È repubblicano il 47° Presidente degli Stati Uniti d’America.
A cura di Valentina Franzese, Rosa Scamardella, Jacopo Belli
I risultati della lunga notte elettorale
Lunga, anzi lunghissima la notte elettorale negli Stati Uniti che ha portato alla vittoria di Donald Trump. I risultati sono arrivati alla spicciolata, confermando quanto era stato registrato nei sondaggi dei giorni passati. È stato un sostanziale testa a testa, molto serrato e conteso in alcuni stati come la Georgia o la Pennsylvania, che ha portato Trump ad ottenere 267 voti tra i Grandi Elettori e Harris 214 voti. Non c’è stato il blue wall, quella la marea Democratica auspicata e tanto desiderata dal partito di Harris, anzi. C’è stata una copiosa onda rossa, più o meno compatta e uniforme, che ha riportato Trump alla presidenza, che ha riportato sullo scranno più importante del Mondo, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un candidato che era uscito sconfitto nella precedente tornata elettorale. A partire dall’una di notte italiana, e di pari passo con la chiusura dei seggi elettorali si è delineata una cartina geografica che ha assegnato all’ex vicepresidente Harris: Vermont, Maryland, Massachusetts, Connecticut, New Jersey, Delaware, Illinois, Rhode Island, New York, Colorado, Washington DC, Oregon, New Mexico, Virginia, Hawaii, California. Tutti stati con storiche preferenze per i Dem, il cui sostegno a Harris era stato ampiamente previsto dai sondaggi pre elettorali. Sono andati, invece, a Trump: Kentucky, Indiana, West Virginia, Florida, Mississippi, Oklahoma, Alabama, Tennessee, South Carolina, Arkansas, Texas, North e South Dakota, Louisiana, Wyoming, Ohio, Missouri, Utah, Montana, Iowa, Nebraska[1], Kansas, Idaho. Anche in questo caso si stratta di stati con una lunghissima storia Repubblicana, in cui una svolta di senso opposto era scarsamente immaginabile. Sin da subito è apparso evidente il dato elettorale che dava Trump in nettissimo vantaggio negli stati del Sud, mentre in quelli del Nord tutto era parso – almeno all’inizio – molto aperto e volatile, ma comunque pendente per i repubblicani.
Il dato complessivo fotografa una netta frattura che coinvolge la società statunitense il cui elettorato continua ad essere sempre polarizzato. Molti cittadini statunitensi hanno continuato e continuano a sentirsi ai margini di una politica, quella democratica, che non li capisce e non si interessa ai loro problemi. Questa sensazione di abbandono, sommata alle preoccupazioni sull’economia – principale aspetto che gli elettori hanno tenuto in considerazione nell’urna – ha condotto moltissimi cittadini statunitensi a votare per Donald Trump. Non hanno avuto importanza o rilevanza alcuna le “battute” xenofobe, misogine e razziste che hanno sempre caratterizzato Trump durante tutte le sue campagne elettorali, e che sono state interpretate dai suoi elettori come delle mere provocazioni e nulla più. Come prevedibile, a rivelarsi determinante è stato il voto delle cosiddette “minoranze” asiatiche, afroamericane e, soprattutto latinoamericane. Quest’ultimo è stato un gruppo elettorale tradizionalmente considerato vicino al seminato Democratico, ma che negli ultimi anni si è spostato sempre più a destra, per varie ragioni, prima fra tutte la gestione economica e quella migratoria. Gli exit poll[2] pubblicati dal Washington Post dicono che Harris ha perso consensi soprattutto tra le persone latinoamericane. È il dato più netto: il 53% dice di aver votato per lei, mentre il 45% dice di aver votato per Donald Trump. Gli exit poll del 2020 davano, al contrario il voto rispettivamente a 65 e 32 per cento, rispettivamente per Biden e Trump; è un calo netto, di oltre dieci punti percentuali. Alle 05:14, ore italiane, è stato assegnato a Trump il primo dei sette stati in bilico o swing state, il North Carolina, al candidato dei Repubblicani. Da solo, lo Stato con affaccio sull’Oceano Atlantico vale ben 16 Grandi Elettori.
Alle 06.37 italiane è giunta, invece, l’attribuzione ufficiale da parte della CNN del secondo swing state, la Georgia con i suoi 16 Grandi Elettori, ai Repubblicani di Trump. Per quanto riguarda gli altri swing state sappiamo che: i fusi orari – rispetto all’Italia – di Nevada e Arizona, non ci permetteranno di avere risultati precisi e definitivi in tempi brevissimi mentre, per ciò che riguarda Wisconsin e Michigan i dati dello scrutinio parziale vedono Trump abbondantemente avanti ad Harris. A chiudere definitivamente la pratica elettorale l’assegnazione al partito Repubblicano da parte di FOX News, alle 07:23 italiane, della Pennsylvania con i suoi 19 Grandi Elettori. A certificare la vittoria, Donald Trump che giunto nel centro congressi a Palm Beach in Florida, si è rivolto ai suoi sostenitori lì riuniti. Sono le 08.25 quando l’ex tycoon accompagnato dal vicepresidente Vance, la moglie Melania Trump e i figli, si è rivolto al suo pubblico elettorale per festeggiare, con il suo solito piglio sfottente quasi di sfida, la vittoria. Il 47°Presidente ha detto che questo momento «aiuterà questo paese a guarire», promettendo agli statunitensi che «ogni singolo giorno combatterò per voi» in modo da inaugurare «l’età dell’oro dell’America»[3].
