Il caso delle scarcerazioni dei detenuti sottoposti al 41 bis per effetto dell’epidemia da Covid 19.


 

Nel corso della storia si verificano ciclicamente determinati accadimenti, più o meno grandi, che dimostrano l’esistenza di una palpabile scissione tra il diritto e la giustizia, così come spesso viene declinata secondo le più recenti dottrine di teoria generale del diritto.
Alcuni autori, infatti, ritengono che il diritto sia sempre in un rapporto asimmetrico con la giustizia, atteso che il diritto altro non sarebbe che l’esito di rapporti di forza politico – economici in un preciso momento storico ed all’interno di una determinata società.
Per il filosofo francese Jacques Deridda, ad esempio, tali forze e tali rapporti determinano una forma di diritto che può porsi in modo così tanto asimmetrico rispetto alla giustizia, così che può accadere all’estrema conseguenza che lì dove c’è diritto non c’è giustizia. Ciò è dimostrato, secondo Deridda, dalla circostanza che il diritto si afferma attraverso la cogenza della legge: «il diritto, ineluttabilmente, si basa sulla forza e resta da verificare quale possibilità ha la forza di accedere alla giustizia».[1] Il diritto, in tutti i sistemi giuridici occidentali, si attua attraverso la forza propria della legge che disciplina, regola, e sanziona un determinato comportamento.
In questi rapporti di forza la politicizzazione della società ha un valore determinante. Ogni avanzata della politicizzazione, sostiene il filosofo francese, obbliga a riconsiderare e, dunque, a reinterpretare i fondamenti stessi del diritto così come erano stati preliminarmente calcolati o delimitati. Tutto ciò si riflette sulla giustizia.
Si pensi a ciò che ha significato la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e la conseguente abolizione della schiavitù, quale estrinsecazione della politicizzazione del diritto e gli effetti conseguenti sulla giustizia.
Nei medesimi termini vanno valutati i decreti legge “antiboss”, recentemente approvati dal Governo Italiano aventi ad oggetto la scarcerazione dei detenuti sottoposti al 41 bis ed a rischio di contagio da Covid-19. Quando si parla di 41 bis si fa riferimento al medesimo articolo della legge n. 354/1975, legge che disciplina l’ordinamento penitenziario.
Nel 1992, in seguito alle stragi di Capaci e via D’Amelio, il Legislatore ha introdotto la norma in questione che prevede e disciplina un regime di detenzione speciale, il quale riduce sensibilmente i contatti tra i detenuti ed i contatti tra il detenuto ed il mondo esterno, al fine di impedire qualsivoglia comunicazione con il gruppo criminale di appartenenza.
Secondo la ratio della norma, difatti, vi sono alcune categorie di detenuti che in virtù del loro ruolo e del loro collegamento con le associazioni criminali, sono in grado di continuare a delinquere anche dal carcere ove ristretti, impartendo ordini e direttive ai membri dell’organizzazione criminale. Più volte, a seguito della sua introduzione, tale regime speciale è stato sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale[2] e della CEDU che in definitiva hanno ritenuto legittima la misura poiché contempera da un lato i diritti fondamentali del singolo detenuto sottoposto al regime speciale e, dall’altro, le esigenza di tutela e di protezione della collettività.
Tuttavia, come accade sempre per ogni norma giuridica, la congruità e la legittimità della stessa va valutata costantemente, in relazione alla evoluzione dei fenomeni sociali ed alla particolare situazione storica.[3]

