Le due guerre cecene: dal nazionalismo al terrorismo islamico


[dropcap]In questa[/dropcap] sede si tenterà di ricostruire brevemente la storia dei conflitti tra Russia e Cecenia, partendo dalle origini.
Sarà dedicata particolare attenzione alla distinzione tra il primo conflitto (combattuto contro i nazionalisti) e il secondo (combattuto contro il terrorismo di matrice islamica).
Il processo di pacificazione e la questione relativa alla violazione dei diritti umani saranno invece oggetto di un lavoro successivo.


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La conquista del Nord Caucaso

Agli inizi dell’800 la Russia diede avvio alla campagna nel Nord Caucaso, zona strategica per l’espansione verso sud. Sin dal principio i russi trovarono numerose difficoltà nell’imporre il loro dominio e le loro istituzioni.
In primo luogo per la morfologia del territorio, formato perlopiù da valli profonde e montagne, che impediva già alle comunità stanziate di avere stretti rapporti e quindi di costituire un’unica società[1].                  
Il secondo problema è rappresentato dalla presenza della shari’a[2] tra le popolazioni cecene e ingusce, in nome di cui furono proclamate varie jihad per unire i popoli del Nord Caucaso. Sia la guerra santa dello sceicco Mansur (1785-1791), che quella di Shamil (1824-1859), furono represse nel sangue. Nonostante le vittorie l’impero zarista non riuscì mai a guadagnarsi il favore dei membri dell’aristocrazia cecena[3] e a scongiurare il pericolo di ulteriori insurrezioni.                                         Dopo la rivoluzione socialista la Cecenia ritornò ad essere una regione calda. Tra il ’18 e il ’19 un gruppo di uomini condotto da due sceicchi proclamò l’Emirato del Nord Caucaso e sfidò il generale Denikin, che controllava militarmente la regione[4].            
L’anno seguente l’Armata Rossa sferrò un duro attacco alla religione islamica, e avrà la meglio definitivamente nel ‘22.              
Successivamente l’Urss cercò di controllare la Cecenia vietando l’Islam, con fucilazioni e deportazioni dell’élite locale. Durante gli anni del “grande terrore”[5] seguirono ulteriori fucilazioni e deportazioni ai danni dell’aristocrazia cecena, rea di non essersi adeguata al sistema della collettivizzazione agricola (kolchoz).                                                                                                     

La grande deportazione del ’44 e la formazione di una memoria storica

Durante il secondo conflitto mondiale molti soldati ceceni disertarono, soprattutto per la mancanza di ufficiali ceceni tra le fila dell’armata rossa a cui fare riferimento.                           

I disertori andarono ad alimentare il fenomeno del “banditismo” (definito così da fonti ufficiali sovietiche)[6], che trovava ampio sfogo nel Nord Caucaso, territorio ancora difficile da controllare per i sovietici. L’invasione nazista della regione tra il ’42 e il ’43 complicò ulteriormente la situazione. Molti ceceni furono accusati di collaborazionismo coi tedeschi, in ragione di quanto era già avvenuto con i banditi.                                            

Così tra il 23 e il 24 febbraio del ’44, per ordine di Stalin, ebbero luogo delle deportazioni punitive dell’intera popolazione cecena. Circa 500.000 persone[7] furono caricate su vagoni merci e affrontarono un viaggio di 3-6 settimane per l’Asia centrale. Tutti coloro che opposero resistenza o furono giudicati “intrasportabili”[8] vennero uccisi sul posto. I sopravvissuti al viaggio, una volta giunti a destinazione in Kazakistan e Kirghizistan, non trovarono né abitazioni, né strumenti o materiali per costruire[9].                    

Lo scopo principale della deportazione fu quello di “sovietizzare”[10] la Cecenia, che intanto fu ripopolata forzatamente da russi, ucraini, georgiani, osseti del nord e del sud. 

Solo nel 1956, ben 13 anni dopo la deportazione, il popolo ceceno fu autorizzato a tornare in patria. Nikita Sergeevič Chruščëv utilizzò il termine “riabilitazione” per i deportati[11], che però non cancellava dalla memoria sovietica l’immagine di un popolo criminale.
Al loro ritorno i ceceni trovarono le loro case abitate, i loro cimiteri e monumenti distrutti. Ciò generò un’inevitabile conflitto per gli spazi e le risorse tra i ceceni e i popoli che avevano ripopolato la regione. Dal ’57 fino alla metà degli anni ’80 fu vietato parlare della grande deportazione nel dibattito pubblico. Era invece più in voga la teoria dello storico Vinogradov di “annessione volontaria”, che sottolineava il legame storico di amicizia tra i popoli della Russia e del Nord Caucaso. 

