"Sabra and Shatila Massacre” di Dia al - Azzawi.

“Se la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità, a che serve la memoria?”

Anonimo sopravvissuto all’Olocausto


Tra il 16 ed il 18 settembre 1982, si compiva uno dei peggiori eccidi della storia contemporanea: quello di Sabra e Chatila, nella periferia ovest di Beirut. Il massacro è costato la vita ad un numero di persone compreso tra 762 e 3.500, in gran parte palestinesi e sciiti libanesi. I responsabili furono le Falangi libanesi, una milizia cristiana di estrema destra vicina al Partito Kataeb guidata da Elie Hobeika[1], e l’Esercito del Libano del Sud, con la complicità delle Forze di Difesa Israeliane (IDF – Israeli Defence Forces), allora impegnate nell’operazione “Pace in Galilea” nel sud del Libano. 


Se per certi versi la storia del massacro di Sabra e Chatila resta ancora controversa, ci sono tuttavia dei fatti che sono stati accertati da numerose commissioni d’inchiesta e pronunce giurisdizionali[2]. La raccolta di testimonianze, l’apertura degli archivi militari, le dichiarazioni rese ai processi da parte dei protagonisti di tale vicenda, i corpi delle vittime ritrovati, rappresentano dei tasselli preziosi che ci permettono di ricostruire la dinamica degli eventi che tra le 18:00 del 16 settembre e le 8:00 del 18 settembre 1982 si sono svolti a Sabra e Chatila. Infine, lo scopo di tale analisi non è affatto quello di dare un giudizio morale sugli eventi avvenuti, bensì quello di cercare di dare una spiegazione della dinamica dei eventi che si sono svolti durante quei giorni da un punto di vista prettamente storico.

Il contesto

Nel 1982, in piena guerra civile (1975-1990), il Libano subì l’invasione dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) impegnate nella missione di ritiro dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina – OLP di Yasser Arafat nel paese (installata dal 1948). Il casus belli portato avanti dal governo israeliano per giustificare l’invasione fu il tentato assassinio dell’ambasciatore israeliano in Gran Bretagna, il 3 giugno 1982, da parte dall’organizzazione terroristica palestinese Abu Nidal.

Gli israeliani denunciarono questo evento ritenendo indirettamente responsabile l’OLP. In realtà, storici e scrittori quali David Hirst e Benny Morris hanno ritenuto infondato il coinvolgimento dell’OLP nell’attentato: non vi era nessun collegamento tra quest’ultima e Abu Nidal, bensì un’accesa rivalità.

È stato poi da più parti documentato che l’OLP stava rispettando l’accordo di cessate il fuoco in vigore con Tel Aviv e stabilizzando la frontiera con Israele nel sud del Libano. Inoltre, durante il periodo di cessate il fuoco (durato circa 8 mesi), l’UNIFIL – la missione di Peacekeeping delle Nazioni Unite in Libano – ha riportato che non vi fu nessun atto provocatorio da parte dell’OLP nei confronti di Israele. Nonostante ciò, quest’ultimo utilizzò la vicenda di Londra per giustificare la rottura del cessate il fuoco.

Il 6 giugno 1982, Israele invase il Libano avanzando verso Nord e circondando la capitale Beirut. Dopo l’assedio della città, il 21 agosto, fu raggiunto un accordo tra le parti in conflitto che permise l’evacuazione sicura (avvenuta poi il 1 settembre) dei combattenti palestinesi dalla capitale sotto la supervisione delle Forze Multinazionali (in primis USA, Francia ed Italia), garantendo la protezione dei rifugiati e dei civili residenti nei campi profughi.

Il 15 giugno 1982, 10 giorni dopo l’inizio dell’invasione, il governo israeliano approvò una proposta del Primo Ministro Menahem Begin, secondo la quale le IDF non sarebbero dovute entrare a Beirut Ovest, ma avrebbero potuto farlo soltanto le Forze Libanesi. Il 23 agosto, Bachir Gemayel, leader maronita delle Forze libanesi di destra, venne eletto Presidente della Repubblica. La sua elezione fu ben accolta dalla leadership israeliana per il contrappeso ed il bilanciamento che le milizie a lui fedeli rappresentavano nei confronti dell’OLP. Tale elezione portò inoltre ad un rafforzamento dei legami tra israeliani e cristiano maroniti. 

