La questione del “culto della personalità” è sempre stata, in un certo senso, legata a doppio filo con il tema dell’ ”uomo forte al comando”, nella Russia e per estensione in tutto lo spazio ex sovietico echeggiando sino ai giorni nostri.
Introduzione
Il riferimento per eccellenza nei riguardi di questa pratica non può essere che Stalin ma al giorno d’oggi atteggiamenti da “culto della personalità” vengono spesso additati anche nei confronti del presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin e i riferimenti a grandi figure politiche e carismatiche del passato non mancano. Può essere, però, la volontà di legittimare il proprio potere politico utilizzando la propria immagine carismatica l’unica chiave di lettura di questa pratica?
La risposta a questa questione complessa merita un approfondimento a partire proprio dalla figura di Stalin.
Stalin e il culto “rivoluzionario”
Iosif Vissarionovič Džugašvili, conosciuto ai più come Stalin (che in russo significa d’acciaio) nacque in Georgia, paese che dagli inizi del 1800 fu parte dell’Impero zarista e a seguito della Prima Guerra mondiale e della Rivoluzione d’Ottobre divenne una repubblica sovietica. Passò la sua gioventù in veste di ribelle armato socialista nella sua terra natia iniziando già a farsi fama di uomo duro e violento. Con lo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre entrò a far parte del partito bolscevico.
Si guadagnò l’attenzione di Lenin e scalò rapidamente i ranghi del partito fino ad arrivare ai vertici dove entrò subito in contrasto con Lev Trockij sia per idee politiche sia per linee d’azione. Proprio come nella Francia rivoluzionaria, l’evento della morte di Lenin fece sì da dare il via ad una lotta per la “successione” e parallelamente il “culto” degli ideali della Rivoluzione stessa prendeva forma. Il caso Russo vede, a seguito di numerose lotte interne, emergere proprio la figura di Stalin come segretario generale del partito (alla qual cosa Lenin si oppose subito prima di morire asserendo che era un uomo pericoloso), il che in una nazione creata sulla base del partito stesso e dei suoi ideali, significava potere assoluto.
“Quando nel 1924 vi fu la dipartita di Lenin, Stalin lesse al suo funerale un giuramento di fedeltà, obliando opportunamente i violenti contrasti che lo dividevano dal padre della rivoluzione fino a pochi mesi prima. Questa mossa di Stalin fu il primo passo di un piano che sul lungo periodo lo avrebbe portato a diventare lo zar rosso”[1].
Quelli che si opposero alla “santificazione” di Lenin vennero allontanati da Stalin che non solo riuscì nel suo intento di creare una vera e propria religione marxista di cui Lenin era il profeta, ma ne prese addirittura le redini come se ne fosse divenuto il pontefice massimo.
“Va però detto anche che il culto di Stalin fu anche una risposta ai requisiti fondamentali del regime, i Russi e molte altre nazionalità dell’URSS erano abituati a identificare l’identità statale nella persona di un leader supremo e l’immagine ricalcata da zar propria di Stalin era utile ad affermare che lo stato possedeva un capo forte e determinato”[2].
Per la Russia sovietica furono, come accennato, due gli uomini a contendersi questo “titolo” di salvatori e protettori della Rivoluzione e dei suoi ideali: Trockij (1879-1940) e Stalin (1878-1953).
Entrambi riuscirono efficacemente a riorganizzare l’armata rossa per fronteggiare gli assembramenti avversari ma nonostante il primo avesse effettivamente compiuto un lavoro magistrale nell’orchestrare le truppe sovietiche, alla fine a prevalere fu il pugno di ferro di Stalin che nonostante fosse un uomo rozzo e rude era estremamente intelligente e furbo, imparava in fretta e queste sue abilità gli permisero una scalata al potere più rapida di quella del suo avversario la qual cosa infine lo porterà ad ottenere, come detto, il potere assoluto. Persino Lenin lo appellerà “il magnifico georgiano” prima di rendersi conto dell’effettivo potere che stava guadagnando ma si attivò troppo tardi per fermarlo.
