L’ombra della storica battaglia tra carri armati di Kursk, avvenuta durante la Seconda guerra mondiale, ritorna ad aleggiare sull’Ucraina e per comprenderne meglio le rinnovate (?) dinamiche, ne abbiamo parlato con il Generale Paolo Capitini.
Introduzione: un’era fa…
Era il 15 settembre 1916, fronte occidentale, quando per la prima volta quella nuova arma che era il carro armato venne utilizzata sul campo di battaglia. Quelle che agli occhi terrorizzati e disorientati dei soldati tedeschi sembrarono indistruttibili macchine da guerra svolsero un ruolo, che seppur grandemente revisionato e ampliato con il passare degli anni, è rimasto sostanzialmente lo stesso sino ad oggi. Quel ruolo è supportare gli assalti della fanteria eliminando ostacoli, nidi di mitragliatrici e, di lì a pochi anni, altri carri armati. Sono passati più di cento anni da allora ma questi strumenti di morte non hanno mai smesso di costituire (chi più chi meno) la spina dorsale di tutti gli eserciti del globo che, purtroppo, ancora oggi si danno battaglia. Il carro armato è divenuto così una delle prime immagini che risalgono alla mente se collegata alla parola guerra, in particolare dopo il ruolo assolutamente onnipresente svolto durante la Seconda guerra mondiale, e l’importanza di queste terribili macchine, sebbene sia stata fonte di accesi dibattiti sulla sua effettiva validità sui campi di battaglia moderni, è tornata ancora una volta ad essere centrale, stavolta, o meglio, ancora una volta, sul terreno ucraino.
La guerra avviata dalla Federazione Russa, con il passare dei mesi, sino all’anno appena compiuto si è trasformata in una guerra di posizione sempre più marcata ed il supporto occidentale all’esercito ucraino è divenuto sempre più vitale per Kiev. Tra i tanti aiuti richiesti, uno degli ultimi ha suscitato un accese discussioni politiche, ovvero la richiesta di ingenti quantità di carri armati “occidentali”, quali gli statunitensi Abrams, i tedeschi Leopard 2 e i britannici Challenger 2. Le sfumature politiche che tale richiesta ha creato, in questo caso, hanno iniziato ad amalgamarsi a quelle strategico – militari nonché toccando diversi “nervi scoperti” dai toni e retoriche più o meno da Guerra fredda. Infine, la richiesta è stata, dopo un ampio ridimensionamento in termini di numeri, accolta, ma questo non ha aiutato a dissipare il caos di informazioni su questo importante tema. È per questo che, nel tentativo di fare ordine e chiarezza, abbiamo parlato con un esperto, Paolo Capitini, generale in ausiliaria e docente a contratto di storia militare all’università della Tuscia e alla Scuola Sottufficiali dell’Esercito.
L’intervista
Negli ultimi giorni, dopo grandi dibattiti internazionali, è stato autorizzato l’invio di carri armati “occidentali” di ultima generazione per aiutare l’esercito ucraino a resistere (e possibilmente respingere) l’invasione da parte della Federazione Russa. Leopard 2, M1 Abrams e Challenger 2 tra i nomi che più hanno rimbalzato tra i media, ma come spiegherebbe tanta riluttanza nella decisione di cederne alcune unità? La paura di mettere in campo nuove tecnologie con la possibilità che vengano in qualche modo “rubate” che ruolo può aver giocato e giocare?
