
Intorno agli anni ’30 del secolo scorso, nacque e si diffuse, tra gli intellettuali africani residenti a Parigi, una corrente di pensiero umanistica che avrebbe avuto un’eccezionale influenza sullo sviluppo della letteratura africana francofona: la négritude.
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Il movimento politico-culturale della négritude risultò, essenzialmente, dal fallimento della politica assimilazionista praticata da Parigi nelle sue colonie. In linea teorica, l’assimilazione francese avrebbe dovuto portare i cittadini delle colonie francesi in Africa occidentale ed equatoriale (oltre che in Madagascar) a condividere la stessa cultura e lo stesso apparato valoriale dei cittadini francesi. Nella pratica, tuttavia, anche gli africani più assimilati ed integrati al sistema socio-culturale francese acquisirono la consapevolezza di trovarsi in una situazione in cui, pur avendo subito il distacco dalla cultura d’origine, il rapporto con i cittadini della metropoli coloniale continuava a strutturarsi su piani distinti, di subalternità: in assenza di un reale riconoscimento di uguaglianza nel contesto sociale d’adozione, gli africani delle colonie francesi continuavano a essere considerati esseri inferiori. La négritude, in tale contesto, avrebbe consentito di riscoprire e rivalutare i valori tradizionali africani, rigettando la pretesa superiorità della cultura europea.
I fondatori del movimento trassero ispirazione ed insegnamento culturale, filosofico e politico, dal concetto di uguaglianza marxista, dalla concezione non convenzionale dell’universo veicolata dal surrealismo, e dalla valorizzazione esistenzialista dell’individuo: si servirono, in qualche modo, del pensiero filosofico europeo per rivendicare le proprie radici africane.
Ancora, guardarono all’opera di William Du Bois, autore di Les Âmes Du Peuple Noir, pubblicato nel 1903: precursore della negritudine, nella sua specificità politica e culturale, Du Bois denunciava nell’opera le drammatiche condizioni di vita dei neri d’America, descrivendo la realtà dell’esperienza di vita in un sistema di segregazione razziale come quello americano di fine ‘800, e affermando la necessità, per le comunità afro-americane, di liberarsi dall’immagine stereotipata del “negro” stupido e privo di coscienza. Du Bois fu, inoltre, tra i fondatori della rivista The Crisis, che pose le basi per lo sviluppo di un’azione politica in direzione della difesa dei diritti dei neri, e soprattutto influenzò notevolmente le idee e il pensiero politico degli intellettuali africani in Europa.
Ulteriore fondamentale riferimento politico-culturale fu dato dal movimento Négro Renaissance, consolidato intorno agli anni ’20 negli Stati Uniti, nel quartiere a maggioranza nera di Harlem, sulla base delle idee espresse da Alain LeRoy Locke in The New Negro, fondata sul concetto di race-building o di costruzione sociale della razza. Movimento letterario a carattere sociale e politico, la Negro Renaissance denunciava le ingiustizie e le oppressioni cui erano costretti i neri americani, manifestava la presa di coscienza dell’identità “negra”, espressa in tutti gli aspetti del vivere, e traduceva la volontà di riabilitare un passato deformato dall’ideologia schiavista. Più che una mera reazione alle difficoltà di assimilazione, The New Negro rappresentò il simbolo della ricerca spirituale di una identità alienata dalla cultura dominante.
Le frustrazioni comuni degli africani a Parigi e nelle Antille francesi furono i principali motivi ispiratori per i teorici della negritudine. Il loro organo ufficiale fu l’unico numero della rivista Légitime Défense, pubblicata nel 1932, cui seguì, due anni dopo, la rivista L’Étudiant Noir, alla quale collaborarono Léopold Sédar Senghor, Ousmane Soucé, Aimé Cesaire e Leon Damas. Obiettivo dell’opera politico-letteraria fu, essenzialmente, il riavvicinamento dei neri alla loro storia, alle loro tradizioni, alle loro lingue, affermando la necessità di una rivoluzione culturale fondata sulle riconciliazione dei neri con sé stessi, con la propria identità africana.
Sulle pagine della rivista, per la prima volta, Aimé Cesaire utilizzò il termine négritude, per descrivere i tratti di una dottrina che rifiutava le assunzioni europee, circa le definizioni di cultura e civiltà, opponendo ad esse la tradizionale cultura africana: “La négritude è il semplice riconoscimento del fatto di essere nero, l’accettazione del nostro destino di neri, della nostra storia e della nostra cultura”.
Senghor, poeta senegalese e futuro Presidente della Repubblica del Senegal indipendente, fu tra i principali teorici della negritudine. Quella sulla négritude non nasceva come riflessione a sé stante sull’identità africana, ma piuttosto come reazione all’umiliazione e alla negazione della condizione umana dei neri: una reazione di rabbia, un “razzismo antirazzista”, come lo definì Sartre, o un “razzismo alla rovescia”, come riconobbe lo stesso Senghor.
Per Senghor la négritude era, innanzitutto, ricerca dell’originalità essenziale della sua razza, definizione di una singolarità che fosse strumento di rifiuto dell’identità occidentale, scoperta di sé e approccio particolare all’universale. La négritude rappresentava una negazione, il rifiuto dell’altro, il rifiuto di assimilarsi all’altro, affermando, piuttosto, l’identità di sé. Senghor definiva la négritude come “personalità collettiva negro-africana”, l’insieme dei valori culturali dell’Africa nera “così come si esprimono nella vita, nelle istituzioni e nelle opere dei Neri”. Essa traeva la sua specificità dai tratti distintivi dell’anima nera: primato dell’emozione e della sensibilità, dell’intuizione e del ritmo, dello spirito di gruppo e del dialogo.
