Il Presidente turco cerca di sfruttare gli sviluppi nella questione israelo-palestinese per rinnovare l’immagine della Turchia come leader regionale e faro della comunità islamica.

 

Dopo anni di sostanziale isolamento diplomatico e di focalizzazione sul consolidamento del potere interno, il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan sta tornando a far sentire la sua voce sul fronte internazionale, nel tentativo di rilanciare la mai accantonata grand strategy geopolitica neo-ottomana.

Ma mentre è sotto gli occhi di tutti quanto sta accadendo nel cantone di Afrin[1], con le forze armate di Ankara che sono nuovamente intervenute in prima persona nel conflitto siriano dopo l’operazione “Scudo dell’Eufrate” dell’agosto 2016, sembra essere passato molto più sottotraccia il ruolo assunto da Erdoğan nella questione israelo-palestinese dopo l’annuncio da parte del Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, dell’imminente trasferimento dell’ambasciata statunitense presso Israele da Tel Aviv a Gerusalemme e del riconoscimento di quest’ultima come capitale dello Stato ebraico.

Il 13 dicembre scorso, infatti, si è tenuta a Istanbul una riunione straordinaria dei 57 Paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC), il cui promotore era stato proprio il Presidente turco. L’obiettivo dichiarato dell’incontro era quello di fornire una risposta comune del mondo arabo alla decisione dell’inquilino della Casa Bianca, messaggio condensato nella dichiarazione finale congiunta dei membri dell’OIC contenente la proclamazione di Gerusalemme Est come “capitale dello Stato di Palestina[2].

Tuttavia, al di là del non banale risultato della riunione dell’Organizzazione, ciò che più conta registrare sono le rinnovate velleità di Erdoğan di presentare la Turchia come leader regionale credibile e come faro della comunità islamica.

Fin dal 2002, anno di arrivo al potere del suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), il sogno proibito dell’attuale Presidente turco è sempre stato quello di rinverdire i fasti del defunto impero ottomano, mandando definitivamente in pensione il retaggio del padre della Patria, Mustafa Kemal Atatürk, e innalzandosi da capo di Stato della Repubblica turca a “Sultano” dell’intero mondo arabo[3].

Con questo obiettivo fisso in mente, l’approccio geopolitico di Erdoğan è sempre stato marcatamente revisionista. I confini contemporanei del Paese vanno stretti al Presidente turco, il quale, fermo restando un’ideale quanto irrealizzabile restaurazione dell’apogeo ottomano del sedicesimo secolo, vorrebbe quantomeno un ritorno all’estensione territoriale della “Grande Turchia”, disegnata dai nazionalisti turchi con il “Patto nazionale” (Misak-i Millî) del febbraio 1920.

La cartina in questione ricomprendeva molte isole dell’Egeo, alcuni territori attualmente appartenenti a Georgia, Armenia e Iran, nonché le zone del Kurdistan iracheno e siriano, non a caso al centro delle recenti azioni militari turche. Tale progetto fu tuttavia stroncato sul nascere dallo smembramento dell’impero, sancito con trattato di Sèvres dell’agosto 1920.

Le clausole imposte dai vincitori della prima guerra mondiale lasciarono una cicatrice indelebile sulla pelle dei nazionalisti, ancora oggi nota come “sindrome di Sèvres”, in base alla quale la Turchia sarebbe costantemente al centro di una serie di complotti orditi dalla comunità internazionale nei suoi confronti[4].

Per buona parte della carriera politica di Erdoğan, la base teorica della sua grand strategy neo-ottomana è stata senza dubbio la dottrina della “profondità strategica” di Ahmet Davutoğlu.      In estrema sintesi, l’assunto centrale del pensiero dell’ex guru della politica estera di Ankara era che l’eredità dell’impero ottomano conferisse un ruolo centrale negli scenari geopolitici globali alla Turchia, che avrebbe tuttavia dovuto soddisfare una serie di prerequisiti per poterlo reclamare con successo.

Secondo Davutoğlu, il Paese avrebbe innanzitutto dovuto risolvere i principali contenziosi interni, ossia l’annosa questione curda e la crescente frattura tra laici e islamisti. Sul fronte internazionale, il paradigma era invece la politica degli “zero problemi con i vicini”, in base alla quale la Turchia avrebbe dovuto trovare una soluzione alle proprie dispute bilaterali pendenti, in modo da potersi porre come il mediatore naturale di tutti i conflitti regionali e tornare a proiettare quell’immagine di garante della coesistenza pacifica interculturale e interreligiosa che le deriva appunto dal lascito ottomano[5].

Al tentativo di realizzazione di tale agenda sono stati dedicati in toto i primi due mandati di Erdoğan da Primo Ministro, a maggior ragione dopo la nomina dello stesso Davutoğlu a Ministro degli Esteri nel maggio 2009[6]. La situazione cominciò tuttavia a cambiare nel 2011, con lo scoppio delle “Primavere arabe” in Tunisia, Egitto e Libia.