Il tema della grande deportazione ritornò in auge verso la fine degli anni ’80, durante l’amministrazione di Michail Sergeevič Gorbačëv, periodo in cui ci fu un ripensamento delle politiche staliniane. La dottrina della glasnost’[12] si spinse fino a riconoscere i crimini subiti dalle popolazioni deportate. Questo rappresenta uno snodo fondamentale per la comprensione della prima guerra cecena, poiché proprio la memoria storica della grande deportazione fece nascere e alimentò certi discorsi nazionalisti in Cecenia.
Il 1989 fu un anno di grandi conquiste per i ceceni. Ci fu l’elezione di Doku Gapurovich Zavgayev, primo ceceno a diventare segretario del partito comunista repubblicano. Di lì a poco la storia della deportazione si sarebbe diffusa a tal punto da divenire oggetto di articoli di giornale, opere poetiche e canzoni.

Il primo conflitto ceceno: la guerra russa contro i nazionalisti

 

Tra l’89 e il ’91 avviene il “risveglio della politica” in Cecenia, come afferma Alessandra Rognoni[13]. Il Soviet supremo dell’Urss (considerato il fermento ceceno) approvò una legge che riabilitava i popoli deportati, ristabilendo i confini esistenti prima del ’44.                                       Il problema è che si trattava di una semplice dichiarazione d’intenti, che non chiariva come realizzare le sue proposte. Ciò, invece di calmare le acque, contribuì ad inasprire fortemente il dibattito pubblico interno in Cecenia. 

Nell’estate del ’90 si riunì un comitato organizzativo del primo congresso nazionale ceceno che di lì a poco avrebbe dato luogo ad un comitato esecutivo, a cui capo fu nominato Džochar Musaevič Dudaev, ufficiale dell’aeronautica dell’esercito sovietico. Nella stessa seduta il congresso dichiarò l’indipendenza della repubblica cecena, riconosciuta poi dal Soviet supremo.                      

Tale riconoscimento risultò poi essere ambiguo agli occhi dei ceceni, poiché non chiariva se si trattasse di un’indipendenza all’interno o all’esterno della Federazione russa[14].

Il putsch di agosto del ’91 che avrebbe vanificato gli sforzi del presidente Gorbačëv di tenere unita l’Urss[15], fu una tappa decisiva. Dudaev cominciò a raccogliere sempre più consensi, mentre nel congresso trionfò l’ala radicale del Partito Democratico Vainaco (presieduto appunto da Dudaev). I discorsi del generale erano ricchi di riferimenti alla grande deportazione: in occasione del putsch accusò le autorità russe di voler sfruttare il caos per deportare di nuovo i ceceni e gli ingusci. Il soviet locale non fu in grado di rispondere all’avanzata dei nazionalisti, che costituirono un esercito nazionale e occuparono centri radio, televisivi ed edifici statali; nemmeno la nomina di un soviet provvisorio fu sufficiente a ristabilire l’ordine.

Il 27 ottobre Dudaev fu eletto presidente con la maggioranza dei voti, anche con l’appoggio del partito integralista Islamskij put’. Ciò provocò il timore del presidente della Federazione russa Boris Nikolaevič El’cin (Eltsin), che introdusse lo stato di emergenza nel territorio della Cecenia (ritirato dopo poco). Dudaev rispose con l’introduzione dello stato di guerra, ottenendo così pieni poteri.

Dopo gli accordi di Belavezha dell’8 dicembre e i protocolli di Alma-Ata del 21 dicembre, il Soviet supremo si riunisce per l’ultima volta il 26 dicembre per deliberare lo scioglimento dell’Urss; la questione cecena passa ufficialmente a Boris Eltsin e alla Federazione russa.
Intanto nel centro di Groznyj c’è la costruzione di un monumento in memoria dei deportati con scritto “Non ci piegheremo, non piangeremo, non dimenticheremo”; la posizione dei nazionalisti si rafforza sempre di più.                               

