Il 12 settembre 2018 il Parlamento Europeo (PE), a seguito di un rapporto che sottolineava la responsabilità del governo guidato da Viktor Orbàn in merito a limitazioni della libertà di stampa, discriminazioni razziali e criminalizzazione dell’operato delle Organizzazioni non Governative, ha avviato un procedimento contro l’Ungheria secondo la previsione dell’Articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea (TUE). Essendo passato più di un anno, è necessario interrogarsi sull’efficacia di questa procedura dedita alla tutela e protezione dei valori fondanti dell’Unione Europea (UE).


 

 

La vicenda dell’Ungheria

Fin dai primi governi Orbàn, attraverso l’emanazione di numerose riforme costituzionali e normative promosse dal leader di Fidesz, sono emersi aspetti fortemente in contrasto con quei valori fondamentali, così come enunciati dall’Art.  2 TUE[1].

Molti provvedimenti infatti sono stati oggetto di discussione. La preoccupazione principale ha riguardato soprattutto l’introduzione, all’interno della Legge fondamentale dell’Ungheria, delle cd. “Leggi cardinali”, alle quali si rivolgono soprattutto due critiche. La prima è collegata al loro oggetto: le leggi cardinali finora emanate hanno infatti fissato norme su molteplici aspetti dei diritti e libertà fondamentali, quali, a titolo di esempio, le confessioni religiose, i diritti delle minoranze etniche, la cittadinanza, lo status giuridico e la retribuzione dei membri parlamentari, la Corte costituzionale e le amministrazioni locali. La seconda invece è relativa alla difficoltà di una loro eventuale modifica, per via dell’alto quorum istituzionale: per l’emanazione e la modifica di queste leggi è necessaria infatti una maggioranza dei 2/3 dei voti parlamentari[2].         

La Commissione Europea, per contrastare tali norme, ha avviato contro l’Ungheria tre procedure di inadempimento.

La prima, correlata all’autonomia della Banca centrale ungherese, si è conclusa in fase precontenziosa, in quanto la stessa Commissione è rimasta soddisfatta delle promesse del governo ungherese. Le altre due, al contrario, si sono chiuse con due sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), la quale ha dichiarato in entrambi i casi l’Ungheria inadempiente. Nella prima sentenza, la Corte ha stabilito che l’Ungheria era venuta meno agli obblighi della direttiva 2000/78/CE, “avendo adottato un regime nazionale che impone la cessazione dell’attività professionale di giudici, procuratori e notai che abbiano compiuto 62 anni di età, il quale comporta una disparità di trattamento in ragione dell’età non proporzionata rispetto alle finalità perseguite[3]. Nella seconda sentenza, la CGUE ha evidenziato un inadempimento dell’Ungheria nei confronti della direttiva 95/46/CE sulla base di una fine anticipatoria al mandato dell’autorità di controllo per la protezione dei dati personali[4].

In aggiunta a ciò, il PE, attraverso una raccomandazione, ha espresso la propria disapprovazione verso le recenti normative ungheresi, colpevoli di aver “portato a un grave deterioramento dello Stato di diritto, della democrazia e dei diritti fondamentali”[5].

A seguito del Rapporto Sargentini[6], il 12 settembre 2018 il Parlamento, con 448 voti favorevoli, 197 contrari e 48 astensioni, ha approvato la risoluzione con la quale è stato formalmente avviato il procedimento contro l’Ungheria a norma dell’art.  7 TUE.[7]

Che cosa prevede l’art. 7 TUE

L’art. 7 TUE è stato introdotto con il trattato di Amsterdam del 1997 per accertare, constatare e sanzionare uno Stato che violi i principi enunciati nell’art. 2 TUE, prevede che:

  1. Su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione europea, il Consiglio, deliberando alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2. Prima di procedere a tale constatazione il Consiglio ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni, deliberando secondo la stessa procedura. II Consiglio verifica regolarmente se i motivi che hanno condotto a tale constatazione permangono validi.
  2. Il Consiglio europeo, deliberando all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2, dopo aver invitato tale Stato membro a presentare osservazioni.
  3. Qualora sia stata effettuata la constatazione di cui al paragrafo 2, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio. Nell’agire in tal senso, il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche. Lo Stato membro in questione continua in ogni caso ad essere vincolato dagli obblighi che gli derivano dai trattati.
  4. Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può successivamente decidere di modificare o revocare le misure adottate a norma del paragrafo 3, per rispondere ai cambiamenti nella situazione che ha portato alla loro imposizione.
  5. Le modalità di voto che, ai fini del presente articolo, si applicano al Parlamento europeo, al Consiglio europeo e al Consiglio sono stabilite nell’articolo 354 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.}.

Le recenti modifiche del Trattato di Nizza del 2001 e di Lisbona del 2007 hanno aggiunto all’enunciato di Amsterdam la fase preventiva, così come prevista dal comma 1. L’inizio della procedura evidenzia prudenza e cautela rispettando il principio del contraddittorio e garantendo il controllo democratico del PE. L’atteggiamento delle istituzioni europee è diverso in questa prima fase. Il Consiglio e la Commissione agiscono con un approccio più “politico e soft”, andando ad interfacciarsi con lo Stato in questione rispettivamente attraverso raccomandazioni e richieste di chiarimento (in pratica lo Stato viene avvertito e può decidere di comportarsi di conseguenza). La decisione del Consiglio può essere revocata perché adottata rebus sic stantibus: il Consiglio deve verificare regolarmente se i motivi della constatazione siano ancora validi, e, nel caso non sussistano più, può revocare la constatazione. Il PE, d’altro canto, manifesta una particolare severità nell’esigere il rispetto dei valori comuni, garantendo un alto standard per la loro tutela.

