Sovranismo Islamico. Erdoğan e il ritorno della Grande Turchia


Con “Sovranismo Islamico. Erdoğan e il ritorno della Grande Turchia”, edito dalla LUISS University Press, Federico Donelli[1] descrive i caratteri salienti di un sistema politico: la Turchia odierna, pericolosamente in bilico tra democrazia e autoritarismo, alle prese con difficile equilibrio tra pluralismo sociale e assolutismo politico[2].



Un ritratto di Erdoğan che ripercorre la vita del “Sultano” a partire dalle origini umili fino agli ultimi avvenimenti. La crescita politica, il “modello Istanbul” la nascita dell’AKP[3], la crescita e i primi contrasti. E poi la nascita dell’erdoğanismo e la Yeni Türkiye[4].

Un libro utile a comprendere la figura del dodicesimo Presidente della Repubblica di Turchia, un uomo capace di trasformare quasi radicalmente la politica e i costumi del suo paese, un uomo tanto amato da una gran parte della popolazione ma allo stesso tempo disprezzato e accusato di repressione dai suoi oppositori. Una figura, quella di Erdoğan, capace di monopolizzare l’attenzione internazionale sulle questioni mediorientali.

 

Quali sono le caratteristiche dell’erdoğanismo?

L’erdoğanismo presenta una duplice dimensione: ideologica e politico-istituzionale. Per ciò che concerne la prima dimensione, l’erdoğanismo appare il prodotto dello stile di leadership di Erdoğan, in quanto fondato sulle convinzioni politiche del leader di cui le masse esaltano la figura e la volontà al limite dell’idolatria. Come argomentato all’interno del volume, in tale concezione si ritrovano molti aspetti comuni con ciò che solitamente si ritiene che Erdoğan e il suo partito AKP abbiano voluto smantellare, ossia il kemalismo.  Tale impianto ideologico si unisce a una concezione selettiva della democrazia, assai diffusa nella cultura politica turca, secondo cui la maggioranza costituisce l’unico attore politico deputato non solamente a esprimere la direzione del Paese ma anche ad avere conoscenza dell’interesse e del bene della nazione.

2) È possibile tracciare un parallelismo tra Erdoğan e Mustafa Kemal?

Diciamo che tracciare un parallelismo tra le due figure è una prassi assai comune tra quanti studiano e analizzano la Turchia e in particolare la politica turca sotto la guida AKP. La tendenza è di metterli a confronto per evidenziarne le differenze e in particolare per avvalorare il paradigma interpretativo di ‘opposti inconciliabili’ e di netta cesura tra l’era politica di Erdoğan e il passato ancora saldamente imperniato di kemalismo. Il saggio, al contrario, pur non mettendo apertamente a confronto le due figure né celando gli inevitabili elementi di rottura, prova a guidare il lettore da una prospettiva alternativa. Ripercorrendo le tappe e i caratteri dell’esperienza politica di Erdoğan e della struttura di potere costruita attorno a lui, il volume lascia che emergano da soli i molti punti comuni, e i tanti aspetti di continuità legati soprattutto al sistema politico e ai metodi di governo. Da qui l’idea che la Turchia oscilli da sempre tra un sistema democratico illiberale e uno autoritario, e che le fasi caratterizzate dalla presenza di un uomo forte al potere, non solamente Kemal ed Erdoğan, abbiano favorito la tendenza verso un regime di stampo autocratico e personalistico. Da qui la definizione di un autoritarismo camaleontico, in cui le strutture, poteri formali e informali, rimangono pressoché́ inalterate mentre a mutare, per l’appunto, sono le persone che le occupano portando con loro identità̀ differenti che per semplificare noi osservatori siamo soliti etichettare come laica e islamica.

3)Secondo la politica estera dettata “Kissinger turco” Ahmet Dovutoğlu riconducibile alla formula “zero problemi con i vicini”, la Turchia sarebbe dovuta diventare paese-guida e riferimento di tutto il mondo arabo attraverso tre componenti: una maggiore profondità (strategica), un orientamento poliedrico (multidirezionalità) e l’inclusione di attori non statali nella conduzione della politica estera (total performance). Oggi dopo circa un decennio da quel paradigma, come è cambiata la politica estera di Erdoğan?