Da principio, la scommessa del leader dell’AKP fu quella di cercare di intestarsi le rivolte in corso, sfruttando la sua ottima immagine personale nei confronti dei Paesi arabi e presentando apertamente la Turchia come il modello da seguire per le riforme democratiche domandate a larga voce dai ribelli[7].

A far crollare il castello di carte fu però l’inizio della guerra civile in Siria, che mise di fronte a evidenti contraddizioni l’approccio turco. Infatti, sebbene la posizione tenuta da Erdoğan nei confronti di Ben Ali, Mubarak e Gheddafi avrebbe richiesto una pronta condanna delle azioni di Bashar al-Assad, gli allora ottimi rapporti con il Presidente siriano e gli ingenti interessi economici in ballo lo spinsero a temporeggiare.

Ma ancora più significativamente, i precetti della politica degli “zero problemi con i vicini” cozzavano apertamente[8] con l’urgenza di affrontare la minaccia alla stabilità interna rappresentata dalla presenza tra le fila dei ribelli siriani delle milizie curde dell’Ypg, le stesse che la Turchia sta attualmente combattendo nel cantone di Afrin.

L’ambiguità dimostrata dal Governo turco mise quindi in serio dubbio le effettive capacità di leadership regionale della Turchia, ma il colpo di grazia alla dottrina della “profondità strategica” arrivò con la dura repressione delle proteste di Gezi Park del maggio 2013.

La reazione di Erdoğan alle manifestazioni fu infatti totalmente incompatibile con quanto dichiarato in occasione delle “Primavere arabe[9], determinando la definitiva presa di coscienza del mondo occidentale sulla natura autoritaria del leader turco e causando il rapido isolamento internazionale di Ankara citato in precedenza.

A seguito di questi sviluppi, la Turchia aveva ormai perso sia la credibilità necessaria che l’interesse a porsi come mediatore dei conflitti regionali, motivo per cui il focus di Erdoğan si spostò rapidamente verso quanto stava avvenendo all’interno del Paese, subordinando la politica estera turca al mantenimento e al rafforzamento della sua presa sul potere[10].

L’abbandono delle linee guida di Davutoğlu fu suggellato dalle dimissioni forzate di quest’ultimo dalla carica di Primo Ministro, presentate nel maggio 2016 proprio a causa delle sopraggiunte divergenze di visione con quello che nel frattempo era diventato il Presidente della Repubblica turca[11].

Questo cambio di rotta, occorre sottolinearlo, era stato intrapreso già due mesi prima del tentativo di golpe della notte del 15 luglio, che quindi non è stato la scintilla per un nuovo approccio geostrategico ma il mero catalizzatore di un processo già in corso, accrescendo in modo esponenziale l’urgenza di Erdoğan di consolidare il proprio potere e di “aumentare il numero degli amici[12], a costo anche sacrificare temporaneamente alcuni obiettivi internazionali di medio-lungo periodo in nome di qualche successo interno nel breve periodo.

Le reazioni a caldo dei vari Paesi agli eventi del 15 luglio[13] fornirono tuttavia a Erdoğan un quadro esaustivo di chi fossero gli interlocutori di cui si poteva fidare, rappresentando l’occasione per rinsaldare le relazioni con l’Iran e il Qatar e per seppellire l’ascia di guerra con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, ma soprattutto per lasciarsi alle spalle la disputa con Mosca per l’abbattimento del jet russo al confine turco-siriano del novembre 2015[14].

È in questo contesto che il 24 agosto 2016 Ankara lanciò l’operazione “Scudo dell’Eufrate[15] nel nord della Siria, avviata con l’intento di evitare l’unificazione dei vari territori sotto il controllo dei ribelli curdo-siriani lungo il confine con la Turchia, da sempre ritenuta una minaccia diretta alla stabilità del sistema politico turco[16]. Ciò non sarebbe mai stato possibile senza l’avvallo quantomeno implicito di Putin, così come è improbabile che il Presidente russo non abbia dato il suo consenso all’attuale operazione “Ramoscello d’Ulivo” ad Afrin, che per Erdoğan risponde allo stesso identico imperativo dell’intervento precedente.

Nei mesi successivi, a conferma che la cartina del “Patto nazionale” non è mai uscita dalla mente del Presidente turco nonostante i presupposti non possano più essere gli stessi del passato, la Turchia fu molto attiva sia in occasione della battaglia di Aleppo che dell’assedio di Mosul. Se nel primo caso Erdoğan non era intervenuto in prima persona, probabilmente ancora di concerto con Putin, lo stesso discorso non sarebbe valso per l’offensiva alla roccaforte irachena dell’Isis nell’ottobre 2016.

Infatti, senza lasciare spazio a equivoci, di fronte alle lamentele del Primo Ministro iracheno Ḥaydar al-ʿIbādī, il quale pretendeva che la Turchia non si intromettesse nella questione, Erdoğan rispose che sarebbe stato “impossibile per noi stare fuori da Mosul, perché lì c’è la nostra storia. […] I gentili signori sono pregati di leggersi il Misak-i Millî per capire che cosa significhi quel luogo per noi[17].