Era oramai noto da sempre che Stalin avesse una tendenza all’uso della forza bruta e questo divenne sempre più evidente con la sua ascesa al potere che gli offriva la possibilità di poter prendere decisioni sempre di maggior scala come quella, una volta presa la dirigenza del partito dopo la morte di Lenin, di fare un viaggio negli Urali e in Siberia nel gennaio del 1928.
Una volta fuori dagli sguardi degli altri dirigenti centrali del partito, Stalin improvvisamente emanò nuove disposizioni per la raccolta dei cereali nella regione. Sotto certi aspetti, egli stava riprendendo i metodi del “comunismo di guerra”, allorché i contadini erano radunati nei villaggi e costretti a consegnare le loro scorte di grano alle autorità.
La politica delle requisizioni di grano fu poi replicata nel corso del 1928 in varie regioni dell’Urss. […] nel giro di due anni la nuova politica economica venne smantellata pezzo dopo pezzo.[3]
Della N.E.P. (Nuova Politica Economica) di Lenin non rimase traccia e il “comunismo di guerra” venne modificato e ristrutturato, trasformandosi nel primo “piano quinquennale” staliniano. Come detto, Stalin, in quegli stessi anni iniziò la creazione del culto di Lenin e dell’ideologia marxista-leninista anche se riadattandone alcuni aspetti per i suoi scopi.
Un primo esempio di questo lo troviamo nella volontà sempre ben fissa nella mente di Lenin di esportare la rivoluzione nel mondo che fu subito accantonata. Stalin capì sin da subito che la nascente URSS era troppo debole e ancora instabile per potersi permettere di perseguire il sogno utopistico di Lenin e infatti questo fu “messo in naftalina” in favore, anzi, di accordi internazionali, atti a favorire lo sviluppo economico-industriale sovietico con il supporto economico e finanziario delle nazioni capitaliste, le quali per Lenin corrispondevano al nemico.
Le banche e il mondo degli affari occidentali erano troppo ansiosi di firmare accordi con l’Urss dopo la grande depressione di autunno. Furono acquistati macchinari moderni, specie da Germania e Stati Uniti. Furono anche firmati accordi per cui grandi aziende straniere si impegnavano a fornire assistenza tecnica nell’ambito di nuove industrie sovietiche. […] Non occorreva neanche che Stalin si desse molto da fare per attenuare le paure occidentali riguardo le intenzioni sovietiche sul piano internazionale. Sotto la Nep egli si era fatto un nome con lo slogan “il socialismo in un solo paese”.[4]
Stalin con la sua sete di potere aspirava ad eguagliare i grandi zar del passato. “Va però detto che il parallelismo tra Stalin e lo zar Pietro il Grande fu negato dallo stesso leader in un’intervista concessa al biografo e giornalista tedesco Ludwig nel 1930 al quale affermò che: ‘i parallelismi col passato sono rischiosi’, che: ‘Pietro aveva raggiunto dei grandi traguardi anche se solo una goccia nell’oceano’ e che questo oceano di successo era Lenin stesso di cui Stalin affermò di essere pupillo”[5].
Stalin aveva fondato gran parte del suo potere sull’immagine “sacra” di Lenin e mai avrebbe potuto rinnegare il padre della Rivoluzione, né tantomeno appropriarsi dei traguardi ideologici raggiunti in vita da quest’ultimo perché avrebbe segnato la fine della sua influenza su una vasta porzione della popolazione e del partito stesso. Dunque, il “culto della personalità” di Stalin, per quanto forte e radicato sulla sua persona è sempre rimasto legato a doppio filo con il culto di Lenin e degli ideali rivoluzionari. Non a caso con la scomparsa di Stalin, il suo successore Chruščëv avviò quel processo conosciuto come “destalinizzazione” che era atto a minare l’immagine del vecchio leader ma non gli ideali della rivoluzione.