L’11 settembre 1982, le Forze Internazionali lasciarono Beirut. Il 14 settembre, Bachir Gemayel venne assassinato in un’esplosione che colpì il suo Quartier Generale. Il colpevole di tale assassinio fu Habib Tanious Shartouni, cristiano libanese, che si scoprì in seguito essere un membro del Partito Social-nazionalista siriano ed un agente dell’ intelligence siriana. I leader palestinesi e libanesi musulmani negarono ogni coinvolgimento nell’assassinio od ogni tipo di connessione con Shartouni. La sera stessa, in seguito alla notizia dell’assasinio di Gemayel, il Primo Ministro israeliano Begin, l’allora Ministro della Difesa Ariel Sharon ed il Capo dello Staff militare Rafael Eitan decisero di invadere Beirut Ovest.

L’attacco fu giustificato pubblicamente come un modo per evitare ulteriori tensioni. In una conversazione privata, Sharon ed Eitan si accordarono sulla modalità dell’operazione: sarebbero state le Falangi a fare irruzione nei campi profughi e non le Forze di Difesa Israeliane. Alle 6:00 del mattino del 15 settembre, l’esercito israeliano entrò a Beirut Ovest in violazione dell’accordo di cessate il fuoco. 

Il massacro

Nella notte tra il 14 ed il 15 settembre, Eitan volò a Beirut per istruire la leadership delle Falangi sulle modalità con le quali sarebbe avvenuto l’assedio: ordinò loro di mobilitare tutte le persone che avrebbero potuto prendere parte ai combattimenti e di imporre il coprifuoco nelle zone sotto il loro diretto controllo. Chiarì inoltre che sarebbero state le Falangi a fare irruzione nei campi profughi e non le IDF. I Leader della milizia replicarono che gli sarebbero servite 24 ore per effettuare la mobilitazione. La mattina del 15 settembre, il Ministro della Difesa israeliano Sharon tenne un incontro con Eitan nella stazione di comando delle IDF, a sud-ovest del campo di Chatila (uno dei principali campi di addestramento per i combattenti stranieri dell’OLP). Presenti all’incontro vi erano anche Yehoshua Saguy, Direttore dell’Intelligence Militare, Avi Duda’i, ufficiale del Mossad, il Generale Amir Drori, il Generale Amos Yaron, un ufficiale dell’intelligence, ed altri militari di rango.

In seguito all’assassinio di Gemayel, i Falangisti reclamarono vendetta. Il pomeriggio del 15, Sabra e Chatila furono circondate dalle IDF, che stabilirono dei checkpoint all’entrate ed alle uscite per impedire ai profughi di lasciare i campi, ed utilizzarono numerosi palazzi abbandonati come punti di vedetta. Tra questi vi era anche l’ambasciata del Kuwait che, secondo TIME Magazine, aveva una “vista non ostruita” di Sabra e Chatila. Qualche ora dopo, i carri armati israeliani iniziarono i bombardamenti nei campi. Il mattino seguente, il 16 settembre, le IDF diedero l’ordine di attaccare Beirut Ovest. Esso specificava che: “è interdetto alle IDF di entrare nei Campi profughi. Le attività di ricerca e sgombero dei medesimi saranno a carico delle Falangi/Esercito Libanese”.

Il mattino stesso parte delle milizie falangiste circondarono l’Aeroporto Internazionale di Beirut, in seguito occupato dalle IDF. Sotto la direzione di Hobeika, le Falangi iniziarono ad avanzare verso Sabra e Chatila. Ad essi si unirono anche alcuni uomini di Saad Hadda delle Forze di Liberazione del Libano. Da quel momento, le IDF iniziarono a realizzare che i falangisti rappresentavano un problema serio per la sicurezza e l’incolumità dei palestinesi, soprattutto civili. Nel giornale delle IDF, Bamahane, venne riportata una conversazione tra un falangista ed un ufficiale israeliano dove il primo affermò: “Il nostro problema è capire se iniziare dallo stupro o dall’omicidio”.

La prima unità delle Falangi composta da 150 uomini fece irruzione nei campi alle 18:00 del 16 settembre. Alle 19:30, il comando israeliano venne informato dai Leader falangisti che le IDF avrebbero dovuto astenersi dall’intervenire nelle operazioni compiute dalle milizie per garantire il loro successo. Durante l’irruzione furono attuate numerose esecuzioni sommarie: molti palestinesi vennero fatti mettere in fila per essere ammazzati. Di notte, su richiesta delle Falangi, le luci dell’esercito israeliano furono lasciate accese in tutta l’area dei campi, per permettere le esecuzioni. I Falangisti si stavano vendicando.

