Perché la ‘questione uigura’ è un nodo cruciale per la geopolitica di Pechino

Il nome stesso della regione più occidentale della Cina, è parte integrante della narrazione della “questione uigura”: Xinjiang, infatti, è il nome che i Manciù diedero alla regione, e significa, letteralmente, “nuova frontiera”. È infatti confinante con Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan ed India e, nonostante si estenda per il 17% del territorio cinese, resta una delle zone più povere del Paese.
Lo Xinjiang è abitato per il 46% da Uiguri[1], etnia turcofona a maggioranza musulmana che popola la regione da più di mille anni, da sempre oggetto di dominazione (dapprima per mano mongola, poi da parte dei Calmucchi, in seguito, appunto, dei Manciù, fin quando, nel 1955, la regione diventa parte integrante della Repubblica Popolare Cinese). Nonostante ciò (o proprio per questo) gli Uiguri lottano almeno a partire dal 1933 per l’indipendenza del Turkestan Orientale (così, emblematicamente, denominano la regione: un nome diverso da quello datole dai “conquistatori”).
Per un altro 40% la regione è abitata da Han, la principale etnia del Paese (costituisce circa il 90% della popolazione cinese).
Gli Han, spinti da cospicui incentivi economici da parte di Pechino, iniziano a popolare in massa il territorio a partire dagli anni Novanta, nell’ambito della campagna ‘Go West’, con il preciso obiettivo di industrializzare lo Xinjiang e implementarne lo sviluppo urbano, di cui, tutt’oggi, beneficiano soprattutto gli Han, stanziati principalmente nella zona settentrionale, proprio dove si trovano i principali giacimenti petroliferi[2].
È proprio la problematica convivenza tra le due etnie ad essere (una) causa e, al contempo, effetto della “questione uigura“.
Ciò che preoccupa più di qualsiasi altra cosa Pechino è che, quella uigura, è nei fatti una etnia a tendenza islamica. Proprio la contiguità con i territori dell’Afghanistan e del Pakistan, infatti, ha reso la formazione di gruppi terroristici nella regione impresa facile- tra tutti, il Movimento Islamico del Turkestan Orientale, l’ETIM, considerato da Pechino la più grande minaccia alla sicurezza della Cina. Diversi attentati di presunta matrice uigura, infatti, sono stati compiuti tra il 2013 ed il 2014: valga ricordare per tutti l’attacco alla stazione ferroviaria di Kunming, capoluogo della provincia dello Yunnan, il 1 marzo 2014-ricordato come l’11 settembre cinese-durante il quale uomini armati di coltelli hanno ucciso circa trenta persone, ferendone più di cento.
La risposta di Pechino non si è fatta attendere.
Nel 2015 è infatti iniziata una campagna antiterrorismo per eliminare le cellule jihadiste (nei fatti un processo di de-islamizzazione), introducendo, tra le altre misure, il divieto di portare la barba lunga per gli uomini o di indossare il burqa in pubblico per le donne[3].
È da questo momento che la risoluzione della ‘questione’ diventa improrogabile per il governo centrale che si mostra da subito intenzionato a risolverla “whatever it takes’” per prendere in prestito dalla politica nostrana un’espressione assai gettonata nelle ultime settimane.
La stabilizzazione della regione è, infatti, indispensabile per la strategia geopolitica cinese, per almeno tre ragioni.
Innanzitutto lo Xinjiang è ricco di risorse energetiche. Oltre ai già citati giacimenti petroliferi, recentemente è stato scoperto nella regione un enorme giacimento di gas con una riserva stimata di 115,3 miliardi di metri cubi nel bacino del Tarim, secondo quanto riportato da Xinhua, la maggiore agenzia di stampa ufficiale della Repubblica Popolare.
Inoltre, tutte le infrastrutture adibite al trasporto di idrocarburi dall’Asia Centrale alla Cina passano proprio per lo Xinjiang.
Infine, va osservato come la religione islamica sia incompatibile con molti dei pilastri delle politiche di Pechino, come ad esempio la pianificazione familiare e più in generale i valori del “socialismo con caratteristiche cinesi”.
E la stabilizzazione dello Xinjiang, per il governo di Xi Jinping, è possibile soltanto seguendo un preciso imperativo: “round up everyone who should be rounded up”[4], radunare tutti coloro che devono essere radunati, letteralmente. Si tratta di una frase che avrebbe pronunciato Chen Quanguo, nuovo governatore della regione (il quale ha precedentemente operato in Tibet), comparsa negli Xinjiang Papers, documenti ricevuti e pubblicati dal New York Times che confermerebbero l’esistenza di campi di concentramento creati nella regione per “sinizzare” la popolazione uigura.