 A livello di strategia oramai, da quasi dieci anni la politica estera turca è entrata in una fase nuova, distante dal paradigma promosso da Davutoğlu. Per ironia della sorte nel momento stesso in cui le idee dell’ex ministro degli esteri raggiungevano il picco di popolarità (in termini politici, mediatici e accademici) e – dal punto di vista regionale – si creavano le condizioni per il passaggio alla fase 2 – ossia all’acquisizione di un ruolo di leadership in Medio Oriente – le stesse idee hanno iniziato a mostrare i molti limiti e le tante incongruenze. La ‘zero problemi’ è rapidamente tramontata sotto i colpi di ambizioni smisurate che hanno portato, tanto Erdogan quanto Davutoglu, ha perdere contatto con la realtà circostante e con le reali capacità della Turchia. Al netto di ciò, occorre riconoscere che l’impulso dato da Davutoğlu alla politica estera turca è stato significativo e molti degli effetti sono tuttora ben visibili (su tutti la multidirezionalità). Sviluppi politici interni hanno portato al rapido cambio di paradigma, all’accentramento del potere decisionale nelle mani del solo Presidente – più una piccolissima cerchia di consiglieri (per lo più famigliari) a lui vicini – e all’avvio di una politica estera molto più aggressiva e interventista (come dimostrano Siria, Libia ma anche Somalia e Yemen) la cosiddetta dottrina Erdogan. Si è assistito al ritorno dell’hard power con il graduale ma continuo ridimensionamento di tutti quegli strumenti di soft power su cui aveva fatto leva lo stesso Erdogan nel primo decennio di governo. 

 

4) Il 2011 rappresenta un punto di svolta per Erdoğan e la sua politica interna ed estera. Perché?

Il saggio mette in evidenza come la svolta sia stata dettata da una concomitanza di fattori di diversa provenienza. Alcuni legati al contesto regionale (le proteste e la caduta di vecchi regimi) altri a quello domestico (consolidamento del potere e ridimensionamento vecchio establishment) altri ancora sono direttamente legati alla vita privata di Erdogan, ai suoi turbamenti psicologici (gioie, estasi, paure e lutti).

5) Quali sono stati i passaggi chiave per comprendere il controverso rapporto di Erdoğan con i curdi di Turchia?

Nei primi anni 90, quando Erdoğan era un giovane politico che iniziava a mettersi in mostra tra le fila del partito islamico Refah, si dimostrò un precursore poiché fu tra i primi ad aprire ai curdi, valutando concretamente possibili soluzioni politiche a una questione che fino a quel momento era stata approcciata in termini di sicurezza. Il suo era il ragionamento di un politico pragmatico, conscio che quella significativa fetta di popolazione costituiva un bacino elettorale rilevante per il proprio partito. Egli era consapevole che l’identit conservatrice della maggior parte dei curdi turchi e la loro appartenenza agli emarginati, perseguitati e persino negati dall’establishment kemalista, ne facevano un alleato naturale. Questo rapporto durerà diversi anni e in parte dura ancora oggi visto che non sono pochi i curdi che votano AKP. La rottura vera e propria avviene nel 2015 e, ancora una volta, concorrono una molteplicità di fattori di varia origine come la crisi siriana e l’assedio di Kobane, l’affermazione sulla scena nazionale del partito HDP – a forte matrice curda -, e la slittamento di Erdogan e dell’AKP verso la destra nazionalista.

6) La notte del 15 luglio 2016 la Turchia venne scossa da un nuovo colpo di Stato, secondo Erdoğan, organizzato da Fethullah Gülen. Che cosa è successo quella notte? E chi è Gülen?

Gülen è stato per molti anni l’alleato naturale di chi come Erdogan e i governi AKP volevano il radicale ridimensionamento del vecchio establishment militare-burocratico. I due pur non piacendosi hanno saputo sfruttarsi reciprocamente forti di un interesse comune. I veri problemi sono iniziati nel momento stesso in cui l’obiettivo comune è venuto meno e lo scontro si è spostato sull’affermazione dell’uno nei confronti dell’altro. Il tentativo di golpe è stato quindi l’apice dello scontro all’interno del movimento islamista tra coloro che nei decenni precedenti avevano rappresentato le componenti islamico-conservatrici in ambiti distinti ma complementari: quello politico (AKP) e quello sociale (Hizmet).