Accade, dunque, che l’epidemia da Covid 19 si diffonda con virulenza nella società italiana sia tra i liberi, sia tra i detenuti ristretti nelle carceri, al punto tale che alcuni tra questi ultimi, considerati soggetti a rischio perché già gravemente malati, avanzino istanza al giudice competente volta ad ottenere un differimento della pena.
È noto il caso balzato agli onori delle cronache riguardante un elemento di spicco del “Clan dei Casalesi”, detenuto in regime di 41 bis presso il carcere di Sassari ove era in espiazione di una condanna definitiva alla pena di anni 21 mesi 7 e giorni 1 di reclusione, espiazione decorrente dal 28.06.07 con fine pena previsto per il 19.07.25
Il detenuto in questione, durante il propagarsi dell’epidemia nel carcere ove era ristretto, avanzava richiesta al Tribunale di Sorveglianza di Sassari per il differimento della pena (istituto giuridico previsto dall’art. 147 n. 2 codice penale) per gravi motivi di salute.
Il Tribunale competente celebrava diverse udienze nel corso delle quali svolgeva un’approfondita istruttoria del caso, assumendo informazioni dal presidio ospedaliero della struttura carceraria, dalla A.U.O. di Sassari, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dalle Forze dell’Ordine.
All’esito dell’istruttoria svolta, valutate le informative ricevute, emergeva un quadro clinico chiaro in virtù del quale il detenuto, già in cura per una grave neoplasia presso la struttura ospedaliera del carcere in ciò supportata dall’A.O.U. di Sassari, non poteva essere più curato adeguatamente poiché la struttura carceraria non disponeva di tutti i mezzi per effettuare i controlli periodici necessari per la cura della malattia del detenuto, mentre l’Azienda Ospedaliera di Sassari era divenuta centro Covid-19 e non poteva più garantire, come per il passato,  i controlli periodici per il detenuto in questione.
Inoltre, dalle informative dei sanitari emergeva che il rischio di contagio da Covid-19 avrebbe potuto comportare l’insorgere di gravi complicanze alla patologia di cui il detenuto è affetto, complicanze queste che avrebbero potuto condurre anche al decesso del detenuto.
Pertanto, il Tribunale adito chiedeva al D.A.P. di individuare un diverso istituto di pena ove il detenuto potesse essere recluso e continuare le cure per la sua salute, ma senza essere esposto al rischio di morte.

Tuttavia il D.A.P. non forniva alcuna risposta al Tribunale.
Il Tribunale[4] valutava, quindi, che non vi era un’alternativa percorribile e che andava garantito il diritto alla salute del detenuto che, nel caso specifico correva un rischio concreto di morte.
Pertanto, effettuato il bilanciamento tra il diritto alla salute e la esigenza di tutela della collettività, anche in considerazione di un provvedimento della Corte d’Appello di Napoli che aveva statuito un minore rischio di pericolosità sociale del detenuto rispetto al passato, il Tribunale decideva di disporre per un periodo di cinque mesi il differimento della esecuzione della pena fino al 22.09.20, concedendo al detenuto la detenzione domiciliare presso l’abitazione del suo nucleo familiare.
La Corte Europea dei diritti dell’Uomo, in ossequio ai principi fondamentali in materia di diritti umani, ha più volte specificato che devono essere sempre rispettati gli standard di tutela della salute del detenuto[5].
Il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha fatto uso di tali principi richiamando, nella propria decisione, «il diritto alla salute» previsto dall’art. 32 e 27 Cost. ma anche il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità previsto dall’art. 3 CEDU facendo, inoltre, esplicito riferimento alle Regole minime sulla detenzione delle Nazioni Unite (c.d. Nelson Mandela Rules), la cui regola 24 stabilisce che i detenuti dovranno godere degli stessi standard di assistenza sanitaria di cui si avvale la comunità.
Tale decisione ha suscitato, sin da subito, accese polemiche e si sono messe in moto quelle forze che Deridda definirebbe economico politiche.
Difatti, i partiti politici di opposizione hanno chiesto esplicitamente le dimissioni del Ministro della Giustizia, reo di aver consentito la scarcerazione di «centinaia di detenuti pericolosissimi»; anche la magistratura requirente ha fatto sentire il suo peso, dal momento che alcuni P.M. sono intervenuti in trasmissioni televisive attaccando il Ministro della Giustizia in carica ed i colleghi del Tribunale di Sorveglianza di Sassari. Il Ministro, dal canto suo, ha individuato il capro espiatorio nella figura del dirigente del D.A.P., poi rimosso, ed ha avviato un’ispezione presso il giudice sardo che la decisione tanto discussa aveva adottato. Uno scenario da commedia Plautina!

Pertanto, in tutta fretta, il Governo ha provveduto ad emanare il decreto legge n. 28/2020 per impedire ulteriori scarcerazioni per effetto dell’epidemia. All’art. 2 del predetto decreto, è stato previsto che in ordine alla concessione della detenzione domiciliare e dei permessi, quando le richieste provengano da detenuti per reati di mafia o terrorismo il giudice competente, prima di qualsiasi pronuncia, dovrà acquisire il parere del Procuratore della Repubblica del Tribunale che ha emesso la sentenza di condanna e, nel caso di detenuti ristretti in regime di 41 bis , anche di quello del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, al fine di vagliare l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e la pericolosità del detenuto.

