle Forze militari nei Territori Occupati.


A cura di Viviana Serpillo

Quasi ogni sabato dall’insediamento del nuovo Governo Netanyahu, decine di migliaia di persone si sono riunite nelle strade delle maggiori città israeliane, comprese Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa, in segno di protesta verso il sesto Governo Netanyahu e le sue prime proposte controverse. Le principali manifestazioni hanno avuto luogo a Tel Aviv in Kaplan Street e Habima Square, riunendo la popolazione sotto lo slogan “saving democracy”, in segno di critica alla linea dura del Governo ultra-conservatore e estremista[1].
I risultati elettorali del 1 novembre 2022 hanno infatti determinato un nuovo preoccupante equilibrio all’interno della Knesset, portando alla maggioranza con 65 seggi su 120 il Partito Likud, la cui leadership è affidata al già noto Benjamin Netanyahu, in coalizione con partiti estremisti e suprematisti ebraici come Otzma Yehudit (Jewish Power) e HaTzionut HaDatit (Religious Zionist) e Noam. Questi ultimi sono ben noti nello scenario politico israeliano, non tanto in ragione del peso politico che fino alle elezioni in questione risultava marginale, ma a causa delle posizioni estremiste e razziste nei confronti delle minoranze, della comunità LGBTQI+ e naturalmente dei Palestinesi.
La tendenza degli israeliani a elezioni polarizzate sempre più verso destra è ormai costante dal 1977, quando il Likud di Manchem Begin raggiunse per la prima volta la maggioranza; ma i risultati della tornata elettorale del 2022 rappresentano un esito inedito nella nell’esperienza politica di Netanyahu, il quale per la prima volta ha dovuto cedere grandi spazi di manovra ai partiti estremisti in coalizione, ora ago della bilancia della storia politica di Israele.

La riforma del settore giudiziario

Nei primi giorni di gennaio, il Ministro della Giustizia Yariv Levin ha annunciato il progetto di riforma del sistema giudiziario israeliano bollato da più parti come un attacco ai pilastri dello Stato di Diritto e della divisione dei poteri. Gli effetti della riforma, considerata dal Governo come una priorità politica, sarebbero un brutto colpo inferto all’indipendenza del potere giudiziario, che diventerebbe asservito alle volontà della Knesset e di conseguenza all’esecutivo.
Gli elementi principali della proposta consistono nella possibilità di dare alla Knesset il potere di revocare ogni effetto delle sentenze della Corte, anche sull’operato di Parlamento e Governo, con una minima maggioranza di 61 voti; inoltre la riforma vedrebbe la limitazione da parte della Corte nell’utilizzo del principio interpretativo di ragionevolezza per bloccare un’eventuale proposta legislativa in contrasto con il diritto. In particolare questo sistema è stato utilizzato proprio dalla Corte per dichiarare l’incostituzionalità della nomina a Ministro dell’Interno di Ariyeh Deri, leader del partito Shas e condannato per corruzione, il quale aveva patteggiato garantendo alla giustizia il suo ritiro dalla politica. Inoltre, nel progetto di riforma in questione, sarebbe prevista l’introduzione del diritto di nomina dei giudici della Corte da parte del Governo, trasformando così un organo giudiziario, nato come indipendente, in un organo soggetto alle vicissitudini e alle dinamiche politiche.
Ciò che ha destato le maggiori preoccupazioni è la deriva manipolatrice della giustizia da parte di un gruppo di Governo, Netanyahu in primis, attualmente sotto indagine o con condanne per vari capi d’accusa, fra cui corruzione e frode. Il clima nella società civile è estremamente polarizzato: da un lato una radicalizzazione verso il conservatorismo religioso e toni di intolleranza, dall’altra una parte della popolazione che vede la minaccia proprio in queste parti di società che poco alla volta, stanno ridisegnando il profilo di un Paese, minando le garanzie democratiche anche per “i cittadini privilegiati”.

