É quasi un decennio che si discute delle condizioni dei detenuti all’interno degli istituti penitenziari e, nonostante l’adozione di alcune riforme, non si placa il dibattito sulle dimensioni minime dei c.d. locali di pernottamento1. In mancanza di una disposizione legislativa in tal senso, negli ultimi due anni, la Corte Cassazione ha stabilito in via pretoria le modalità di calcolo dell’ampiezza degli stessi, al fine di evitare che i detenuti subiscano trattamenti disumani e degradanti in conseguenza della loro permanenza in spazi troppo ristretti2 ed incorrere nella violazione della CEDU.


Prima di approfondire la pronuncia del giudice di legittimità – pioniera di un indirizzo poi consolidatosi nella giurisprudenza successiva3 – è utile ricordare che nel 2010 il fenomeno del sovraffollamento carcerario raggiungeva il livello più alto di emergenza ed il nostro ordinamento, già destinatario di una condanna da parte dei giudici di Strasburgo nel caso Sulejmanovic c. Italia4 qualche anno prima, si ritrovava a fare i conti ex novo con gli obblighi internazionali; in particolare con le responsabilità derivanti dalla violazione dell’art. 3 della CEDU che, oltre alla tortura, vieta i trattamenti disumani e degradanti.

Con il noto caso Torreggiani5 – che vedremo in seguito più volte richiamato dalla Suprema Corte – l’Italia veniva richiamata al rispetto dei vincoli convenzionali, tuttavia questa volta in maniera vigorosa. In breve, oltre a dichiarare disumane le condizioni in cui i detenuti versavano all’interno degli istituti di pena di Busto Arsizio e Piacenza per l’esiguo spazio – al di sotto dei 3 mq6 – in cui erano costretti a trascorrere le loro giornate nonché per la scarsa illuminazione e l’assenza di acqua calda all’interno delle docce, la Corte europea attivava nei confronti dell’Italia la c.d. procedura pilota7.

In ragione della natura strutturale del fenomeno del sovraffollamento negli istituti penitenziari e della violazione ripetuta dei diritti dei detenuti protetti dalla Convenzione, i giudici europei ritennero di concedere una ulteriore chance al nostro ordinamento, “congelando” i ricorsi c.d. fotocopia e indicando il termine di un anno per l’adozione di specifiche riforme.

Da quel momento in poi qualcosa sembra essere cambiato. Senza entrare nel dettaglio, qui è solo utile ricordare che tra il 2010 e il 2015 la popolazione carceraria è diminuita sensibilmente8 ed è stato introdotto un mezzo di tutela risarcitoria nel caso in cui il detenuto subisca la lesione di una diritto fondamentale a causa della condotta o di un provvedimento illegittimo dell’amministrazione penitenziaria9.

L’ordinamento italiano sembra aver preso sul serio il monito della Corte EDU secondo il quale la condizione di detenuto e, in generale, di un soggetto sottoposto a misure privative della libertà non giustifica la perdita del beneficio dei diritti garantiti dalla CEDU, al contrario, «la persona incarcerata può avere bisogno di una maggior tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato»10.

Eppure tutto ciò non è bastato a colmare i vuoti di tutela presenti all’interno del nostro sistema. In tale contesto il ruolo del giudice della nomofilachia è stato determinate, la Suprema Corte si è trovata infatti a dover conciliare le esigenze di tutela dei diritti dei detenuti all’interno di un sistema caratterizzato da più falle con il rispetto degli standard convenzionali in materia di diritti dell’uomo elaborati negli ultimi anni dalla Corte di Strasburgo.

I fatti.

Un detenuto della causa circondariale di Spoleto proponeva ricorso in Cassazione avvero l’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Perugia respingeva il suo reclamo ex art. 35 bis e ter ord. pen.. Nello specifico, l’internato lamentava la violazione dell’art. 3 della CEDU perché costretto ad espiare la pena detentiva in uno spazio troppo ridotto. Ad avviso del Tribunale, la denuncia di trattamento inumano e degradante non era fondata poiché il detenuto aveva avuto a disposizione, per un primo periodo, uno spazio di 4.64 mq e successivamente uno di 3.75 mq., per cui non si era mai verificata «una offerta di spazio minimo inferiore ai tre metri quadrati»11.

Tutto giusto (!) se non si approfondiscono i criteri di calcolo adoperati dal Tribunale.