Nel ’92 la Cecenia ereditò la metà degli armamenti appartenuti all’Urss su consenso del ministro della difesa russo Pavel Sergeevič Gračëv. Inoltre insieme al Tatarstan (altra regione “calda” situata ad 800 km a est da Mosca), fu deciso di non firmare il trattato federativo russo. Gli incontri successivi tra la delegazioni cecene e russe volti a normalizzare la posizione della Cecenia furono vani e gli scontri nella vicina Ossezia del nord tra osseti e ingusci non fecero altro che alimentare la tensione tra Mosca e le regioni del Caucaso settentrionale. La crisi economica in cui riversava la Russia, insieme alle sue storiche aspirazioni geopolitiche, non avrebbero mai permesso alla Cecenia di divenire indipendente. Questo lo sapeva molto bene Eltsin, che decise di finanziare ripetutamente gli oppositori di Dudaev per creare scompiglio.

Il 26 novembre del ’94 gli oppositori di Dudaev occuparono Groznyj, ma furono soppressi dalle truppe cecene. Tre giorni dopo arrivò l’ultimatum di Eltsin, che riunì il consiglio di sicurezza della federazione e chiese ai ceceni di cessare il fuoco (anche se secondo l’allora ministro della giustizia Kalmykov, il presidente aveva già deciso di invadere la Cecenia). I militari russi invasero Groznyj il 30 dicembre del ’94, le ostilità si sarebbero protratte fino al ’96.

L’intervento militare in Cecenia non fu accolto con il favore dell’opinione pubblica russa e nemmeno dei militari sul campo. Molti di essi si rifiutarono di fare fuoco sui civili con i carri armati. Nonostante ciò Groznyj fu rasa al suolo dai bombardamenti aerei nel giro di un mese e le truppe cecene si rifugiarono sulle montagne[16]. Gli attacchi dei militari russi erano indiscriminati nei confronti di tutti i civili, compresi quelli russi.                                                                                                    Dal ’95 la guerra cominciò a cambiare volto. I due attentati terroristici di Budennovsk e Kizljar (in Daghestan), guidati rispettivamente da Šamil Salmanovič Basaev e Salman Betyrovich Raduyev, furono profetici su ciò che sarebbe stato il secondo conflitto. In entrambi i casi ai terroristi fu offerta una via di fuga in cambio del rilascio degli ostaggi.
Nell’aprile del ’96 fu ucciso il presidente Dudaev, a cui successero Zelimkhan Yandarbiyev e Aslan Maskhadov. Verso la fine del conflitto Eltsin provò strategicamente ad eliminare la leadership cecena, ma non ebbe successo[17]. Le minacce dei terroristi bastarono a convincere Mosca a cessare il fuoco, trovatasi di fronte ad un pericolo che non avrebbe potuto gestire. L’accordo di Khasaviurt del ‘96 pose fine alle ostilità, ma non risolse i problemi tra Russia e Cecenia.

 

Il trionfo del salafismo

Il salafismo[18] cominciò a diffondersi in Urss negli anni ‘80 con l’invasione dell’Afghanistan. Nonostante in Cecenia fosse fortemente radicato il sufismo[19], con la formazione del Partito islamico della rinascita negli anni ’90 cambia tutto.
La svolta militare del salafismo si verificò con l’arrivo nella regione di figure provenienti dall’esterno, come l’emiro saudita Ibn al-Khattab, che furono in grado di attirare finanziamenti da altri paesi del Medio Oriente. Dal ’95 si costituì un vero e proprio centro di addestramento ad Avtury, in cui si tenevano corsi di formazione teologica, militare e di diritto sciaritico[20]. Tutti i terroristi che furono addestrati qui confluirono in varie jama’at, gruppi che agivano a livello locale. Al vertice della gerarchia militare si ritrovavano i grandi comandanti (come i succitati Raduev, Basaev e Khattab) che guidavano i reparti d’assalto in prima linea.

 

Il periodo tra le due guerre

La breve esperienza indipendentista tra il ’96 e il ’99 rivelò tutte le fragilità della Cecenia e fu tutt’altro che pacifica. Il primo episodio di violenza ci fu il 14 dicembre del ’96, quando una banda armata guidata da Raduev prese in ostaggio ventidue soldati russi. Le trattative tra i terroristi e i vertici russi per il rilascio degli ostaggi ebbero esito positivo, ma la scia di violenze non si fermò.                                