Il nuovo quadro di riferimento della politica estera turca dovrebbe quindi essere ormai piuttosto chiaro. La preoccupazione principale di Erdoğan continuerà a essere il mantenimento del potere interno perlomeno fino alle elezioni presidenziali del novembre 2019, quando in caso di vittoria l’entrata in vigore delle riforme costituzionali approvate con il controverso referendum popolare dell’aprile 2017 gli garantiranno il dominio incontrastato sulla Turchia.

Questo non significa che il sogno neo-ottomano sia stato abbandonato dal leader turco, ma soltanto che per ragioni contingenti il suo approccio geopolitico è dovuto diventare più pragmatico, portandolo a lavorare sotto traccia e a mantenere sempre un piede in una staffa e uno nell’altra, pronto a sfruttare ogni minima occasione per rilanciare le proprie ambizioni e per guadagnarsi un posto ai tavoli negoziali per lui più importanti.

È quanto successo con la guerra civile siriana, dove Ankara si è conquistata un ruolo centrale nel quadro dei “colloqui di Astana” insieme a Mosca e Teheran. È quanto successo in Iraq, con la riconquista di Mosul prima e con il referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno poi. È quanto successo con la crisi qatariota della scorsa estate, quando Erdoğan ha cercato di porsi come mediatore tra Doha e le petromonarchie del Golfo. È quanto successo con Gerusalemme, occasione d’oro per provare ad assumere la guida putativa del blocco arabo. È quanto successo ad Afrin, dove è bastato un pretesto tutto sommato banale per intervenire militarmente in difesa dei propri interessi nazionali.

Un Erdoğan più stabile dal punto di vista interno significa una Turchia più credibile a livello internazionale. Una Turchia più credibile a livello internazionale significa un Erdoğan più intraprendente in politica estera. Un Erdoğan più intraprendente in politica estera significa un ennesimo tentativo di rilancio della grand strategy neo-ottomana.

Ciò che appare sicuro è che le mirabolanti mire imperialiste del Presidente pronto a ergersi a Sultano siano destinate a rimanere confinate nel mondo dei sogni. Ma possiamo stare certi che finché tale sogno rimarrà vivo Erdoğan continuerà a inseguirlo. In fin dei conti, in caso di fallimento gli basterà appellarsi alla “sindrome di Sèvres” per sentirsi pienamente assolto.


[1] {“È cominciata l’operazione militare della Turchia contro i curdi in Siria”, Il Post, 20/1/2018.}

[2] {Bettoni D., “Erdoğan gioca la carta Gerusalemme”, Osservatorio Balcani e Caucaso, 15/12/2017.}

[3] {Caracciolo L., “Gli imperi non vivono due volte”, in Limes, No 10/2016.}

[4] {Ivi, p. 18.}

[5] {Murinson A., “The strategic depth doctrine of Turkish foreign policy”, Middle Eastern Studies, 42:6, 2006, p. 952.}

[6] {Ulutaş U., “Turkish Foreign Policy in 2009: A Year of Pro-activity”, Insight Turkey, Vol. 12, No. 1, 2010, pp. 1-2.}

[7]{Ozhan M. & Kurkut H., “Turkish Foreign Policy towards the Arab Revolutions”, Epiphany, Journal of Trans-Disciplinary Studies, Vol. 6, No. 1, 2013.}

[8] {Sali S., “La Turchia e la ‘Primavera Araba’”, Academia, Rivista Marittima, giugno 2011, p. 34.}

[9] {Ülgül M., “Continuity or Change in Turkish Foreign Policy? Analyzing the Policy Fluctuations during the Justice and Development Party Era”, Journal of Global Analysis, Vol. 7, No. 1, Gennaio 2017, pp 70-71.}

[10]{Roli F., “Le tre fasi della politica estera dell’AKP: una spiegazione a partire dalla politica interna”, Notizie Geopolitiche, 15/9/2015.}

[11] {Canetta T., “Con l’addio di Davutoğlu la Turchia fa un altro passo sulla via neo-ottomana”, Linkiesta, 6/5/2016.}

[12] {Ulutaş U., İnat K. & Kanat K. B., “Turkish Foreign Policy after April 16”, SETA Perspective, No. 27, Maggio 2017.}

[13] {Pedde N., “Iran-Turchia: non tutti i golpe vengono per nuocere”, in Limes 10/2016, p. 215.}

[14] {“Jet russo abbattuto, passo avanti di Erdogan: ‘Vorrei che non fosse successo’. Ma Putin lo gela con sanzioni economiche”, Il Fatto Quotidiano, 28/11/2015.}

[15] {Falciatori S., “Operazione Scudo dell’Eufrate: L’Intervento Turco in Siria”, The Zeppelin, 15/11/2016.}

[16] {Pucci F., “Erdoğan e il futuro della questione curda: da Erbil a Raqqa”, Opinio Juris, 19/11/2017.}

[17] {“Erdoğan: Turkey ‘Will be at Table’ for Mosul Talks”, Habertürk, 17/10/2016.}

Copertina :  Foto di rito al termine della riunione straordinaria dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica a Istanbul, 13 dicembre 2017.