«Solo un anno fa in pochi avrebbero scommesso non solo sull’incredibile resistenza dell’esercito e dell’intero popolo ucraino, ma addirittura sulla loro capacità di reazione. L’operazione militare speciale di Putin, nata con l’intento di sovvertire in pochi giorni il governo ucraino, sebbene sottodimensionata agli scopi e ai tempi di un’invasione vera e propria aveva comunque colto l’esercito ucraino non al meglio delle proprie capacità operative. Problemi di mobilitazione di ingenti numeri di militari, scarsa disponibilità di armamento e di equipaggiamenti e difetti nell’addestramento del personale sembravano segnare il destino di Kiev e invece, giorno dopo giorno, i fatti hanno provveduto a smentire il pronostico. Tuttavia, in guerra non esistono miracoli e neppure quello compiuto dall’esercito azzurro-oro lo è stato. Si è trattato al contrario di un sorprendente e sapiente uso delle risorse a disposizione; pianificate, coordinate e impiegate nel migliore dei modi. Il prezzo da pagare è stato comunque alto, molto alto, sia in termini di vite umane sia di materiali. Focalizziamo l’attenzione su quest’ultimo aspetto e in particolare sugli armamenti pesanti; vale a dire i carri armati, i veicoli per il trasporto e il combattimento per la fanteria e i pezzi d’artiglieria. Per l’esercito ucraino come per quello russo tutto questo usciva fuori dai depositi e dagli arsenali ex-sovietici.
Si parla dei carri armati T64 e T72, dei veicoli BMP 1 e 2, dei BTR 90 e via così. Materiali a bassa tecnologia, pensati e costruiti in previsione di una possibile guerra ad alta intensità nel centro dell’Europa contro il nemico di sempre: la NATO.
La storia che seguì gli anni della caduta dell’URSS e del muro di Berlino sono noti a tutti. Nulla o quasi di quel mondo sopravvisse, a meno dei mezzi e delle armi pensate per combatterci. Qui è bene ricordare la prima differenza tra l’esercito della Federazione russa e quello di Kiev. All’inizio della guerra, così come in gran parte anche ai giorni d’oggi, Mosca poteva contare su uno sterminato arsenale di mezzi e munizioni accantonati negli anni in previsione di un conflitto che, per fortuna non ci fu. Da quei parchi perduti oltre gli Urali arrivarono i T64, i BRDM, i vecchi camion ZIL e i BMP che avremmo poi visto in gran numero incendiati e distrutti a bordo delle fangose strade ucraine.
Affascinati dal potere distruttivo dei javelin e dei droni anticarro switchblade ci siamo però dimenticati della terribile usura imposta dal combattimento anche al parco veicoli dell’esercito di Kiev. E’ infatti vero che nei mesi Mosca ha sofferto terribili perdite in termini di materiali, ma mentre l’esercito russo poteva attingere ad un magazzino quasi infinito, al contrario Kiev sapeva che ogni singolo carro perso, ogni blindato andato in fiamme, ogni obice colpito dalla controbatteria di Putin difficilmente sarebbe stato sostituito. Questa semplice costatazione a Mosca si è trasformata in una precisa strategia di guerra. In mancanza di significativi avanzamenti sul terreno sarebbe stato opportuno infliggere a Kiev perdite materiali tali da compromettere la volontà e la capacità di sostegno e di alimentazione che nel frattempo il campo occidentale era stato in grado di sviluppare. Fino a quando l’Occidente sarebbe stato in grado di alimentare lo sforzo ucraino? Quali costi finanziari e di materiali sarebbe stato disposto a pagare? Sulla risposta a queste due domande Mosca aveva basato gran parte della sua strategia di guerra; vale a dire tirarla tanto per le lunghe fino al punto di costringere l’occidente a “staccare la spina” a Kiev. In questa prospettiva ogni carro consumato era un carro guadagnato. La risposta inziale , in gran parte inattesa, era stata quella di “sollecitare” i nuovi membri della NATO, un tempo appartenenti al patto di Varsavia, a cedere all’Ucraina gran parte del loro parco veicoli di fabbricazione ex-sovietica.
