La dialettica centro-periferia del Partito, lo “Stato di sorveglianza” con fini di contact tracing e l’esperienza della Sars nei primi anni 2000: tre fattori endogeni che hanno legittimato la forza politica del Partito Comunista Cinese nella gestione dell’epidemia di Covid-19.


 

Il mondo continua a lottare contro la diffusione del contagio del Covid-19. Ad oggi, vi sono 60.101.887 casi globali di infezione da sars-cov-2, 1.416.112 morti totali[1] e l’impatto della crisi, sotto tutti i fronti, è paragonabile alla Grande Depressione del 1930. Mentre la comunità internazionale è alle prese con una seconda ondata dell’epidemia, pare che la Repubblica Popolare Cinese ne sia completamente risparmiata: il 25 novembre si registra nel paese un totale di 92 381 casi, con un incremento giornaliero minimo[2]. Tuttavia, è bene sottolineare che Pechino non inserisce nel conteggio i positivi asintomatici, non conformandosi di conseguenza alle regole della comunità internazionale in materia di case tracking and tracing.

La resilienza della leadership del Partito Comunista Cinese e la stabilità del “patto sociale” tra Partito e cittadini sono state dimostrate anche attraverso l’efficacia (anche se tardiva) del modello di gestione dell’epidemia, che ha contemplato vari elementi: una consolidata dialettica centro-periferia, l’istituzione di uno “stato di sorveglianza”[3] e l’esperienza della Sars nel 2002.

Inizialmente, la capacità del governo centrale cinese di gestire i primi segnali legati al diffondersi di una polmonite atipica a Wuhan è stata inefficiente. Il timore di una perdita di credibilità ha portato Xi Jinping ad optare per una politica poco trasparente, agevolata dalla mancanza di libertà e di chiarezza nel flusso di dati sulla situazione sanitaria. La mancanza di libertà non ha condizionato solo la popolazione cinese, la quale non è stata debitamente informata sulla gravità della situazione sanitaria, ma anche la comunità scientifica stessa, in quanto non poteva far trapelare l’allarme senza il consenso del partito. Il governo ha dunque tergiversato nell’inviare all’OMS e alla comunità internazionale resoconti e reports sui casi sospetti di polmonite atipica registrati a Wuhan e sulle modalità di trasmissione del virus, minimizzando l’allarme da parte della comunità internazionale.

Nel momento in cui la consapevolezza dei rischi legati ad una pandemia globale è diventata concreta e in seguito ai successivi tentativi da parte dell’OMS di prevenire una crisi sanitaria globale, Xi Jinping ha ripetutamente criticato l’adozione di “misure straordinarie” come la dichiarazione di emergenza sanitaria globale e di travel bans nei confronti dei cittadini cinesi da parte dell’agenzia ONU.

Il cambio di prospettiva all’interno della leadership è avvenuto in seguito all’imposizione della quarantena a Wuhan il 23 gennaio 2020. Il nuovo piano d’emergenza firmato dal presidente Xi Jinping prevedeva l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale obbligatori per tutti e di un rigido sistema di mappatura nazionale, eseguito tramite software di intelligenza artificiale applicati alle telecamere sparse in tutta la Nazione[4], al fine di isolare i contagiati e i loro contatti.

Infine, le rigidissime regole di isolamento domiciliare per 60 milioni di residenti della provincia dello Hubei e del resto della Cina, e le misure di lockdown hanno permesso di spezzare la catena di contagio, portando la popolazione cinese a vivere oggi una vita quasi normale.

Dialettica centro – periferia

La leadership del PCC, che il prossimo 23 luglio 2021 festeggerà il suo centenario dalla fondazione, non solo è resiliente ma è molto sostenuta dal popolo cinese. Secondo T. Saich, professore di Affari Internazionali alla Harvard Kennedy School, la legittimità fornita dal popolo cinese al PCC è basata sulla performance economica e sul soddisfacimento dei bisogni di stabilità, benessere sociale e progresso economico. Se queste premesse venissero meno, anche la legittimità vacillerebbe.[5]

Il coronavirus ha rappresentato un grande banco di prova, ma la gestione della pandemia da parte del partito non ha intaccato il livello di soddisfazione generale della popolazione nei confronti dei quadri nazionali, mentre i quadri locali sono stati più screditati. Ciò confermerebbe i risultati di ricerca di T. Saich secondo cui la popolazione cinese mostrerebbe grande soddisfazione nei confronti dei servizi gestiti dal sistema centrale, quali ordine sociale, infrastrutture e servizi idrici, mentre sarebbe meno soddisfatta dei servizi offerti su base individuale, dunque gestiti a livello locale-periferico, quali l’occupazione e i servizi medici. In merito alla gestione della pandemia da parte del governo cinese, la popolazione cinese ha espresso indignazione per la cattiva risposta del governo locale, mentre ha generalmente supportato il governo centrale nelle decisioni del lockdown di Wuhan e dello shutdown del resto del paese.[6]