Egli avrebbe guidato l’Unione Sovietica per un decennio ma non raggiunse mai il potere assoluto di Stalin. A differenza del “grande leader”, Chruščëv era animato da uno spirito ottimistico, iniziò lentamente ad eliminare e sostituire tutta la vecchia leadership staliniana dai paesi satelliti ma il vero “colpo” lo si ebbe nel ventesimo congresso moscovita del PCUS dove Chruščëv “lesse un documento, il cosiddetto rapporto segreto, nel quale si condannavano apertamente e in maniera dura i crimini commessi da Stalin, ovviamente quelli contro i membri dello stesso partito comunista, le violazioni della ‘legalità socialista’ nonché il culto della personalità”[6].
Chruščëv era un uomo che credeva fermamente nel socialismo sovietico e questo suo attacco a Stalin e alla deturpazione ideologica da questo perpetuata (tanto rassomigliante, a parer mio, alla condanna che Lutero avviò contro la struttura corrotta della chiesa ma non verso i suoi dettami), fu l’ultimo vero tentativo di ridare luce e forza ad un’ideologia che senza il “pugno di ferro” non solo non avrebbe retto ma non avrebbe lasciato nulla se non un ricordo traumatico per coloro che la avevano subita.
“La fine della rivoluzione russa e la scomparsa dell’impero sovietico si sono lasciate dietro una tabula rasa, senza confronto con quanto era rimasto in piedi dopo la fine della rivoluzione francese e la caduta dell’impero napoleonico”[7].
Putin e il “nuovo” culto
Analizzati alcuni aspetti salienti del “culto della personalità” staliniano, che ha segnato profondamente il periodo sovietico e in un certo senso il “destino” di tutti i leader che lo hanno succeduto giungiamo infine ai giorni nostri e a questo “nuovo culto” di cui tanto si parla e su cui tanto si ironizza. Al giorno d’oggi è impossibile non notare il livello elevatissimo di consenso (nonostante ci siano state diverse proteste e manifestazioni) verso il presidente Vladimir Putin che ha costruito sulla sua immagine quello che è a tutti gli effetti un culto della personalità, anche se di tutt’altra fattura rispetto all’oscuro culto quasi sacerdotale di Stalin.
Ad oggi è impossibile non notare nella maggioranza dei Russi un attaccamento verso il proprio presidente che dal canto suo non si tira indietro dal mostrarsi spesso in pubblico, anche in modo poco ortodosso.
Insomma, Putin è pop, Putin è fede, Putin è lo zar, Putin è una messinscena. Dipende dall’osservatore. Il leader che si batte contro la crisi. L’uomo forte che restituisce alla Russia lo stato di superpotenza. Il solitario che ha sparso lacrime sincere alla morte del suo allenatore di judo. L’uomo duro, disciplinato, formato dai servizi segreti che si è opposto agli oligarchi russi e pratica le arti marziali. La vita di Putin è abbastanza oscura per prestarsi alle più svariate proiezioni.
Le tv di stato fanno volentieri da palcoscenico per il presidente. Putin ama presentarsi al telegiornale della sera, all’estremità di un tavolo, lievemente chino in avanti, con i ministri del governo schierati davanti. Volge intorno uno sguardo sofferente, come di chi è costretto a porre rimedio personalmente ai problemi, perché tutti gli altri sono incompetenti.[8]
Sin dai tempi dell’impero zarista i russi sono stati abituati ad incarnare il potere di governo nella figura del leader, dell’uomo che si eleva al di sopra della massa per guidare la popolazione. Una forma mentis radicata che, osservando e studiando a fondo il periodo rivoluzionario sovietico ha sempre mantenuto una sorta di costanza. Nei periodi in cui “l’uomo forte” veniva meno o non si dimostrava all’altezza del compito, il consenso si abbassava a scapito di qualsiasi altra cosa, anche positiva.
Questo era un chiaro segno del fatto che non solo la popolazione e la dirigenza del partito richiedevano una figura forte e autoritaria, ma anche lo stesso sistema che, come ricordato, dopo Stalin che fu il più terribile e carismatico dei leader, iniziò a cedere. Un evento simbolico di questo fu il governo Breznev e soprattutto il momento della sua fine.