Dal punto di vista economico la situazione era altrettanto difficile, soprattutto perché la Federazione russa si rifiutò di fornire alla Cecenia gli aiuti previsti dall’accordo di Khasaviurt.

Il ’97 fu l’anno dell’elezione dell’ex colonnello sovietico Aslan Maskhadov, che sin da subito si ritrovò a dover gestire il fermento interno; le richieste dei terroristi cominciarono a diventare assai pressanti e minacciose. Gli estremisti islamici chiedevano infatti molto di più della semplice indipendenza cecena: volevano unire la regione del Caucaso settentrionale sotto un’unica bandiera, quella della Nazione islamica, che avrebbe goduto dell’accesso al Mar Nero e al Mar Caspio. Il controllo del Daghestan ad est sarebbe stato strategico, poiché avrebbe garantito i due terzi delle riserve di petrolio del Caspio[21]. I tentativi di Maskhadov di arrivare ad un’integrazione economica con la Federazione russa furono sempre ostacolati dalla violenza dei suoi oppositori, che nel ’99 lo costrinsero a scogliere il parlamento e a passare alla shari’a.
La situazione cominciò a precipitare con il rapimento di un generale russo, a cui seguì un ultimatum del ministro degli interni Stepashin. La guerra era di nuovo alle porte.
 

Il secondo conflitto ceceno: la guerra antiterrorista 

Il punto di non ritorno fu un attacco terrorista in Daghestan nell’agosto del ’99, guidato ancora una volta dai noti Basaev e Khattab. Pochi giorni dopo, in Russia sarebbe cominciata la lunga carriera di Vladimir Putin, nominato primo ministro da Eltsin. Il titolo del libro di Jacques Allaman è di per sé emblematico per capire il contesto in cui si ritrovò catapultato il nuovo presidente russo: Cecenia. Ovvero, l’irresistibile ascesa di Vladimir Putin[22].

I successivi attentati di settembre a Mosca, Volgodonsk e Daghestan rafforzarono sempre di più le convinzioni di Putin. Come afferma Matthew Evangelista “Questi attacchi terroristici ebbero sull’opinione pubblica russa un effetto traumatico e galvanizzante, paragonabile a quanto accadde negli Stati Uniti in seguito all’11 settembre del 2001, e portarono ad un appoggio incondizionato e generalizzato all’espansione della guerra contro la Cecenia”[23].

Nel documento sul concetto di sicurezza nazionale della Federazione russa del 10 gennaio del 2000[24] vi sono molteplici riferimenti alla minaccia terrorista e alla necessità di far fronte comune con l’intera comunità internazionale per neutralizzarla. Lo stesso attentato dell’11 settembre del 2001 rafforzò la complicità degli Stati Uniti e della Russia nell’intento di combattere il terrorismo internazionale.

All’inizio nessuno pensava che le truppe russe avrebbero varcato il confine del fiume Terek per giungere a Groznyj, ma fu così. Un po’ come Cesare che attraversò il Rubicone durante la guerra civile, Putin adottò un approccio assai diretto per preservare l’integrità territoriale della “Terza Roma”. L’ultimatum lanciato a Maskhadov il 29 settembre del ‘99 durò poco: il giorno dopo fu invasa la Cecenia e furono distrutte dighe, pozzi petroliferi e ponti[25]. Il passo successivo fu il disconoscimento del presidente ceceno, reo di aver permesso ai terroristi di commettere numerosi crimini.

Alla fine del 2001 si contavano 4000 morti e 13.000 feriti solo tra i soldati russi[26].  Anche se l’esercito di Mosca riuscì a prendere il controllo della regione, non arrivò mai a colpire i nascondigli dei terroristi per i luoghi impervi in cui erano situati.                              

La Cecenia “fu ridotta ad un cumulo di macerie e cemento e in fosse comuni, la regione rimase un luogo altamente instabile, afflitta dai continui attacchi dei combattenti, da agguati mortali e rapimenti”[27].

L’attentato al teatro Dubrovka di Mosca del 2002 e quello di Beslan del 2004 rappresentano l’apice della violenza terrorista. In totale perdono la vita circa 430 ostaggi durante le operazioni di salvataggio dei militari russi. Questi due avvenimenti convinsero definitivamente Putin dell’impossibilità di negoziare con gli estremisti.
Maskhadov fu condannato nuovamente dal presidente russo, che lo accusò di aver favorito il terrorismo internazionale.