Questa disaggregazione dello Stato viene sfruttata dai quadri nazionali del partito per imporre la propria leadership e ridurre gli spazi di negoziazione all’interno del partito. Nello specifico, i quadri locali, cioè coloro che sono a diretto contatto con il territorio che rappresentano, si assumono i maggiori rischi relativi alla perdita del consenso popolare, a beneficio dei quadri nazionali, i quali si legittimano agli occhi del popolo anche grazie ad una diplomazia estera sempre più aggressiva.

Proprio lo scoppio della pandemia di Covid-19 ha portato alla nascita di “una nuova generazione di diplomatici wolf warriors”, diplomatici cinesi con un forte spirito combattente, come richiesto dal Ministro degli Affari Esteri della RPC, Wang Yi, in una riunione del corpo diplomatico cinese a Pechino. Questi diplomatici avevano il preciso scopo di screditare la gestione estera della pandemia globale e difendere i propri interessi nazionali. L’obiettivo di questa strategia diplomatica aggressiva è in prima istanza imporre la propria narrazione politica prettamente cinese, ma soprattutto quella di risvegliare i conati di nazionalismo del popolo cinese.

Stato di sorveglianza

Secondo elemento che ha fortemente contribuito al controllo dell’epidemia di Covid-19 in Cina è stato il controllo pervasivo della popolazione attraverso dispositivi di riconoscimento facciale, Wi-Fi sniffers e avanzati software di monitoraggio di massa.

La capacità di sorveglianza di massa da parte dei quadri del PCC si è consolidata prima dell’avvento della pandemia, a partire dal 2015, con l’impostazione di vari sistemi di sorveglianza a livello locale. Gli obiettivi ufficiali dietro questa macchina sorvegliante sono vari e potenzialmente lesivi dei diritti umani della popolazione cinese: ridurre gli episodi di crimine e violenza a livello locale, predire comportamenti futuri, sorvegliare minoranze etniche oppure determinare “key persons o key populations”[7], potenziali oppositori del partito e del governo centrale a cui destinare una sorveglianza più attiva.

Promuovendo la lotta alla diffusione del Covid-19 come giustificazione politica,

“i governi locali stanno imponendo checkpoints digitali e location tracking per determinare dove i residenti possono andare. Il sistema non solo raccoglie passivamente le informazioni. Richiede alle persone di partecipare attivamente, scannerizzando codici QR con i loro smartphones per una corsa in taxi oppure per andare al ristorante, in banca, o altri luoghi pubblici. Molti hanno dichiarato che gli ufficiali hanno installato telecamere fuori dai loro appartamenti, o persino dentro le loro case.”[8]

La mappatura della popolazione ha portato a gestire efficientemente potenziali nuovi focolai, attraverso l’isolamento dei nuovi positivi e la tempestiva individuazione dei contatti diretti dei contagiati. Così i focolai che emergono sono costantemente sorvegliati e gestiti, come è avvenuto a Kashgar, nello Xinjiang, dove sono stati effettuati in quattro giorni 4,7 milioni di tamponi sulla popolazione residente. Con 22 casi positivi e 161 asintomatici, il 28 ottobre è stato imposto il lockdown locale.

L’esperienza della Sars nel 2002

Anche la gestione della epidemia Sars negli anni 2002 e 2003 ha contribuito a stabilire il piano di risposta del governo cinese all’epidemia di Covid-19. Pechino, al tempo, fu duramente colpita dall’epidemia: il numero considerevole di morti e la mancanza di dispositivi medici di prevenzione del contagio portarono a un panico generale e ad una perdita di credibilità nei confronti dei quadri locali e nazionali del partito. Inoltre, la mancata tempestività nella comunicazione dei rischi legati alla malattia alla comunità internazionale ha portato al serio rischio di una crisi sanitaria globale.

In seguito, il governo ha adottato il pugno di ferro e ha imposto provvedimenti rigidi, la cui messa in atto è stata agevolata dalla struttura a scacchiera dei quartieri residenziali. La risposta ad Hong Kong è stata più efficace che nella Cina continentale, grazie alla diffusione di informazioni sul virus e di buone pratiche igieniche per contrastarlo, all’uso delle mascherine e alla sospensione di varie attività.