Il 10 novembre 1982 (Breznev) ebbe l’ennesima ricaduta e morì. Il Politburo diede istruzioni che dovesse essere sepolto fuori delle mura del Cremlino sulla Piazza Rossa. Erano presenti uomini di Stato di tutto il mondo. La moglie e i familiari furono accompagnati al funerale dai massimi dirigenti del partito – e la figlia Galina offese gli astanti evitando di indossare un abbigliamento sobrio. Breznev era rivestito dell’uniforme di maresciallo dell’URSS con tutte le sue decorazioni.
Ma il modo noncurante con cui la bara fu calata nella tomba fu letto come il segno che non tutti i leader del Politburo volevano mostrarsi addolorati della sua dipartita dalla scena politica. In effetti era assai difficile provare profondo rimpianto per Breznev. Quando era succeduto a Chruščëv, era ancora un politico vigoroso che intendeva rendere governo e partito più efficienti. Non fu inerte, né particolarmente inflessibile. Ma la sua segreteria aveva condotto il comunismo al disprezzo più profondo e generalizzato dal 1917.[9]
Questo esempio ci mostra come nel periodo sovietico l’immagine del leader si fosse radicata e rende molto più comprensibile il fatto che questa sorta di “tradizione” sia rimasta soprattutto in Russia dopo la caduta dell’Impero. Putin ha fatto in modo di creare l’immagine di un uomo indispensabile per la Russia tutta, la qual cosa, tanto familiare per certi versi, alla stragrande maggioranza dei russi, gli garantisce la vastità dei consensi su cui può contare.
Conclusioni
L’eredità sovietica è un fardello non indifferente per la Russia odierna, come detto, ma l’ombra di questo fragile gigante nato da una rivoluzione tanto imponente da essere paragonata a quella francese del lontano 1789 si andrà, come per quest’ultima, via via diradando permettendo, a parer mio, alla Russia di trovare stabilità e poter intraprendere nuovi percorsi senza quel peso, ancora tanto gravoso, che porta sulle spalle.
Come per la “maturazione” di ciò che era stato seminato dalla Rivoluzione francese ci vorrà ancora del tempo per poter stabilire con maggiore chiarezza quali saranno i frutti di una Rivoluzione che anche se apparentemente “fallita” ha cambiato inevitabilmente molte cose, per sempre e che ha lasciato delle forme mentis e dei modus operandi a tratti anacronistici nel mondo contemporaneo come il bisogno di una figura forte al comando che ad oggi è incarnato proprio dalla figura di Putin. Impossibile dire per certo se questo “bisogno” svanirà con il passare degli anni e con il ricambio generazionale che farà del periodo sovietico un ricordo un po’ più lontano e analizzabile con maggiore oggettività ma ad oggi il potere di Putin sembra ricordare ancora un oscuro passato mascherato da nebbioso presente.
Note
[1] R. Service, Storia della Russia del XX secolo, Editori Riuniti, Roma, 1999, cit., pp. 172-175
[2] Ivi, p. 220
[3] Ivi., p. 190
[4] Ivi., p. 198
[5] K. M. F. Platt, D. Brandemberg, Epic revisionism, cit., p. 4
[6] A. Varsori, Storia internazionale dal 1919 a oggi, Il Mulino, Bologna 2015, cit., p. 190
[7] F. Furet, Il passato di un’illusione, cit., p. 4
[8] A. Bota, Die Zeit, Germania, Internazionale 1171, 16 settembre 2016, cit., pp. 39-40
[9] R. Service, Storia della Russia del XX secolo, cit., p. 448
Bibliografia
Service, Storia della Russia del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1999
Bota, Die Zeit, Germania, in Internazionale 1171, 16 settembre 2016
Furet, Il passato di un’illusione, Oscar saggi Mondadori, Milano 2001
Varsori, Storia internazionale dal 1919 a oggi, Il Mulino, Bologna 2015
M. F. Platt, D. Brandemberg, Epic revisionism, University of Wisconsin Press 2006