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Atmosfera sempre più tesa in Palestina

Al contempo, nei Territori Palestinesi Occupati la situazione non potrebbe essere più precaria: l’assenza di una leadership forte, la pervasiva corruzione e il lassismo dell’Autorità Palestinese contribuiscono ad accrescere la frustrazione nei Palestinesi, schiacciati fra un’estenuante occupazione e un pigro apparato para-statale da cui non si sentono più rappresentati né tutelati. Non stupisce che l’apparente quiete sia sempre pronta a esplodere in manifestazioni di rabbia sociale.
La politica militare aggressiva da parte dell’Israeli Defence Force (IDF) nei Territori Occupati, in particolare fra le aree di Nablus e Jenin, ha determinato il triste primato con cui il 2022 si è concluso: almeno 220 Palestinesi uccisi (167 in WB e 53 nella Striscia di Gaza), il numero più alto in West Bank dalla Seconda Intifada[2]. Non diverso è il bilancio del primo mese del nuovo anno con 35 Palestinesi uccisi, 10 dei quali nel raid nel campo rifugiati di Jenin il 26 gennaio 2023.
Il raid, giustificato dalle Forze militari come operazione di sicurezza anti-terrorismo, ha profondamente smosso i Palestinesi fino a canalizzare la rabbia e la sensazione di impotenza in iniziative individuali contro coloni israeliani sul Territorio. In particolare, di alta risonanza è stata l’azione terroristica il giorno seguente al raid di Jenin, nei pressi di una sinagoga nella colonia israeliana Neve Yaacov a Gerusalemme est, durante il quale sono morti sette israeliani. Dopo meno di 14 ore un tredicenne palestinese ha cercato di replicare l’azione, ferendo due israeliani nel quartiere Silwan, alle spalle del cuore dei Luoghi Santi.
Gli attacchi non sono stati rivendicati da nessuna delle principali organizzazioni tradizionali operanti sul Territorio come Fatah, Hamas e Palestinian Islamic Jihad, ma aprono la prospettiva di una nuova fase storica nella quale sono i gruppi armati indipendenti a essere protagonisti. Questi ultimi sono formati prevalentemente da giovani che, pur avendo affiliazioni con i movimenti che fin ora hanno caratterizzato la Resistenza palestinese, se ne distaccano, scegliendo di affrontare più apertamente Israele. Per questa ragione sono da un lato aumentati gli attacchi da parte di gruppi o singoli Palestinesi a danni di Israeliani, principalmente nei dintorni di insediamenti illegali, dall’altro hanno fornito il pretesto per legittimare interventi sempre più violenti e repressivi nei TPO.   
Nello scorso decennio, i nostri rivali politici ci avvertirono che se non avessimo fatto straordinarie concessioni ai Palestinesi, avremmo ricevuto uno tsunami diplomatico che avrebbe colpito anche sul piano economico, ciò che è accaduto, è in pratica è l’esatto opposto. La nostra policy ha condotto Israele a quattro accordi di pace storici con i Paesi Arabi, così come una florida rete diplomatica e prosperità economica” [3] afferma Netanyahu in una conferenza stampa, sottolineando come effettivamente sia mancato anche dalla comunità internazionale la volontà di isolare diplomaticamente Israele per i crimini e gli abusi commessi a danno dei Palestinesi, contribuendo da un lato a un senso di impunità, dall’altro alla consapevolezza che il sostegno alla causa palestinese è ormai fuori dalle priorità dei Paesi Arabi.


Note

[1] Middle East Eye, Israel: Thousands take to streets once more in protest over Netanyahu government, 28 gennaio 2023, al link:  Israel: Thousands take to streets once more in protest over Netanyahu government | Middle East Eye
[2] Per un quadro sulla situazione umanitaria Protection of Civilians Report | 6-19 December 2022 | United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs – occupied Palestinian territory
[3]Abubakr Al-Shamahi,  After Jenin, is a third Palestinian uprising inevitable?, Al-Jazeera, 27 gennaio 2023, al link: After Jenin, is a third Palestinian uprising inevitable? | Israel-Palestine conflict News | Al Jazeera


Foto copertina: Il Primo Ministro d’Israele Benjamin Netanyahu alla guida del Governo