 

La cecenizzazione del conflitto

 

Nel 2003 vengono indette nuove elezioni in Cecenia. A trionfare sarà stavolta Achmad Kadyrov, nonostante le denunce di brogli elettorali da parte di organizzazioni per la difesa dei diritti umani[28].

Da qui in poi vi è la cosiddetta “cecenizzazione” del conflitto[29], cioè la sua gestione è affidata alle autorità locali. Solo 7 mesi dal suo insediamento, Kadyrov perde la vita in un attentato. Il giorno dopo suo figlio Ramzan viene nominato vice-primo ministro, mentre Alu Alkhanov diventa presidente.

Nella fase successiva avranno un ruolo particolarmente importante i gruppi armati al servizio di Ramzan Kadyrov, conosciuti più comunemente come kadyrovsty.
A loro spetterà il compito di mettere a tacere gli oppositori e reprimere (con qualsiasi mezzo) ogni tentativo di sovversione dell’ordine.

Il passo finale per la cecenizzazione del conflitto c’è il 13 settembre del 2004, quando Putin riafferma il principio della “verticale del potere”. D’ora in avanti i governatori regionali non sarebbero stati più eletti a suffragio universale, ma su proposta del governo russo e approvazione delle assemblee regionali[30].

Ciò fornì a Putin un potere discrezionale illimitato e la garanzia del rispetto delle direttive dettate da Mosca. Così nel 2007 il giovane Kadyrov, che si era guadagnato la fiducia del presidente russo, fu nominato primo ministro. A questo punto Mosca aveva ottenuto il pieno controllo sulla Cecenia, ma le violenze sarebbero continuate ancora per molto.


Note

[1] Buttino M., Rognoni A., Cecenia.Una guerra e una pacificazione violenta, Torino, Silvio Zamorani editore, 2008, p.16.

[2] Ibidem

[3] Ivi, p. 17

[4] Ivi, p. 18

[5] Il “Grande terrore” ovvero quel periodo di repressioni politiche del 1937-38 durante le quali in URSS vennero arrestati non meno di 1,7 milioni di persone (più di 700 mila di questi vennero giustiziati): “nemici del popolo”, “controrivoluzionari”, “traditori”, loro ed anche le loro famiglie ed amici.

[6] Ferrara A., Pianciola N., L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, Bologna, Il Mulino, 2012, p.286

[7] Rognoni A., Cecenia 1989-1992:La memoria della deportazione, p.36

[8] Ferrara A., Pianciola N., L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, Bologna, Il Mulino, 2012, p.287

[9] Rognoni A., Cecenia 1989-1992:La memoria della deportazione, p.36

[10] Ibidem

[11] Ivi, p.37

[12] Si rimanda alla definizione del vocabolario Treccani: http://www.treccani.it/enciclopedia/glasnost/

[13] Rognoni A., Cecenia 1989-1992:La memoria della deportazione, p.43

[14] Ivi, p.44

[15]  https://st.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-08-16/mosca-19-agosto-1991-fallisce-golpe-contro-gorbaciov-ma-la-russia-e-fine-comunismo–203432.shtml?uuid=ADwJDV6

[16] Evangelista M., Le guerre, p.69

[17] Ivi, p.71

[18] Si rimanda alla definizione del vocabolario Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/salafismo/

[19] Vatchagaev M., Il fattore ceceno nel Nord Caucaso, p.83

[20] Ivi, p.87

[21] Evangelista M., Le guerre, p.74

[22] Allaman J., Cecenia. Ovvero, l’irresistibile ascesa di Vladimir Putin, Roma, Fazi Editore, 2003

[23] Evangelista M., Le guerre, p.78

[24]https://www.mid.ru/en/foreign_policy/official_documents/-/asset_publisher/CptICkB6BZ29/content/id/589768

[25] Evangelista M., Le guerre, p.79

[26] Ibidem

[27] Ivi, p.80

[28] Rognoni A., Cronologia, p.223

[29] Ibidem

[30] Ibidem


Foto copertina: Photo de BelyakovPhoto sur  flickr. Chechnya, Russia, Grozny, Desolated Mira street (Peace street) after 22 weeks of heavy bombardment, February 4 2000.


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