Paesi come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, tutti i paesi baltici ma anche Bulgaria, Romania e persino una recalcitrante Ungheria avevano provveduto a rimpinguare l’arsenale di Kiev con i loro vecchi mezzi dalla stella rossa. Non era però bastato. Così si era deciso di acquistarli in giro per il mondo ad esempio da India, Marocco, paesi arabi vari e persino da Cipro. Tuttavia, i ritmi di consumo imposti dalla guerra non erano e non sono sufficienti a coprire le esigenze ucraine e a questo punto si arriva alla questione dei carri occidentali. Dopo un anno di guerra semplicemente trovare carri, pezzi di artiglieria, veicoli da trasporto di derivazione ex-sovietica è diventato molto, molto difficile. Rimanevano gli arsenali e i depositi dei paesi occidentali, in primo luogo quelli americani. Qui però la faccenda si complica. Se si fosse voluto continuare a supportare Kiev sarebbe stato evidente che si sarebbe dovuto attingere alle dotazioni e alle scorte degli eserciti dell’Alleanza. Non sarebbe stata la NATO a consegnare alcunché, ma ogni singolo paese avrebbe dovuto decidere se e cosa dare a Kiev e in che tempi. Ciò ha scatenato all’interno di ogni paese una forte e motivata discussione che ha coinvolto i rapporti presenti, ma soprattutto futuri con Mosca nonché l’effetto che la fornitura di carri armati avrebbe sortito sull’opinione pubblica di ognuno, vale a dire sull’elettorato. Per alcuni paesi valgono poi anche considerazioni di politica industriale. E’ questo il caso della Germania dove la Rheinmetall produce il celebre Leopard 2. A livello mondiale questo carro è il naturale competitor dell’americano Abrams, del francese Leclerc e del britannico Challenger ed è un leader nel mercato mondiale. A Berlino qualcuno ha pensato se consegnare la flotta di Leopard 2 all’Ucraina avrebbe significato aprire un buco che sarebbe stato presto riempito non più da altri Leopard 2 ma, perché no, da Abrams statunitensi o addirittura, da K2 Black Panther coreani. Quando Polonia, Spagna e gli altri 23 paesi che sono attualmente equipaggiati con Leopard 2 avessero ceduto i loro carri all’Ucraina che garanzia avrebbe mai avuto la Germania di mantenere la sua quota di mercato? Il dubbio imponeva quindi prudenza nel liberare questi paesi dai vincoli contrattuali che li legavano a Berlino e alla Rheinmetall. Esiste poi il problema di quali versione consegnare. Tra un Leopard 2 A1 e una versione A6 corrono infatti enormi differenze tecnologiche che equivalgono a enormi segreti industriali e altrettanti enormi problemi di gestione logistica. La prospettiva del retro engineering, vale a dire della possibilità che una volta catturato dai russi uno di questi carri sarebbe stato smontato e copiato bullone per bullone era ed è più che concreta e anche questo aspetto impone prudenza. Infine, c’è la possibilità che una volta schierati nelle pianure ucraine i Leopard 2 potevano performare male, vale a dire fare una brutta figura. Che impatto avrebbe infatti sul mercato mondiale l’eventuale distruzione di questi costosissimi carri da parte di uno scalcinato sistema controcarro russo? Perché pagare così tanto per un carro che, dopo tutto, va a fuoco come qualsiasi altro? Era già successo in Siria quando una quindicina di Leopard 2 dell’esercito turco erano andati in fiamme esattamente come tutti gli altri. Se esuliamo dall’ambito tecnico e si entra in quello politico viene infine da chiedersi se l’occidente voglia davvero dotare Kiev di una forza in grado di sovvertire le sorti della guerra. Finora sia Biden, sia gli altri leader occidentali hanno giustamente sostenuto il sacrosanto diritto di Kiev a difendersi dall’aggressore. Tuttavia, difendersi è una cosa e vincere un’altra. Si è disposti a sostenere un’offensiva ucraina ad esempio contro la Crimea? E come comportarsi se una puntata offensiva di qualche unità corazzata ucraina decidesse di passare il confine russo? Per evitare ogni rischio è bastato rispondere a Zelensky, il quale chiedeva con urgenza 7-800 carri per vincere, che gli sarebbero stati consegnati circa 200 carri per difendersi, Quando? Con comodo a partire dal maggio di quest’anno per concludere le consegne entro il prossimo. Non dimentichiamo infatti che anche quando sostiene valori universali, come il diritto di un popolo di difendersi da un’aggressione, la politica rimane il regno del possibile e del conveniente.»