I Papers sono stati consegnati alla testata statunitense da un funzionario cinese che, per ovvi motivi, ha chiesto di restare anonimo. Prima ancora del contenuto, ad essere rilevante è la dinamica che ha portato alla rivelazione dei documenti[5]: il fatto che, a quanto pare, la fonte sia un funzionario del governo di Pechino indicherebbe che nel Partito Comunista Cinese vi è un’opposizione interna che non condivide le politiche di Mr. Xi e che, anzi, evidentemente le osteggia, per quanto possibile. Il materiale, oltre a riportare discorsi privati di Xi Jinping e di altri funzionari, conterrebbe anche una ‘guida’ per gli agenti di polizia dispiegati nella regione, contenente risposte decise da dare agli studenti che avrebbero visto sparire i propri familiari: essi sono stati “infettati” dal virus del radicalismo islamico, pertanto bisognava che fossero posti in “quarantena” e “curati”[6].
Il governo di Pechino ha bollato, naturalmente, il contenuto del materiale, come “fake news’” mentre l’ONU lo considera “materiale credibile’”
In realtà, va osservato che non è mai stata smentita l’esistenza dei campi in questione (sono stati organizzati anche dei Press Tour per mostrare alla stampa internazionale il loro funzionamento, ai quali, presto, non ha creduto più nessuno); tuttavia, la versione ufficiale li mostra al mondo quali “campi di educazione professionale’” cui si avvicinano volontariamente criminali ed elementi radicalizzati per essere “reintegrati” nella società.
Nel frattempo, si alza la pressione della comunità internazionale (o almeno di una parte) sulla questione. Naturalmente sono gli USA che, più di qualsiasi altra nazione, hanno interesse a polarizzare l’Alleanza atlantica contro Pechino, servendosi proprio delle atrocità commesse nello Xinjiang: la linea Trump sembra, per ora, essere condivisa dal segretario di Stato dell’amministrazione Biden, Antony Blinken, il quale ha confermato la qualifica di genocidio a proposito di quanto accade nella regione, mentre l’Unione Europea ha recentemente annunciato l’intenzione di sanzionare alcuni dirigenti cinesi che sarebbero coinvolti nell’attività repressiva nello Xinjiang, prevedendone il congelamento dei beni ed il divieto di visto[7]. Per la Turchia, la questione resta delicata (soltanto mettere in discussione l’operato del governo cinese metterebbe a rischio i rapporti di Erdoğan con Xi Jinping, e gli interessi in gioco sono troppo alti). Dopo il Canada, recentemente il Parlamento olandese-primo in Europa- ha approvato una mozione non vincolante in cui qualifica il trattamento riservato alla popolazione uigura quale genocidio.
Spesso si commette un grossolano errore nel paragonare lo scontro tra Cina e Stati Uniti alla Guerra Fredda del secolo scorso: quello di pretendere di far rientrare nello schema che mosse i due blocchi di allora, le dinamiche del conflitto contemporaneo. Se allora, infatti, a muovere gli schieramenti nello scacchiere internazionale erano le ideologie, oggi è l’economia che determina i posizionamenti degli Stati. Nessuna teoria razziale muove l’azione cinese nello Xinjiang: l’Impero del Centro brama soltanto di divenire la prima potenza economica al mondo e la più influente.
Tuttavia, lo stesso Xi Jinping avrebbe ammesso che proprio la questione uigura dimostra come: “lo sviluppo economico non porta automaticamente con sé ordine e sicurezza”[8].
Un’ennesima contraddizione che testimonia l’esistenza di tante Cine, che Xi Jinping, checché se ne dica, fa sempre più fatica a governare.
Note
[1] https://www.limesonline.com/uiguri-terrorismo-ed-energia-xinjiang-snodo-irrisolto-della-cina/53884
[2] cfr. https://www.limesonline.com/uiguri-terrorismo-ed-energia-xinjiang-snodo-irrisolto-della-cina/53884
[3] https://www.limesonline.com/rubrica/xinjiang-cina-uiguri-sorveglianza-tecnologia-proteste
[4] https://www.nytimes.com/interactive/2019/11/16/world/asia/china-xinjiang-documents.html BY AUSTIN RAMZY AND CHRIS BUCKLEY NOVEMBER 16, 2019
[5] come osservato in https://ilmanifesto.it/cina-cosa-ce-nei-xinjiang-papers-del-new-york-times/
[6] cfr. https://www.nytimes.com/interactive/2019/11/16/world/asia/china-xinjiang-documents.html BY AUSTIN RAMZY AND CHRIS BUCKLEY NOVEMBER 16, 2019
[7] Per approfondire https://www.repubblica.it/esteri/2021/03/17/news/alta_tensione_tra_l_occidente_e_la_cina_usa_e_ue_annunciano_sanzioni_contro_pechino-292703675/
[8]cfr. https://www.nytimes.com/interactive/2019/11/16/world/asia/china-xinjiang-documents.html BY AUSTIN RAMZY AND CHRIS BUCKLEY NOVEMBER 16, 2019
Foto copertina: Il presidente cinese Xi Jinping riceve un regalo da un parlamentare nazionale dello Xinjiang durante una tavola rotonda alla sessione annuale in corso del Congresso nazionale del popolo. [Foto: Xinhua / Lan Hongguang, Li Tao e Ma Zhancheng]