Prosegue la nostra analisi sui processi di democratizzazione interrotta nell’ex mondo sovietico. Negli -stan dell’Asia centrale l’indipendenza non ha significato transizione alla democrazia, ma comparsa di regimi neo-sovietici.
L’Asia centrale ex sovietica, anche conosciuta come Turkestan, è una regione geopolitica molto particolare, terreno di scontro, più che di incontro, fra le grandi potenze eurasiatiche sin da tempi remoti. Si tratta anche di un monolite per quanto riguarda ciò che è avvenuto nel post-Unione Sovietica, dal momento che nessuno dei cosiddetti “paesi -stan” ha mai iniziato un vero e proprio percorso di democratizzazione, ma si è invece assistito all’emergere di regimi autoritari che hanno rigidamente perpetuato il sistema sovietico di potere e di controllo della società.

Elementi culturali e identitari, come il dominio dei khanati e la divisione clanistica della società nei secoli precedenti alla russificazione, spiegano una parte importante dell’assenza di aperture democratiche in questa regione di grande interesse globale.
Ma lo stato attuale delle cose potrebbe cambiare, perché Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan – che fino a tempi recenti hanno subito esclusivamente l’influenza russa, sono entrati loro malgrado nel cosiddetto “nuovo grande gioco”, un riaggiornamento dell’omonimo scontro geopolitico russo-britannico ottocentesco che, però, coinvolge oggi una vasta sequela di altre potenze: Unione Europea, Stati Uniti, Cina, Iran, Pakistan, Turchia, Arabia Saudita. E potrebbe essere proprio l’aumentato interesse del blocco euroamericano verso la regione a svolgere un ruolo-chiave nel plasmare le future dinamiche sociopolitiche in senso democratico.
Il caso dell’Uzbekistan
Dalla proclamazione di indipendenza, avvenuta nel 1991, il paese è stato guidato ininterrottamente da Islam Karimov fino al suo decesso, avvenuto nel 2016. Alla sua morte ha fatto seguito un lento processo de-karimovizzazione che, però, continua ad essere connotato da contraddizioni di fondo e alternanze fra uno sguardo al futuro ed il ritorno al passato.
L’uccisione dei dissidenti e degli oppositori politici, o il loro invio a tempo indefinito in colonie penali, era stata una caratteristica peculiare del regime di Karimov. Circa 18mila persone avrebbero subito tale sorte[1].
Nel 2017, il neopresidente Shavkat Mirziyoyev sembrava aver avviato una timida democratizzazione, ordinando il rilascio di diversi prigionieri politici, fra cui il giornalista Muhammad Bekjanov, in carcere da 18 anni, e l’attivista per i diritti umani Azamjon Farmonov, in carcere da 11 anni, e lanciando un piano di riforme quinquennale mirante a liberalizzare l’economia, migliorare la libertà d’informazione, ridisegnare il sistema giudiziario e il rapporto cittadini-istituzioni.
All’elaborazione dell’ambizioso progetto ha preso parte la società civile attraverso consultazioni, il primo evento del genere nella storia del paese[2].
Tuttavia, l’apertura democratica di Mirziyoyev si è mostrata parziale: giornalisti e attivisti civili continuano ad essere perseguitati, arrestati illegalmente, torturati. È vero che la censura statale ha registrato una significativa diminuzione, ed è ora possibile discutere di tematiche sociali negli spazi televisivi, ma i giornalisti devono rispettare dei limiti stabiliti dalle autorità preposte al controllo del contenuto mediatico per evitare la chiusura dei loro programmi o l’arresto.
Il caso del Turkmenistan
Dall’indipendenza ad oggi, il paese è stato guidato prima da Saparmurat Niyazov e, dopo la sua morte, da Gurbanguly Berdimuhamedov. Niyazov, che era già al potere durante l’epoca comunista, ha realizzato un sistema basato sulla repressione di opposizione e società civile, su uno stato poliziesco, sul controllo delle masse attraverso la propaganda, e sulla creazione di ricchezza attraverso lo sfruttamento dei vasti giacimenti di idrocarburi del paese.
Berdimuhamedov sta perpetuando il sistema post-sovietico ideato da Niyazov e lo ha reso ulteriormente repressivo e chiuso al mondo – ponendo limitazioni all’uscita dei cittadini verso l’estero e all’entrata dei turisti. Libertà di stampa, di manifestazione del pensiero, di riunione e di movimento, sono proibite, e Freedom House categorizza il paese come dittatura[3][4].