Ci furono numerosi tentativi da parte del comando israeliano di capire cosa stesse succedendo nei campi. In un rapporto di un ufficiale dell’intelligence delle 20:00 fu riportato che in due ore i Falangisti avevano ucciso 300 persone. Alla stessa ora, il luogotenente Elul testimoniò di avere ascoltato una conversazione radio tra un miliziano nel campo ed il comandate Hobeika, nella quale il primo gli chiese cosa avrebbe dovuto fare con 50 donne e bambini presi come prigionieri. Hobeika rispose: “Questa è l’ultima volta che mi fai una domanda del genere; sai esattamente cosa fare”.

Alle 23:00, fu inviato un rapporto al Quartier Generale delle IDF a Beirut Est, che confermava l’uccisione delle 300 persone, soprattutto civili. Il rapporto fu inoltrato al Quartier Generale di Tel Aviv ed all’ufficio del Capo dell’Intelligence militare, il Colonello Hevroni, alle 5:30 del mattino seguente. Tale rapporto passò nelle mani di più di 20 ufficiali israeliani. In una nota di un ufficiale delle IDF si diceva: “Durante la notte i Falangisti hanno fatto irruzione nei campi di Sabra e Chatila. Nonostante fosse stato stabilito di non ammazzare civili, l’accordo è stato “rotto”. (I miliziani, ndr) non hanno operato in modo ordinato ma disperso. Tra di loro ci sono stati dei feriti e due morti. Si stanno riorganizzando per operare in modo più ordinato”.

Il mattino seguente, tra le 8:00 e le 9:00, alcuni soldati delle IDF stazionati nei pressi dei campi, furono testimoni di uccisioni perpetrate nei confronti di rifugiati palestinesi. Il luogotenente Grabowski fu testimone dell’uccisione di due ragazzini palestinesi che stavano rientrando nei campi. Qualche ora dopo vide assassinare un gruppo di donne e bambini da parte di uomini delle Falangi. Quando volle fare rapporto su quanto visto, gli fu replicato dai suoi superiori di “non interferire”.

Intorno alle 8:00, il corrispondente Schiff ricevette un’informativa dallo staff di Tel Aviv che denunciava le violenze in atto nei campi. Alle 11:00 quest’ultimo ebbe un incontro con Tzipori, Ministro delle Comunicazioni, informandolo sugli eventi.       Non potendo entrare in contatto con l’intelligence militare per telefono, Tzipori incontrò Yitzhak Shamir, un ufficiale dell’Intelligence, alle 11:19, chiedendogli spiegazioni sulle violenze dei falangisti. Shamir testimoniò che la cosa principale che Tzipori gli aveva detto era che 3/4 soldati delle IDF avevano perso la vita, non facendo alcuna menzione del massacro in atto.

Alle 16:00, dall’Aeroporto di Beirut, il giornalista Ron Ben-Yishai apprese da alcuni ufficiali israeliani del massacro in atto a Sabra e Chatila. Alle 16:30 telefonò a Sharon per informarlo di ciò che stava accadendo, ma quest’ultimo gli rispose che ne era già al corrente. Tra le 18:00 e le 20:00, diplomatici israeliani a Beirut ricevettero numerose lamentele dalle controparti americane. Queste ultime inviarono dei rapporti di fuoco nei quali veniva denunciato il massacro che le milizie falangiste stavano perpetrando nei campi e che la loro presenza stava causando problemi seri. Tra le 20:00 e le 21:00, il capo del personale israeliano parlò a telefono con Sharon e lo informò che “i libanesi sono andati troppo lontano”, e che “i cristiani hanno armato la popolazione civile più di quello che era stato stabilito”.

Il 17 settembre, nel pieno del massacro, alcuni osservatori indipendenti riuscirono ad entrare. Tra questi vi era il giornalista e diplomatico norvegese Gunnar Flakstad, che osservò i Falangisti durante le operazioni di sgombero e rimozione dei corpi delle vittime dalle case distrutte nel campo di Chatila. Molti dei corpi ritrovati furono mutilati. Molti ragazzi furono castrati, molti vennero ritrovati con lo scalpo e altri ancora con la croce cristiana incisa sui loro corpi.