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Sino a pochi mesi fa il dibattito accademico/militare era incentrato sull’effettiva o meno utilità del carro armato nei moderni scenari di guerra; ora questi veicoli sembrerebbero essere diventati l’ennesimo ago di una bilancia quanto mai eterogenea. Un filone narrativo alimentato dagli evidenti errori tattici commessi dai russi nei primi mesi di invasione o i ragionamenti possibili vengono ancor più a complicarsi alla luce di uno scontro, anche tecnologico, dalle marcate “note” da Guerra fredda?
«Tempo fa mi sono trovato tra le mani un libro del 1934, “I servizi logistici nella guerra” scritto dal generale Guido Liuzzi. Già nelle prime pagine l’autore rimarcava la sorpresa sua e degli altri ufficiali, formati e preparati per combattere una breve guerra di movimento nell’essersi trovati a combattere un’imponente quanto inattesa guerra di posizione. La stabilizzazione del fronte ad est di Donetz, la durezza del combattimento attorno a Bakhmut, l’uccidere e morire per poche centinaia di metri mi hanno fatto sentire estremamente attuali quelle righe di novant’anni fa. Dopo decenni di missioni di pace, di conflitti asimmetrici a bassa intensità il conflitto in Ucraina ha riportato d’attualità la guerra convenzionale ad alta intensità e la possibilità che questa venga combattuta nelle forme e con i metodi della guerra di posizione e di attrito. Qualcuno, e non sono pochi, inizia a chiedersi se sia questa la fine della guerra di manovra; di quella cioè che si sviluppa nel binomio carro-aereo che fece il suo esordio nel settembre del 1939 nelle pianure polacche. Per tutta la seconda mondiale e soprattutto nei decenni successi l’eventuale guerra totale, una volta che si fosse rinunciata all’ipotesi atomica, si sarebbe sviluppata con grandi masse di carri armati, sostenuti dal fuoco di obici cingolati semoventi e protetti dalle sortite dei caccia-bombardieri. Per decenni l’industria bellica e gli stati maggiori hanno progettato e pianificato questo tipo di guerra. Nessuno metteva in discussione il carro armato e la sua fondamentale importanza. Ora il fronte ucraino ci pone la domanda se questo postulato della guerra sia da mettere in discussione.
Secondo me no. La guerra manovrata rimane ancora la sola in grado di porre in essere le condizioni per la vittoria sul campo. Alla guerra di posizione, quella di attrito cioè alla materialschlacht rimane al massimo la possibilità di logorare a tal punto l’avversario da indurlo a ritenere inutile proseguire nella guerra, non certo a porre in atto le condizioni per una vittoria sul campo. Ecco, quindi, come il carro armato, protetto e sostenuto da adeguati reparti di fanteria corazzata e di artiglieria in grado di garantire costantemente il supporto di fuoco alla manovra, rimane ancora un mezzo assolutamente attuale, a patto che lo si impieghi per ciò che è stato pensato: gli spazi aperti, il terreno pianeggiante, non certo l’ambiente urbano, le colline o i fiumi o gli spazi dove i droni possono volare liberamente.
Qui il carro dimostra tutte le sue vulnerabilità senza liberare le sue potenzialità. Che si tratti di un T14 Armata, di un Abrams o di un vecchio T64 poco cambia. Si tratta di riportare il carro nel suo ambiente naturale. In questo senso ipotizzare che l’immissione di qualche centinaio di Abrams o di Leopard 2 in una situazione tattica dominata dalla immobilità del fronte possa cambiare qualcosa è solo un esercizio di fede. Ci si deve domandare piuttosto cosa serve per rompere il braccio di ferro delle trincee, dei campi minati e dei reticolati. Di certo non sarà il carro a meno di continuare a vederli bruciare ai lati di enormi stradoni.»
Il ruolo dell’aviazione, soprattutto negli ultimi mesi di guerra, è stato quanto mai secondario. Cosa ha portato a questo? Ed è possibile che l’”assenza” di quest’ultima da entrambe le parti abbia lasciato spazio di manovra ai veicoli terrestri in una guerra che sempre più ricorda un passato che non sembra passare per davvero?