E’ stato previsto, inoltre, che per quanto concerne la richiesta di detenzione domiciliare il Magistrato di Sorveglianza ed il Tribunale di Sorveglianza decideranno non prima del termine rispettivamente di due giorni e quindici giorni dalla richiesta dei pareri, che si intendono non vincolanti. Successivamente, il Governo ha emanato un ulteriore decreto legge il n. 29/2020, che è intervenuto sui benefici già concessi ai detenuti, per via dell’emergenza sanitaria. Tale decreto ha previsto l’introduzione di una serie di norme, volte a verificare la permanenza dei presupposti che avevano determinato la concessione del beneficio al detenuto per motivi di salute. In particolare, è stato disposto che il giudice[6] debba acquisire il medesimo parere del Procuratore della Repubblica o del Procuratore Nazionale Antimafia se detenuto ex art. 41 bis. Viene stabilito il termine di quindici giorni entro i quali il Tribunale deve valutare la permanenza dei presupposti; successivamente i presupposti devono essere valutati mensilmente.
Tali provvedimenti, tuttavia, non paiono cogliere nel segno del problema creatosi con la diffusione dell’epidemia nelle carceri, dal momento che non contribuiscono a realizzare il giusto equilibrio tra esigenze di tutela della collettività e la salvaguardia del diritto alla salute del detenuto costituendo, invece, soltanto la risposta politica del governo pronto a mostrare il suo volto giustizialista all’opinione pubblica.
In questa vicenda, come in altre emerse durante l’epidemia in atto, il Governo si è mostrato impreparato nel gestire l’emergenza ed ha posto una toppa alla falla venutasi a creare nel sistema del carcere, che tuttavia non convince i giuristi e gli operatori del diritto.
Difatti, già in data 26 maggio 2020, il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto[7]  ha sollevato una prima censura di costituzionalità dell’art. 2 del Decreto Legge 10 maggio 2020, n. 29, ritenendo che tali norme siano in contrasto con gli art. 23 e 111 della Costituzione perché violino il diritto di difesa del detenuto ed il diritto al contraddittorio, dal momento che la procedura di rivalutazione dei presupposti come disciplinata dal decreto legge «si svolge senza adeguato coinvolgimento della difesa e senza il necessario contraddittorio delle parti in condizioni di parità».
Dunque, quanto accaduto è l’effetto più marcato della politicizzazione del diritto, secondo la teoria che propone Deridda: le norme inserite nell’ordinamento giuridico sono l’effetto di una scelta politica precisa del Governo, ovvero quella di partecipare al coro della retorica antimafia, piuttosto che fare Giustizia applicando il Diritto. Ciò che ne deriva è lo scollamento del diritto dalla giustizia: che cos’è la giustizia, se non il rispetto della dignità dell’essere umano, dei suoi diritti fondamentali, in nome dell’appartenenza di tutti gli uomini al genere umano?!
«Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti» recita la Dichiarazione ONU del 1948, ed in ciò risiede l’ideale di giustizia.
Fintantoché uno Stato ritenga di dover porre in dubbio i diritti umani di un individuo, seppur macchiatosi di gravi reati, allora il diritto di quello Stato sarà sempre in asimmetria con l’ideale di giustizia.


Note

[1] Jacques Deridda, “Forza di Legge, il Fondamento mistico dell’autorità” Bollati Boringhieri, 2003

[2] Sugli interventi della Corte costituzionale in materia si consenta rinviare a Della Bella, A.,”Il ‘carcere duro’ tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali”, Milano, 2016

[3]Manes V.-Napoleoni, V., “Incostituzionali le restrizioni ai colloqui difensivi dei detenuti in regime di carcere duro: nuovi tracciati della Corte in tema di bilanciamento dei diritti fondamentali”, in Dir. pen. cont., 3.7.2013

[4]Tribunale di Sorveglianza di Sassari, Ordinanza del 23.04.2020 Presidente dott.ssa Soro, Est. Dott. De Vito

[5]La Corte ha affermato che per periodi di tempo molto lunghi in regimi speciali caratterizzati da forme di isolamento molto intensi (simili nella sostanza al nostro 41bis) devono essere rispettati tutti gli standard de di tutela della salute del detenuto, ciò per gli effetti dannosi che ne possono derivare sulla salute fisica e psichica del detenuto in casi di detenzione “dura” (cfr. C. eur. dir. Uomo, Ocalan c. Turchia, 18.3.2014)

[6] rectius, Magistrato di Sorveglianza e Tribunale di Sorveglianza.

[7]Ordinanza n. 1380/2020 Est. Dott. Fabio Gianfilippi


Foto copertina: Foto web. 


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