Alla fase preventiva può seguire quella accertativa, di competenza del Consiglio europeo il quale decide all’unanimità su proposta della Commissione o di 1/3 degli Stati membri, e sanzionatoria, la quale rappresenta una mera facoltà del Consiglio europeo. Le sanzioni, anch’esse soggette ad eventuali variazioni o modifiche per eventuali mutamenti della situazione, possono corrispondere nella sospensione di alcuni diritti dello Stato all’interno dell’UE, che può comprendere anche il diritto di voto nell’ambito dello stesso Consiglio[8].     

“Troppo poco, troppo tardi, troppo politico”[9]

L’attivazione dell’art. 7 non si è rivelato un provvedimento realmente efficace per la tutela dei diritti enunciati nell’art. 2 TUE: gli strumenti normativi offerti non sembrano infatti sufficienti, basti pensare al fatto che in Europa continuano a proliferare abitudini legislative non adeguate agli standard europei soprattutto da parte dei paesi di più recente ingresso.

Uno dei principali ostacoli ad una piena efficacia, infatti, è rappresentato da un’eccessiva lentezza e burocrazia nell’accertare ed attuare la procedura d’infrazione: i progressi dopo l’approvazione del processo a settembre 2018, sono stati infatti molto limitati. Nonostante sia essenziale il rispetto del contraddittorio ed eventuali osservazioni da parte dello Stato accusato, il processo è troppo burocratizzato e politicizzato: la fase preventiva infatti può durare molto e rimanere stagnante anche a causa di una maggioranza molto elevata richiesta al Consiglio (80%) e, soprattutto, l’unanimità del Consiglio europeo. Su questo punto, è importante ricordare le parole di Jean Paul Jacquè, il quale non esonera l’Art. 7 da forti critiche: “Son mode de fonctionnement fondé sur le consensus ne permet guère l’anticipation et ne facilite pas l’efficacité. […] L’article 7 TUE prévoit clairement les responsabilités de l’Union en ce domaine. Certes ses dispositions n’ont jamais utilisé en raison de la réticence des Etats membres, mais aussi des connivences politiques au Parlement européen.”[10]  Altro ostacolo è rappresentato dell’eccessiva vaghezza della previsione dell’art. 7: non sono ben specificate né la fattispecie, né la gravità delle sanzioni.[11]

Per avere una tutela completa dei valori e principi enunciati dall’Art. 2 TUE, ci dovrebbe essere un cambiamento radicale dei soggetti europei di controllo. È necessario un coinvolgimento più attivo non solo della CGUE, la quale può attivare direttamente le tutele previste dalla Carta dei diritti fondamentali, vera e propria base dello “Stato di diritto europeo”, ma anche della nuova Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali, la quale potrebbe fornire un meccanismo di controllo privo di influenze politiche, rapido ed efficace.

È necessario che le istituzioni europee rispondano in maniera significativa agli Stati che minano i valori fondanti dell’Europa. L’appello in questo senso va fatto alla nuova Commissione, presieduta da Ursula von der Leyen, che deve fare di più del proprio predecessore.        
I ripetuti attacchi allo stato di diritto non rappresentano un problema del solo Stato membro, ma colpiscono qualsiasi cittadino europeo all’interno di quello Stato.
Colpendo i cittadini, si colpisce il cuore dell’Unione Europea.


Note

 

[1] L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.

[2] Per il dettaglio delle fonti del diritto ungherese, cfr.  https://e-justice.europa.eu/content_member_state_law-6-hu-it.do?member=1

[3] Sentenza del 6 novembre 2012, Commissione europea/Ungheria, C‑286/12, ECLI:EU:C:2012:6807

[4] Sentenza del 8 aprile 2014, Commissione europea/Ungheria, C‑288/12, ECLI:EU:C:2014:237

[5] Risoluzione del Parlamento europeo del 17 maggio 2017 sulla situazione in Ungheria, 2017/2656(RSP)

[6]Cfr.http://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2018-0340_IT.html?redirect#title2)

[7] Cfr. M. Aranci, Il Parlamento europeo ha votato: attivato l’art. 7, par. 1, TUE nei confronti dell’Ungheria, Eurojus.it, 17 settembre 2018

[8] Cfr. B. Nascimbene, Lo Stato di diritto e la violazione grave degli obblighi posti dal Trattato UE, Eurojus.it, 24 ottobre 2017

[9] Cfr. S. Carrera/P. Bárd, The European Parliament vote on Article 7 TEU against the Hungarian Government, Centre for European Policy Studies, 14 settembre 2018

[10] J. P. Jacqué, Crise des valeurs dans l’Union européenne?, Droit de l’Union européenne, 22 giugno 2016

[11] Nel trattato non è prevista una sospensione totale, in quanto lo Stato continua ad essere vincolato dagli obblighi che gli derivano dai Trattati. Non sarebbe opportuno, di conseguenza, inserire una sanzione di stampo economico, come la sospensione dell’erogazione dei fondi UE a quello Stato che trasgredisce i valori fondanti dell’Unione Europea?


Foto Copertina: Il primo ministro ungherese Viktor Orbán  a Strasburgo.


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