Janet Lee Stevens, una giornalista americana, in una lettera a suo marito, il dottor Franklin Lamb scrisse: “Ho visto donne morte nelle loro case con le gonne alzate fino alla vita e le loro gambe aperte; decine di ragazzi sparati dopo esser stati mutilati; bambini con la gola tagliata; una donna incinta con lo stomaco aperto e con gli occhi spalancati; innumerevoli bambini e neonati accoltellati e gettati nell’immondizia”.

Le responsabilità

La responsabilità principale del massacro è generalmente attribuita ad Elie Hobeika. Robert Maroun Hatem, guardia del corpo di Hobeika ha scritto nel suo libro “Da Israele a Damasco” che Hobeika ordinò il massacro di civili in totale contraddizione delle istruzioni date dal comando israeliano. Hobeika fu in seguito assassinato un’esplosione a Beirut il 24 gennaio 2002. Commentatori e giornalisti libanesi hanno attribuito la responsabilità di tale assassinio a persone vicine a Sharon.

Nel processo portato avanti dalla Corte belga sulle responsabilità di Sharon nel massacro, Hobeika avrebbe dovuto essere sentito come testimone. Prima della sua morte, aveva dichiarato: “sono molto interessato a che il processo (belga) inizi perchè la mia innocenza è una questione per me molto importante”.

Il 16 dicembre 1982, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite condannò il massacro e dichiarò che si trattava di un atto di Genocidio. Tale versione resta molto controversa. Nel 1983 fu creata una commissione presieduta da Sean MacBride, assistente del Segretario Generale delle Nazioni Unite, secondo la quale il concetto di genocidio ben si applicava al caso di Sabra e Chatila in quanto dietro al massacro c’era la volontà di “distruggere deliberatamente l’identità nazionale e culturale e i diritti del popolo palestinese”.

Il Rapporto della Commissione MacBride, “Israele in Libano”, concluse inoltre che le autorità israeliane furono responsabili dei massacri ed altre uccisioni che furono perpetrate dalle Falangi libanesi a Sabra e Chatila. Al contrario della Commissione Kahan, la Commissione MacBride non propose la distinzione dei diversi gradi di responsabilità (diretta ed indiretta).

La Commissione d’inchiesta sugli eventi dei campi profughi a Beirut, nota anche come Commissione Kahan, fu istituita dal governo israeliano il 28 settembre 1982 per indagare sui fatti del massacro di Sabra e Chatila. Nella relazione finale fu stabilita la diretta responsabilità delle Falangi Libanesi. Le IDF furono giudicate indirettamente responsabili e l’allora Ministro della Difesa Sharon fu ritenuto personalmente responsabile.

La negligenza di Sharon (ma non la sua complicità, sottolineò la Commissione) “per aver ignorato il pericolo di spargimenti di sangue e vendetta” e “per non aver preso misure appropriate per prevenire lo spargimento di sangue”, consistette nel mancato assolvimento dei doveri che la carica di ministro della Difesa comporta”. La Commissione giunse a una simile conclusione anche per il capo di Stato Maggiore della Difesa, Rafael Eitan, per “il mancato assolvimento di un dovere che gli incombeva nella sua qualità di capo di Stato Maggiore”, nonché per il direttore dell’Intelligence Militare , Yehoshua Saguy e per altri ufficiali dei servizi segreti.


[1] Figura di spicco delle Falangi, capo delle forze di intelligence libanesi e collaboratore del Mossad, fu tra gli uomini che furono espulsi dalle Forze Libanesi per insubordinazione e attività criminali. Si pensa che le uccisioni avvennero sotto il suo diretto controllo. Divenne in seguito membro del Parlamento libanese, servendo anche in ruoli ministeriali. Altri comandanti falangisti coinvolti furono Joseph Edde, Dib Anasta (capo della Polizia militare falangista), Michael Zouein e Maroun Mischalani.

[2] In particolare, le fonti a cui si è fatto riferimento sono: la Commissione MacBride, la Commissione Kahan, le sentenze che hanno riguardato i responsabili del massacro (in particolare il processo svoltosi in Belgio a carico di Ariel Sharon) e le innumerevoli testimonianze delle persone presenti sul luogo prima, durante e dopo il massacro (militari, giornalisti, diplomatici).

Copertina : Sabra and Shatila Massacre” (1982-83) di Dia al Azzawi , esposto al Tate Modern di Londra.