Invero, da uno sguardo più attento emerge che, da un lato, il giudice della sorveglianza aveva escluso dal computo lo spazio destinato ai servizi sanitari, quello dedicato ai manufatti fissi poggiati sul pavimento e quello delle mensole poste ad un’altezza inferiore a 1.70 m.; dall’altro, invece, aveva ricompreso nella superficie utile riferita al detenuto lo spazio occupato dal letto, «ciò in rapporto alla considerazione per cui (…) le ore trascorse all’interno della stanza sono dedicate in larga misura ad attività sedentarie, la qual cosa evoca la centralità del letto quale superficie di appoggio, pertanto inidonea a limitare lo spazio vitale»12.

Tale interpretazione non è stata accolta dalla Suprema Corte che, al contrario, si è sforzata di dare effettività al “principio dei tre metri quadri” della Corte EDU nell’ottica di garantire «uno spazio minimo vitale»13 in cui il detenuto potesse muoversi liberamente.

La decisione della Suprema Corte.

É evidente che la scelta del criterio di computo dello «spazio minino vitale» gioca un ruolo determinante nella decisione circa la sussistenza o meno del trattamento disumano e degradante. L’utilizzo di una modalità di calcolo piuttosto che di un’altra, infatti, può portare a risultati completamente opposti.

In tale prospettiva, la nostra Corte di Cassazione ha cercato di individuare il parametro ottimale anche fuoriuscendo dalla trama dei principi suggeriti dalla Corte EDU con l’unico obiettivo di migliorare le condizioni detentive dei soggetti sottoposti a restrizioni della libertà personale.

In primo luogo, la Corte ha evidenziato l’esistenza di un vuoto normativo circa le dimensioni delle celle collettive; né la Carta Costituzionale che all’art. 27, II co., stabilisce che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», né la Legge sull’ordinamento penitenziario che all’art. 6, I co., prevede che «i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti devono essere di ampiezza sufficiente …», contengono alcun criterio in ordine alle dimensioni dei locali destinati al soggiorno e al pernottamento dei detenuti.

Il c.d. “principio dei tre metri quadri”, come più volte ripetuto, è stato elaborato dalla Corte EDU che, tuttavia, in un primo momento si è limitata ad affermare che lo stesso deve essere inteso come lo spazio utile al fine di garantire il movimento del soggetto recluso nello spazio detentivo14 .

Sulla scorta di ciò la Cassazione aveva in precedenza affermato che – per logica – il parametro di calcolo non può che escludere dal computo della superficie utile al movimento i c.d. arredi fissi proprio a causa dell’ingombro che ne deriva. Per usare le sue parole: “deve escludersi dal calcolo sia la parte destinata ai servizi igienici (non solo ingombrante ma destinata a funzioni diverse da quelle correlate al movimento) che quella destinata agli arredi fissi (armadietti e mensole sporgenti)” 15.

L’unica questione lasciata aperta riguardava dunque la superficie occupata dal letto. Ciò difatti rappresenta l’unico aspetto di novità nella pronuncia in commento. Un elemento di novità che, però, non presenta alcuna complessità. É più che indubbio, infatti, per la Suprema Corte che “il letto a castello vada considerato come un ingombro idoneo a restringere per la sua quota di incidenza, lo spazio minimo vitale all’interno della cella” 16. In virtù di tale assunto, la stessa ha così pronunciato il principio di diritto che orienterà il giudice del rinvio nella soluzione del caso del detenuto di Spoleto: “per spazio minimo individuale in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento, il che comporta la necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto”.

É interessante rilevare che la Cassazione prima di avviarsi al PQM ha ritenuto opportuno inserire all’interno della sua pronuncia uno stralcio (con annessa traduzione non ufficiale) della sentenza della Grande Camera Muršić c. Russia17 in cui quest’ultima sottolineava le diverse funzioni del Comitato europeo di prevenzione della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti (CTP) e concludeva affermando di adeguarsi al metodo del CTP che nel calcolo della superficie detentiva esclude la superficie dei sanitari ma include lo spazio occupato dai mobili poiché “l’importante è determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella cella”18 .