Vige un sistema monopartitico sin dall’indipendenza. Niyazov mise al bando le forze politiche emerse, ridenominando il Partito Comunista in Partito Democratico, che da allora è l’unico partito ammesso. L’ideologia di partito è stata cambiata per fronteggiare il mutamento di scenario: il comunismo è stato sostituito da una forma di nazionalismo sociale ed etnico, enfatizzante l’identità turkmena.
Non hanno mai avuto luogo elezioni libere. Nel 1992 Niyazov si presentò alla corsa elettorale senza rivali, perché gli altri partiti erano già stati banditi, ottenendo il 99,5% dei voti[5].
Nel 1999 Niyazov si autoproclamò presidente a vita e, infatti, ha lasciato l’incarico solo a decesso sopraggiunto, nel 2006.
Lo stesso scenario si è ripetuto, e si ripete, con Berdimuhamedov. Fu l’unico candidato in gara alle presidenziali del 2007 e a quelle successive.
Sin dalla proclamazione dell’indipendenza, il paese è andato incontro ad una profonda trasformazione culturale fortemente voluta dallo stesso Niyazov. Coerentemente con l’ideologia di partito, il paese avrebbe dovuto riabbracciare la sua identità originaria, ossia turkmena, e un’intensa campagna di derussificazione è stata messa in moto per raggiungere l’obiettivo. Ad esempio sono state chiuse le scuole di lingua russa, bloccati i media russi, ridotta la produzione letteraria russa presente nelle biblioteche nazionali[6] [7].
L’obiettivo di Niyazov era chiaramente anche geopolitico: ridurre l’influenza esercitabile sul paese dalla Russia, erede della defunta Unione Sovietica, e cercare un nuovo paese-guida. È così che Pechino ha rapidamente sostituito Mosca, divenendo l’unico mercato di destinazione del gas naturale turkmeno, e la prima fonte di prestiti e investimenti. Il Turkmenistan ha sviluppato un’economia troncata, dipendente completamente dalla Cina, perciò è considerabile a pieno titolo un suo satellite[8] [9].
Gli introiti del settore idrocarburi hanno consentito a Niyazov e Berdimuhamedov di erogare gratuitamente una serie di servizi pubblici essenziali alla popolazione, come l’acqua, il gas, l’elettricità, vendendo a prezzi politici beni di prima necessità come il pane. Stato sociale, propaganda e repressione hanno addormentato la società civile, rendendo possibile la sopravvivenza del sistema.
Un altro tratto peculiare dei due leader è il culto della personalità. La propaganda li presenta come i padri di una patria risorta, ricca e sicura, da rispettare e venerare. Entrambi hanno scritto libri, la cui lettura è stata resa obbligatoria nelle scuole, ed entrambi hanno ordinato la costruzione di statue dorate, di dimensioni gigantesche, che li raffigurano[10] [11].
Il caso del Tagikistan
Sin dalla proclamazione dell’indipendenza nel 1992, il regime comunista è stato sostituito da un regime autoritario di natura nepotista incardinato sulla figura del presidente Emomali Rahmon e della sua famiglia. La morsa repressiva nei confronti di opposizione politica e civile è andata intensificandosi negli anni, e il paese è considerabile una dittatura familiare[12].
Nel 2016 il presidente ha guidato una serie di riforme costituzionali che, fra le altre cose, gli hanno fornito la base giuridica per restare in carica a tempo indefinito, rimuovendo il limite del numero dei mandati[13].
Nello stesso periodo è stato dato inizio ad una rinnovata campagna persecutoria nei confronti della dissidenza a base di chiusure di giornali, arresti di attivisti, avvocati, difensori dei diritti umani, e messa al bando di organizzazioni sociali e religiose.
I familiari del presidente occupano posizioni di rilievo in politica, economia, finanza, controllano diverse grandi imprese statali ed enti pubblici. Il figlio del presidente, Rustam, che è stato eletto sindaco di Dushanbe nel 2017, ha intensificato la propria presenza nella scena politica nazionale, ed è ritenuto il principale candidato a succedere l’anziano padre, mentre la figlia, Ozoda, è capo di stato maggiore e ricopre alte importanti cariche nella giustizia.
È pratica comune il matrimonio combinato fra i membri della famiglia Rahmon ed esponenti di clan locali e oligarchie, uno strumento che ha permesso alla potente dinastia di consolidare la propria egemonica negli affari del paese.