Da segnalare anche il dato del voto popolare che evidenzia tra Harris e Trump uno scarto di ben 4 milioni di voti. Si tratta di un’elezione presidenziale, questa del 2024, particolarmente partecipata tanto che, poco prima della chiusura dei primi seggi si parlava di questa tornata elettorale come dell’elezione con più affluenza nella storia recente del paese. Elemento questo che ci dice molto sulla volontà dei cittadini statunitensi di poter dire la loro, decidere e scegliere il proprio futuro politico. Anche in questo caso, nell’attesa di numeri definitivi, è possibile che Donald Trump sia stato il primo Presidente di fede repubblicana, a stravincere anche al voto popolare – e non solo con i Grandi Elettori come gli era successo nel 2015 – dai tempi di George W. Bush, nel 2004.
Oltre che per il Presidente degli Stati Uniti, gli aventi diritto si sono espressi per votare i propri rappresentanti all’interno del Congresso e del Senato. Il controllo di quest’ultimo è stato strappato definitivamente, dopo quattro anni di minoranza, ai Repubblicani. Si tratta di una vittoria enorme che conferisce al partito di Donald Trump un considerevole potere politico che gli permetterà di giocare un ruolo di assoluto primo piano nelle nomine presidenziali e nelle battaglie politiche[4].
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“The winner takes it all”: come è eletto il presidente degli Stati Uniti
Tutta la notte i candidati hanno rivaleggiato l’uno di fronte all’altro, in sovrimpressione nei principali canali d’informazione del mondo. Fra loro, una soglia corrispondente al 270: il numero- soglia dei Grandi Elettori superato il quale si viene dichiarati Presidenti degli Stati Uniti. Il gruppo dei grandi elettori, formato da un totale di 538 persone, è composto dai 100 membri del Senato e i 435 deputati della Camera. A questi si aggiungono i tre rappresentanti eletti nel District of Columbia, la zona della capitale Washington. Quello statunitense è un sistema elettorale assai peculiare, pensato dai padri costituenti per essere provvisorio, ma che dura fino ai giorni nostri. Le elezioni si tengono il martedì dopo il primo lunedì di novembre: mese poco problematico per il raccolto, con un lunedì lasciato alle spalle per consentire a tutti di recarsi ai seggi, non di domenica per non entrare in contrasto con le necessità religiose degli elettori[5]. Ad ognuno dei cinquanta stati corrisponde un numero di grandi elettori, assegnato con un metodo misto fra il proporzionale e la rappresentanza fissa. La California, ad esempio, conquistata da Kamala Harris che ne era stata governatrice, ne ha ben 54, rispetto al Nevada cui ne corrispondono solo 6. In quasi tutti gli Stati, il candidato che ha ottenuto più voti si aggiudica tutti i grandi elettori, ad eccezione di quanto avviene nel Maine e in Nebraska, per i quali vige il metodo proporzionale.
L’attenzione di tutti i media in questi giorni si è concentrata sui cosiddetti swing state, gli Stati che spesso sono passati dai democratici ai repubblicani in tempi recenti: Pennsylvania, Winsconsin, Michigan, Arizona, Nevada, Georgia, North Carolina. La Pennsylvania, in particolare, è rappresentata da 19 grandi elettori ed è per questo considerata la più importante tra gli swing state.
Una volta assegnati i voti ai grandi elettori durante l’election day, questi si riuniscono il lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre. L’insediamento ufficiale, invece, avviene il 6 gennaio, come è tristemente noto in seguito alla presa di Capitol Hill[6].
Nella giornata di ieri, si è votato poi, oltre che per eleggere il vicepresidente, anche per rinnovare l’intera camera dei rappresentanti, formata da 435 persone, e un terzo del senato (34 dei cento membri).
Gli effetti della vittoria di Donald Trump
Gli effetti della vittoria di Donald Trump si riscontreranno nella politica internazionale, seguendo le diverse prospettive delineate durante la campagna elettorale. L’approccio realista sarà sicuramente caratterizzante della politica estera statunitense nella prossima presidenza, nei vari scenari che spaziano dalla penisola di Crimea e le regioni ucraine del Donbass ai porti cinesi prospicienti Taiwan, passando per la Palestina. La strategia promossa da Trump consiste nell’incentivare la politica di deterrenza, raggiungendo la pace attraverso la forza.