Non si comprende il motivo di tale (fedele) richiamo da parte della Corte. Il principio di diritto dalla stessa enunciato, infatti, si fonda su un parametro di calcolo parzialmente diverso da quello suggerito dai giudici EDU in quella pronuncia. Probabilmente il giudice della nomofilachia ha voluto dimostrare di essere in grado di apprestare una tutela superiore – una migliore tutela per usare il gergo convenzionale – rispetto a quella internazionale oppure il caso concreto italiano semplicemente mal si prestava all’applicazione del metodo di calcolo di Strasburgo19.


Note

1{In tal modo la Legge sull’ordinamento penitenziario all’art. 6 definisce le c.d. celle}.

2{Cfr. M. Ruotolo, Dignità e carcere, Editoriale Scientifica Italiana, Napoli, 2014}.

3{Cass., Sez. 1, sentenza 9 settembre 2016, n. 52819; Cass., Sez. IV, sentenza del 17 maggio 2017 n. 12338; Cass., sentenza 20 febbraio 2018, n. 4096}.

4{Corte europea dei diritti dell’uomo, caso Sulejmanovic c. Italia, sentenza 16 luglio 2009, ric. n. 22635/03. Nello specifico, la Corte rilevava che, per un periodo superiore a due anni, il ricorrente aveva avuto a disposizione uno spazio personale di circa 2,70 mq.: uno spazio di gran lunga inferiore alla superficie minima stimata come auspicabile dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti. Tale organo indica come livello auspicabile 7 metri mq. per singolo detenuto, con 2 metri o più tra i muri e 2,50 tra il suolo e il soffitto»}.

5{Corte europea dei diritti dell’uomo, caso Torreggiani e altri c. Italia, sentenza 8 gennaio 2013, ricc. nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10. Sul punto la letteratura è sterminata, si segnalano: F. Rimoli, Il sovraffollamento carcerario come trattamento inumano e degradante, in Giurisprudenza italiana, 2013, fasc. 2, 1187; F. Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, in www.penalecontemporaneo.it.. Si permetta, inoltre, di rinviare a M. Abagnale, Sovraffollamento carcerario e diritti dei detenuti: il caso Torreggiani, in A. Morrone, Il diritto costituzionale nella giurisprudenza, CEDAM, 2014, 154}.

6 {In successive pronunce la Corte EDU ha affermato che laddove il detenuto disponga di una superficie inferiore ai 3 mq sussiste una forte presunzione di trattamento inumano e degradante. Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 27 gennaio 2015, Neshkov e altri c. Bulgaria; Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 10 marzo 2015, Varga e altri c. Ungheria}.

7{La Corte inaugurava tale tecnica nel caso Broniowski c. Polonia (Corte europea dei diritti dell’uomo, 28 settembre 2005, ric. n. 31443/96) al fine di risolvere un problema di natura strutturale che, nell’ordinamento polacco, aveva causato violazioni ripetute del diritto di proprietà}.

8{Cfr. A. Della Bella, Il carcere oggi: tra diritti e promesse di rieducazione, in Diritto penale contemporaneo, fasc. 4/2017, 42}.

9{V. art. 35 bis Legge sull’ordinamento penitenziario introdotto dal D.L. carceri 146/2013, conv. in L. n.10/2014}.

10{Corte europea dei diritti dell’uomo, caso Torreggiani e altri c. Italia, cit., par. 61 ss}.

11{Tribunale di Sorveglianza di Perugia, ordinanza n. 890/2014}.

12{Ivi}.

13{Così la Cassazione definisce lo spazio che consente di escludere la sussistenza di un trattamento disumano e degradante, cfr. Cass., Sez. 1, sentenza 9 settembre 2016, n. 52819, par. 3}.

14{Si tratta del c.d. Ananyev test elaborato dalla Corte EDU nel caso Ananyev ed altri c. Russia, sentenza del 10 gennaio 2012}.

15{Cass., sentenza n. 5728/2014}.

16{Cfr. Cass., Sez. 1, sentenza 9 settembre 2016, n. 52819, par. 3.7}.

17{Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, caso Muršić c. Russia, sentenza del 20 ottobre 2016}.

18{Ivi, par. 114}.

19{Per diverso orientamento, cfr. A. Albano, F. Picozzi, La Cassazione alle prese con la giurisprudenza CEDU sul sovraffollamento carcerario: anamorfosi della sentenza Muršić, in Cassazione Penale, n. 07/08, 2017, 2875 }.

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