La scusante della lotta al terrorismo islamista è utilizzata dal governo per mettere al bando organizzazioni religiose e arrestare predicatori ed attivisti che incitano alla dissidenza e alla disobbedienza civile. Tuttavia, il paese ha un problema di radicalizzazione, particolarmente marcata fra le nuove generazioni, e le chiusure di moschee, scuole coraniche e le leggi sul costume degli anni recenti vanno contestualizzate in questa direzione[14].
La campagna repressiva sta causando una fuga di professionisti all’estero, soprattutto giornalisti, accademici, avvocati. Nel 2014 i tagiki che avevano chiesto asilo politico in un paese dell’Unione Europea erano 605, l’anno seguente erano quasi raddoppiati a 1.160, l’anno dopo ancora erano saliti a 3.230, e nel 2017 erano 3.320. Il governo ha preso delle contromisure, sequestrando i passaporti dei familiari di chi è espatriato e di chi è considerato a rischio fuga[15] [16].
Le difficoltà economiche, esacerbate dalla corruzione e dallo sfruttamento della ricchezza nazionale per fini di arricchimento personale della famiglia Rahmon, hanno reso il paese sempre più esposto e dipendente dal traffico di droga internazionale. Il 30% dell’oppio prodotto in Afghanistan che raggiunge Europa e Russia passa proprio per il paese e genera quasi 3 miliardi di dollari l’anno[17].17
Gli oltre 125 milioni di dollari devoluti dagli Stati Uniti al Tagikistan dal 2005 ad oggi per fronteggiare il narcotraffico sono stati utilizzati dalla famiglia Rahmon per scopi privati e per raffinare l’apparato poliziesco. La violenza legata alla droga è diminuita, ma perché sono stati siglati degli accordi sotterranei di convivenza fra politici locali, autorità e signori della guerra coinvolti nella tratta dell’oppio.
Conclusioni
Le classi politiche emerse nel post-Urss hanno lavorato per allontanare i paesi dalla Russia, ma senza che questo comportasse una loro apertura in senso democratico – si è invece verificato l’effetto opposto.
Uzbekistan, Turkmenistan e Tagikistan sono retti da regimi dittatoriali, basati su logiche clanistiche e familiari, in cui le libertà fondamentali sono largamente represse e degli estesi sistemi polizieschi vigilano sul mantenimento in essere dello status quo.
Le economie dei tre paesi sono oggi più che mai dipendenti dal commercio con la Cina, soprattutto nel settore energetico. Si può sostenere che la Cina abbia sostituito l’Unione Sovietica nel determinare le dinamiche di sviluppo politiche nella regione, perciò è prospettatile la continuazione dei regimi dittatoriali anche nel prossimo futuro.
Note
[1] As Authoritarianism Spreads, Uzbekistan Goes the Other Way, The New York Times, 01/04/2018
[2] Scheda dell’Uzbekistan su Freedom House: https://freedomhouse.org/report/nations-transit/2018/uzbekistan
[3] Stronski, P., Turkmenistan at Twenty-Five: The High Price of Authoritarianism, The Carnegie Institute, 30/01/2017 Rapporto OSCE visibile qui: https://www.osce.org/odihr/elections/turkmenistan/23722?download=true
[4] Scheda del Turkmenistan su Freedom House: https://freedomhouse.org/report/freedom-world/2018/turkmenistan
[5]Rapporto OSCE visibile qui: https://www.osce.org/odihr/elections/turkmenistan/23722?download=true
[6] Turkmenistan: Blow for Russian-Speakers, Institute for War & Peace Reporting.,
[7] Turkmen President Niyazov Dies at 66, Associated Press, 21/12/2006
[8] Туркменистан поставляет в Китай самый дешевый газ, Hronika Turkmenistana, 29/10/2016
[9] China Figures Reveal Cheapness of Turkmenistan Gas, Eurasianet, 31/10/2016
[10] Книга Бердымухамедова заменит Рухнаму, Hronika Turkmenistana, 13/12/2016
[11] A horse, a horse … Turkmenistan president honours himself with statue, The Guardian, 25/05/2015
[12] Scheda del Tagikistan su Freedom House: https://freedomhouse.org/report/nations-transit/2018/tajikistan
[13] Samuels, G., The country that just voted to allow its president to rule forever, The Independent, 25/05/2016
[14] The Rising Risks of Misrule in Tajikistan, The Crisis Group, 09/10/2017
[15] Vedi nota 12
[16] Vedi nota 14
[17] Rahmani, B., How the War on Drugs Is Making Tajikistan More Authoritarian, The Diplomat, 09/07/2018
Foto copertina: The 15th annual European Union – Central Asia ministerial conference.
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