L’esperienza del 2002 nella gestione della Sars ha permesso di evitare gli errori passati: nella situazione attuale, i governatori locali sono stati pubblicamente incentivati a collaborare e fornire i dati richiesti sui contagi locali, si è favorita la digitalizzazione del sistema di trasmissione dei dati dal network locale a quello nazionale e successivamente a quello internazionale.

Tuttavia, nonostante ripetuti appelli da parte dell’OMS e delle Nazioni Unite, la Cina non ha accolto l’appello dell’Oms a chiudere i wet markets, ritenuti i principali responsabili della diffusione del virus, data la precarietà delle condizioni igieniche a cui questi ambienti e i loro frequentatori sono sottoposti.

La Cina oggi

I nuovi focolai del Covid-19 in Cina sono costantemente monitorati, i quadri nazionali hanno rafforzato il consenso popolare grazie ad un processo di deresponsabilizzazione delle decisioni a diretto impatto con la popolazione e ad una diplomazia meno assertiva e più aggressiva, atta a legittimare la narrazione cinese a livello domestico.

In compenso, i wolf warriors hanno indebolito la posizione della Cina a livello internazionale, smascherandone i reali intenti e promuovendo critiche del modello cinese. I meccanismi di controllo attivo sulla popolazione sono aumentati e la verticalizzazione del sistema di potere cinese continuerà a mietere sempre più vittime: i quadri locali, principali capri espiatori del social blaming legato alla risposta al Covid-19, le key persons a cui sono destinati i controlli della macchina sorvegliante, e la popolazione stessa, che viene costantemente monitorata per obiettivi che possono esulare dalla lotta al contagio.


Note

[1] John Hopkins University & Medicine, Coronavirus Resource Center, consultabile al sito: https://coronavirus.jhu.edu/map.html, ultimo accesso il 25.11.2020.

[2] John Hopkins University & Medicine, Coronavirus Resource Center, ibidem.

[3] China File, 30 ottobre 2020: State of Surveillance: Government Documents Reveal New Evidence on China’s Efforts to Monitor Its People, consultabile al sito: https://www.chinafile.com/state-surveillance-china, ultimo accesso il 31.10.2020.

[4] Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2020: Come affrontare l’emergenza virus: le differenze tra Italia e Cina, ultimo accesso il 25.10.2020.

[5] Tony Saich, 2020, Testimony before the U.S.-China Economic and Security Review Commission.

[6] Tony Saich, ibidem.

[7] China File, ibidem.

[8] China File, ibidem.


Foto copertina: A woman wearing a protective mask is seen past a portrait of Chinese President Xi Jinping on a street as the country is hit by an outbreak of the coronavirus, in Shanghai, China March 12, 2020. REUTERS/Aly Song – RC2AIF94P3KL

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Anastasia Roibu
Sono una studentessa di “Relazioni e Istituzioni dell’Asia e dell’Africa” presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. I miei interessi vertono principalmente sulle relazioni internazionali e sulle dinamiche economiche e socioculturali della Cina. La politica mi appassiona molto, anche se ho ancora un occhio troppo accademico e poco empirico. Nel mio precedente periodo di studio a Bologna, quando frequentavo il corso di “Lingue e Letterature Straniere” all’Università Alma Mater Studiorum, ho avuto modo di approcciarmi al mondo del volontariato grazie all’Associazione La Nostra Africa Onlus. Inoltre, grazie all’Associazione “Universo Interculturale” ho potuto svolgere un percorso di educazione informale con giovani rifugiati provenienti da varie aree di conflitto. Questo youth exchange mi ha permesso, attraverso la condivisione delle storie di vita, di analizzare il ruolo delle Istituzioni europee nella risoluzione dei conflitti e le problematiche relative all'attuazione del diritto all'asilo nei paesi dell'Unione Europea, oltre che di conoscere delle persone meravigliose. La mia tesi di laurea triennale, intitolata “La strumentalizzazione del discorso giornalistico durante la dittatura militare argentina (1976-1983). Il caso Clarín: Analisi Critica di quattro testate” mi ha permesso di studiare le alterazioni e gli occultamenti del discorso giornalistico al fine di eliminare il dissenso e ogni narrazione dei fatti considerata scomoda dall’ordine costituito. Seguo molto la mia curiosità, ciò che mi incuriosisce spesso e volentieri diventa una passione. La mia ultima passione è la fotografia, in particolare le fotografie vitali che sanno cogliere i cenni più autentici delle persone.