Nelle prime composizioni poetiche di Senghor, raccolte nell’opera Chants d’Ombre, emergono numerose ambivalenze e contraddizioni, lucidamente percepite dallo stesso poeta, diviso tra la consapevole accettazione dei valori della négritude e l’attrazione verso la cultura francese.
Nel 1948, Senghor pubblicò Anthologie de la Nouvelle Poèsie Nègre et Malgache de Langue Française, che raccoglieva lo spirito della negritudine e ne rappresentava, in qualche modo, il manifesto politico-letterario: secondo Senghor, la négritude proponeva all’uomo una via di salvezza, poiché l’Africa aveva preservato l’essenza di un umanesimo ormai abbandonato dall’Occidente, caratterizzato da sconvolgimenti tecnologici, privo di anima, impegnato a “far piombare l’Africa nel razionalismo materialista che inonda gran parte dell’Umanità. In nome della modernità, si spinge l’Africano a far tabula rasa delle sue tradizioni, a rinunciare alla sua educazione secondo i costumi propri, alla sua visione del mondo, al suo passato, alla sua filosofia, alla sua spiritualità”. Senghor accusava il colonialismo di aver rigettato puramente e semplicemente la civiltà africana, per imporre una sua propria logica civilizzatrice, che avrebbe aperto la strada allo sfruttamento delle risorse del continente.
L’esperienza storica del razzismo coloniale spinse Senghor ad assumersi un impegno politico e sociale, ma anche poetico e filosofico: disfare ciò che la storia aveva modellato e conferire all’uomo africano una possibilità di scelta, rendendolo nuovamente libero e riscattandone la dignità violata.
Il legame tra letteratura e politica diveniva necessario e ineluttabile. In Orphée Noire, prefazione al volume di Senghor, Sartre si proponeva di mostrare che la négritude costituiva per i neri uno strumento di liberazione dall’alienazione culturale, la “culture-prison”, a cui la dominazione bianca li ha costretti. Per Sartre, la nozione di negritudine non avrebbe avuto senso, se non in opposizione alla dominazione coloniale che essa denunciava, e la sua affermazione rappresentava, in sostanza, un passaggio intermedio necessario nel processo di eliminazione delle differenze razziali. Egli ne dava un’interpretazione dialettica: una identità nera che si pone, opponendosi all’identità bianca che la nega, per poi superare la contrapposizione in una sintesi universale, autentica, pacificata.

Il periodo di riflessione che seguì la fine della Seconda Guerra Mondiale, e il dolore degli anni di prigionia, condussero Senghor a riconoscere la necessità di superare la concezione originaria di “negritudine-ghetto”, come egli stesso giunse a definirla, intrisa di razzismo e di razionalismo astratto, per dedicarsi alla costruzione di una “negritudine-umanesimo”, finalizzata alla costruzione di un umanesimo integrale ed universale.
L’obiettivo diveniva quello di riscoprire i valori che avevano plasmato la civiltà africana, e che le avrebbero permesso di partecipare all’edificazione di una civiltà universale. Sulla viva consapevolezza delle proprie radici e origini si fondava il progetto ideale di meticciato culturale: esso avrebbe dovuto radicarsi nei valori della négritude, per aprirsi, poi, agli apporti fecondanti delle altre civiltà.
Gli orientamenti politico-filosofici del movimento sono stati oggetto di critiche severe. Principalmente, i teorici della negritudine sono stati accusati di aver dato vita ad una vera e propria teoria razziale, caratterizzata da tratti culturali di derivazione biologica, quasi ipostatizzati e resi atemporali.
Le interpretazioni critiche del concetto di négritude mettevano in luce i rischi legati al ritorno di una presunta originalità delle radici africane, secondo cui la tradizione, assumendo i tratti di un nazionalismo culturale, avrebbe potuto rappresentare uno strumento di controllo sociale e politico da parte delle nuove classi dirigenti post-coloniali, distogliendo l’attenzione delle classi sfruttate dai conflitti politici e sociali che le opponevano alle élite dominanti, sotto il pretesto di una comune cultura nazionale.
Più radicale è, invece, la critica di Frantz Fanon, che denunciava il pericolo che una definizione rigida dell’identità africana potesse trasformarsi in una nuova maschera, costruita a contro-immagine e dissomiglianza da quella Occidentale. Secondo Fanon, i teorici della negritudine si sarebbero limitati a celebrare in maniera mitologica una dimensione irrazionale della cultura africana: magia, esoterismo, simbiosi uomo-terra, primitivismo eroico.
Infine, lo scrittore nigeriano Wole Soyinka vedeva nella négritude il riflesso di un’ideologia neo-coloniale, nella misura in cui conferiva alla cultura africana un carattere meramente difensivo: “una tigre non proclama mai la sua tigritudine, ma salta sulla preda”.
Bibliografia
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- Amié CESAIRE, Discours sur le colonialisme, Éditions Présence Africaine, Paris,
- Aimé CESAIRE, Nègre je suis, nègre je resterai. Entretiens avec Françoise Vergès, Éditions Albin Michel, Paris,
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- Léopold Sédar SENGHOR, Qu’est-ce que la négritude?, Études françaises, Vol. 3, N. 1, février
- Léopold Sédar SENGHOR, Négritude: a humanism of the 20th century, Optima, Vol. 16, N. 1,
- Léopold Sédar SENGHOR, Négritude et Civilisation de l’Universel, Présence Africaine, Vol. 47, N. 2, 1963.
- Léopold Sédar SENGHOR, Chants d’ombre, Éditions du Seuil, Paris,
- Joubert Hubert TARDY, Sartre et la Négritude: de l’existence à l’histoire, Rue Descartes, Vol. 83, N. 4, 2014.
Foto copertina : Death and the Conquistador 1959 Tate