«A chi abbia avuto cura di osservare come questa guerra è stata condotta viene in mente una domanda: dov’è finita l’aeronautica? Fin dai primi giorni si è visto che non c’era traccia della campagna aerea destinata a stabilire l’assoluta supremazia aerea. Questo è un pilastro della guerra secondo la NATO: cancellare dal cielo ogni aereo nemico, bombardando i suoi aeroporti, annientando le sue difese aeree, distruggendo in volo o a terra i suoi velivoli e questo ben prima che il primo carro armato entri in combattimento per la “campagna di terra”. Fin dall’esordio di questa operazione militare speciale si è capito che non era questo il volere o forse la capacità dei russi. La campagna per guadagnare la supremazia aerea non c’è stata. E neppure quella per il supporto delle forze a terra, il cosiddetto close air support. Nei primi giorni della guerra si sono visti gli elicotteri d’attacco KA 52 alligator, i Sukoi Su-25, i Sukoi Su-35 e altri aerei per il supporto, poi più nulla. Tutto o quasi è stato sostituito da un centinaio di missili al giorno diretti quasi interamente contro le infrastrutture. L’appoggio alle truppe di terra è stato sostituito dal fuoco di artiglieria e dai droni. Viene da chiedersi perché. La risposta sta forse nel continuo e progressivo aumento dell’efficacia delle difese contraeree ucraine.
Oggi volare sui cieli ucraini rappresenta per i piloti russi un rischio inaccettabile, soprattutto in una fase in cui il fronte è così stabilizzato. Vedremo di nuovo l’aeronautica russa massicciamente nei cieli? Forse sì e non sarà un bel segnale per l’Ucraina. Nel frattempo, Kiev è riuscita a porre in salvo gran parte dei suoi assetti aerei e altri, magari gli agognati F16 o A 10, prima o poi arriveranno. Per ora la guerra aerea è appannaggio dei Kalibr, dei S 300 o dei droni shahed.»
L’invio degli MBT (Main Battle Tank) occidentali in Ucraina è una notizia importante, ma tra il necessario addestramento degli equipaggi e il dislocamento dei veicoli sul fronte (o sui fronti) quando e quanto potranno impattare effettivamente sul campo di battaglia? Il taboo della dicotomia tra aiuti difensivi ed offensivi è stato spezzato?
«Eccoci di nuovo all’argomento carri armati, questa volta però per ricordare che senza un equipaggio in grado di utilizzarli al meglio sono e rimangono poco più di un grosso trattore con un cannone. Il problema degli equipaggi è, per gli ucraini, forse meno grave di quello relativo all’effettiva disponibilità di carri moderni come gli Abrams o i Leopard 2. Molti degli equipaggi che si sono formati nelle unità carri ucraine, sui T72 e che sono sopravvissuti ai primi mesi di guerra sono ora in addestramento nei campi della Polonia e in qualche base dell’Ucraina occidentale. Si può essere più che fiduciosi che saranno in grado di utilizzare al meglio quanto sarà loro fornito. La domanda è dunque se questi carristi decisi e preparati a combattere avranno qualche carro su cui salire. Per ora si dovrà attendere la fine di maggio per veder arrivare il primo centinaio. Per quanto riguarda la divisione tra arma difensiva o arma offensiva è questo un argomento puramente giornalistico e, mi duole dirlo, tipicamente italiano. Un’arma è comunque sempre un’arma, qualcosa cioè in grado di uccidere o danneggiare. Che lo si faccia a scopi difensivi oppure offensivi è una questione che afferisce all’utilizzatore non all’arma. Alimentare questa inesistente differenza è fuorviante e suona più essere un paravento per una politica insicura che un’argomentazione con una qualsivoglia validità.».
Foto copertina: La battaglia di Kursk, in tedesco nota col suo nome in codice di Unternehmen Zitadelle (Operazione Cittadella), in russo Bitva pod Kurskom (battaglia presso Kursk) si svolse nel quadro della terza offensiva estiva sferrata dai tedeschi il 5 luglio 1943 sul fronte orientale durante la seconda guerra mondiale e nella quale avvenne la più grande battaglia di mezzi corazzati della storia.