Sul fronte ucraino, Trump adotta un approccio che mira a fare pressione sia sull’Ucraina sia sulla Russia, con l’obiettivo di ottenere una soluzione al conflitto. Il fine ultimo è spingere l’Ucraina alla contrattazione, riducendo l’assistenza militare, aprendo così le porte della diplomazia al Cremlino. Questo approccio comporterebbe un cambiamento nella geografia politica dell’area, con la stabilizzazione del controllo russo delle province ucraine occupate. Tale strategia presenta sfide rilevanti anche per la controparte europea, che potrebbe non condividere un approccio volto a rafforzare la presenza russa nella regione, esacerbando la latente frattura in seno alla NATO.[7]
L’Unione Europea si troverà quindi davanti alla scelta tra una maggiore autonomia differenziata o un’unità più strutturata, in grado di sostenere le conseguenze di questo nuovo approccio.
In Medio Oriente, Trump tenderebbe a garantire ad Israele ampie libertà d’azione, sostenendo le operazioni a Gaza e in Libano. Parallelamente, intensificherebbe la politica di “massima pressione” sull’Iran, mantenendo la linea dura su sanzioni e limitazioni economiche. L’intenzione appare quella di consolidare l’asse anti-iraniano, spingendo l’Arabia Saudita verso gli Accordi di Abramo e incentivando il processo di normalizzazione tra Israele e i paesi arabi. [8]
L’Asia rappresenta il teatro di maggiore tensione, con una linea dura e drastica. Trump propone una strategia di decoupling commerciale per ridurre la dipendenza degli Stati Uniti e dei suoi alleati dalle tecnologie e dai prodotti cinesi. A tal fine, potrebbe intensificare la guerra commerciale, imponendo tariffe elevate, restrizioni all’export e pressioni sui paesi terzi (in primis l’Europa) per limitare i commerci con Pechino.[9]
L’approccio di Trump si configura come realista, puntando su rapide e drastiche risoluzioni. Nonostante simili approcci non risultino spesso vantaggiosi in politica internazionale, come insegnano i casi di Napoleone e Hitler, la strategia del leader statunitense sembra orientata alla massima pressione unilaterale, piuttosto che alla gestione condivisa delle sfide globali, mettendo in discussione anche la stabilità di istituzioni internazionali come le Nazioni Unite.
Ritorna il fantasma del sovranismo
La vittoria di Trump conferma una corrente internazionale che si pone come sistemica negli attuali assetti democratici globali, prospettando un nuovo bipolarismo internazionale strutturato su nuove regole. Durante la Guerra Fredda, dal 1945 alla caduta del muro di Berlino nel 1989, il mondo era diviso in due blocchi: da una parte l’alternativa capitalista, dall’altra quella comunista, capeggiate rispettivamente dal blocco occidentale e da quello sovietico.
Oggi, il sistema internazionale è pervaso da un nuovo binomio, non più legato all’ideologia e alle visioni universali, bensì a un vecchio-nuovo approccio alla sovranità, che vede il potere concentrarsi nelle mani di leader carismatici capaci di determinare le sorti della politica al di fuori delle regole del sistema. Il nuovo bipolarismo si basa sull’alternativa tra una corrente democratica e una corrente sovranista. Questo “fantasma” globale si concretizza in figure presenti e passate come Jair Bolsonaro, Javier Milei, Giorgia Meloni e Marine Le Pen, delineando una linea comune, che troverà – o meglio dire ritroverà – Donald Trump come suo interprete più esplicito.
Note
[1] Donald Trump ha ottenuto 4 dei 5 Grandi Elettori del Nebraska, che ha un sistema di attribuzione diverso: due vanno al candidato più votato nello stato, e viene assegnato un grande elettore a chi prende più voti all’interno di ognuno dei collegi congressuali in cui è diviso lo stato.
[2] https://www.washingtonpost.com/elections/interactive/2024/exit-polls-2024-election/?itid=hp-ELX-high_p002_f004.
[3] https://edition.cnn.com/politics/live-news/2024-election-trump-harris?t=1730878617095.
[4] https://www.politico.com/.
[5] https://www.internazionale.it/notizie/2024/11/05/elezioni-usa-2024-guida.
[6] https://www.usa.gov/election.
[7] Stares, P. B. (2024, October 9). Why the U.S. Presidential Election Matters for Ukraine. Council on Foreign Relations. https://www.cfr.org/expert-brief/why-us-presidential-election-matters-ukraine.
[8] Ibidem.
[9] Tavberidze, V. (2024, July 30). INTERVIEW: Trump election win could signal “Substantial change” to U.S. foreign policy. RadioFreeEurope/RadioLiberty. https://www.rferl.org/a/trump-foreign-policy-republican-ukraine-russia/33056590.html.
Foto copertina: Vittoria alle elezioni USA per Donald Trump