7) Secondo il quotidiano Anadolu, Erdoğan ha ancora una volta tuonato sulla questione migratoria: “I confini resteranno aperti Finché tutte le aspettative della Turchia, compresa la libera circolazione, l’aggiornamento dell’unione doganale e l’assistenza finanziaria, non saranno concretamente soddisfatte, continueremo la pratica sui nostri confini”. A cosa punta Erdoğan?

Erdoğan tuona soprattutto perché sa che ciò che dice ha sempre un effetto sul proprio elettorato e sull’opinione pubblica. La questione dei rifugiati è molto utile alla narrativa politica del leader turco; infatti, se da una parte lo aiuta a mostrare l’ipocrisia europea e battere sulla diffusione dell’islamofobia nel mondo occidentale, dall’altra parte, gli consente di rafforzare – per contrasto – l’immagine di ‘attore umanitario’ della Turchia, con effetti positivi soprattutto verso il pubblico musulmano. Alla retorica si aggiunge ovviamente una dimensione internazionale e di interesse politico e pragmatico che lo spinge a sfruttare in maniera cinica i rifugiati come strumento di coercizione nei confronti dell’UE. La leva serve alla Turchia a rinegoziare i termini dell’accordo raggiunto nel 2016 i cui termini sono stati tutt’altro che rispettati – manca ancora una buona parte dei fondi previsti (dei 6mld promessi ad Ankara ne sono arrivati meno di 2) e non sono entrate in vigore agevolazioni per ciò che concerne i visti di ingresso per i cittadini turchi – e, in virtù degli sviluppi recenti, Ankara cerca anche un maggiore sostegno alla propria agenda in Siria. 

8) Le elezioni dello scorso 23 giugno hanno portato alla ribalta il neoeletto sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu, potrebbe essere un potenziale avversario per le presidenziali del 2023?

Che possa essere uno dei candidati direi di si, che riesca a diventare un credibile avversario lo ritengo più difficile. O meglio, credo che molto dipenderà da diversi fattori come per esempio la capacità o meno di amministrare una megalopoli come Istanbul in una condizione di debolezza, visti i vincoli (di bilancio) che il governo centrale non fa nulla per alleggerire, e senza scontentare nessuno. L’aumento del costo del trasporto pubblico seppure reso necessario da quanto detto sopra ha generato i primi segnali di malcontento. Altro aspetto da tener presenta sarà capire se İmamoğlu riuscirà a dare una sterzata al suo partito e se quest’ultimo deciderà di seguirlo oppure di lasciarlo andare (non è da escludere possa da qui al 2023 dare vita ad una propria piattaforma). Non ho la sfera di cristallo, dunque potrei tranquillamente sbagliarmi ma se dovessi puntare un euro (o per rimanere in tema una Lira turca) su un potenziale avversario di Erdogan direi Ali Babacan, politico esperto ma ancora giovane e in grado di rassicurare tanto gli investitori stranieri quanto le fasce medie conservatrici.


Note

[1] Federico Donelli è docente di History and Politics of the Middle East all’Università di Genova e di Comparative Fereign Politics alla Şehir University di Istanbul.

[2] Prefazione di Alessandro Campi.

[3] Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi – AKP) è un partito politico conservatore turco. L’AKP si è sviluppato dalla tradizione dell’Islam politico e della “democrazia conservatrice”. L’AKP è il principale partito turco, con 316 membri del Parlamento turco, e ne controlla la maggioranza sin dal 2002. Il suo ex presidente, Binali Yıldırım, è il leader del gruppo parlamentare, mentre il suo fondatore e leader Recep Tayyip Erdoğan è Presidente della Turchia.

[4] La campagna politica e programmatica, iniziata nel 2015, che dovrebbe nel 2023 sancire il passaggio definitivo dalla Turchia kemalista a quella postkemalista o erdoğanista.


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