La globalizzazione ha fallito? Trump e la nuova politica commerciale americana


Fino alla crisi subprime, la globalizzazione è stata il motore della crescita economica mondiale, favorendo l’integrazione dei mercati e la riduzione delle barriere commerciali. Tuttavia, i successivi shock economici, la crisi delle classi medie dei Paesi sviluppati e le tensioni geopolitiche hanno portato a un’inversione di tendenza. Esse sono risultate nella messa in atto di politiche protezionistiche, di cui il neo-eletto Presidente degli Stati Uniti è solo l’ultimo esempio. Il fenomeno della de-globalizzazione, il ritorno dei dazi e il rischio di un effetto “spaghetti bowl” pongono interrogativi sulla sostenibilità dell’attuale ordine economico globale.


A cura di Luigi Parisi

La globalizzazione, intesa come l’integrazione crescente dei mercati a livello globale, ha caratterizzato l’economia mondiale dagli anni ‘80 in poi. Con l’abbattimento delle barriere commerciali e l’ascesa della Cina come hub manifatturiero, il commercio internazionale ha raggiunto livelli senza precedenti.
Tuttavia, le crisi finanziarie, le disuguaglianze sociali e la perdita di posti di lavoro in Occidente hanno alimentato un crescente scetticismo nei confronti di questo modello.
La Brexit, ma anche le crescenti richieste di welfare e dell’intervento pubblico in economia e nello Stato sociale in alcuni paesi sono stati i primi sintomi; ora il morbo sembra essere epidemico. La maggioranza degli elettori ritiene, magari solo a un livello inconscio, che la globalizzazione non sia stata ben gestita dalle classi politiche dell’epoca, moderate e centriste, e abbia fatto più danni che altro. Tanto è vero che negli ultimi anni, in moltissimi Paesi democratici, la destra, anche nelle sue forme più estreme, è alternativamente ritornata al potere o ha ottenuto risultati elettorali non indifferenti.

Donald Trump, con il suo slogan M.A.G.A. (Make America Great Again) ha incarnato questa reazione contro la globalizzazione, promuovendo dazi e politiche protezionistiche volte a rilocalizzare la produzione e riequilibrare il deficit commerciale. È quantomeno interessante che lo stesso Paese che abbia promosso il multilateralismo più puro stia ora tornando sui suoi passi. Ma la globalizzazione ha davvero fallito?

I perdenti della globalizzazione: la teoria economica

La base teorica che ha portato alla globalizzazione si rinviene principalmente negli studi relativi al commercio internazionale da parte della teoria economica.
Secondo la teoria del vantaggio comparato di David Ricardo[1] infatti, il libero scambio è vantaggioso per tutti i paesi coinvolti: in questo modo gli stati raggiungono panieri di consumi impossibili in autarchia. Tuttavia, questa teoria presuppone che i fattori produttivi (capitale e lavoro) possano spostarsi senza costi di transazione tra settori, il che nella realtà non avviene facilmente.
Il modello Heckscher-Ohlin rafforza queste conclusioni[2]. Esso sostiene che i paesi esportano il bene che viene prodotto utilizzando maggiormente il fattore che è relativamente più abbondante in quel paese e in questo modo raggiungono livelli di benessere che non potrebbero raggiungere da soli.
I vantaggi proposti dalla teoria del commercio internazionale sono state le principali determinanti del tentativo statunitense di instaurare un nuovo ordine economico globale nel secondo dopoguerra. Tale ordine ha sì prodotto i suoi effetti, ma solo al termine della guerra fredda ha potuto manifestarsi in tutta la sua dirompenza. Il problema è sorto quando dal mondo monopolare a guida USA si è passati al mondo multipolare, in cui una molteplicità di attori internazionali e nuove grandi Potenze agiscono principalmente in base ai propri interessi, minando le fondamenta della globalizzazione stessa. Secondo Dani Rodrik[3], infatti la globalizzazione è un processo disruptive, che richiede un’azione coordinata di tutti i Paesi della Comunità internazionale. Nelle sue parole “non ci possono essere contemporaneamente democrazia, integrazione economica globale e sovranità nazionale”. Quando alcuni Paesi hanno sfruttato i benefici della globalizzazione senza rinunciare alla sovranità nazionale (leggasi anche: agli interessi nazionali), la globalizzazione stessa è fallita e ha provocato vincitori e vinti: i vincitori sono le classi più povere dei PVS, mentre i vinti sono le classi medie dei Paesi sviluppati.

L’Ipotesi di compensazione e il ritorno dei nazionalismi

I vinti della globalizzazione, che si sono sentiti traditi dai loro governanti, hanno quindi deciso di richiedere una compensazione alla classe politica: potendo influenzare il policy maker tramite elezioni, essi hanno richiesto un aumento dello stato sociale, mediante politiche volte alla redistribuzione dei vantaggi ottenuti dall’integrazione commerciale e finanziaria, o di rallentare tale integrazione; in altri casi, essi hanno chiesto di adottare tutta una serie di politiche volte a proteggere (e in alcuni casi a ripristinare) il loro status sociale. Si tratta dell’ipotesi di compensazione[4]: chi è stato sconfitto chiede di essere compensato per gli svantaggi subìti. Se uniamo queste posizioni alle difficoltà di mettere in atto delle politiche redistributive a causa del rischio di perdita della competitività nonché di esplosione del debito pubblico, otteniamo un mix esplosivo: nei Paesi democratici i partiti più radicali ottengono consensi, si sviluppano nuovamente i nazionalismi e ognuno si rinchiude nel proprio guscio. Non si tratta, naturalmente, di un ritorno alle dittature del novecento: il mondo di oggi è troppo complesso e diverso rispetto a 100 anni fa per riproporre le medesime dinamiche, checché ne dica chi sfrutta l’ondata di paura provocata da certe parole, ma i rischi sono altrettanto gravi. La vittoria di Donald Trump ne è solo l’ultimo esempio: il neo-eletto Presidente USA ha vinto non solo tra i Grandi Elettori come nel 2016, ma anche nel totale dei voti, ricevendo le preferenze anche degli immigrati di prima, seconda o terza generazione, timorosi di perdere quanto acquisito dai “nuovi loro”. Marin Le Pen in Francia, il ritrovato vigore di AfD in Germania, Nicolas Maduro in Venezuela e Javier Milei in Argentina sono ulteriori esempi, di diversi colori politici ma caratterizzati tutti da tesi politiche estreme che si sono diffusi in questi anni. 

Trump e i dazi: si va verso la de-globalizzazione?

Il nuovo inquilino della Casa Bianca, appena insediatosi il 20 gennaio 2025, ha firmato decine di nuovi ordini esecutivi, volti anche a riequilibrare la bilancia commerciale statunitense. Recentemente, dopo una visita con il Presidente francese Macron, durante la quale quest’ultimo ha corretto il Presidente americano su alcune dichiarazioni riguardanti l’Ucraina, Donald J. Trump ha annunciato l’intenzione di imporre dazi sulle importazioni dall’Unione europea, in quanto essa sarebbe nata “to screw the US[5]. In realtà, secondo le ultime cifre, il commercio tra le due sponde dell’Atlantico beneficia in pari misura gli Stati Uniti e l’Unione europea: nel 2023, gli USA hanno avuto un surplus nelle esportazioni nette di servizi verso il Vecchio continente di circa 109 miliardi di euro, mentre l’Unione ha registrato tale surplus commerciale verso gli Stati Uniti nelle esportazioni di merci, registrando un +157 miliardi di euro[6]. Per un volume totale di circa 1,6 migliaia di miliardi, il commercio euro-americano è costituisce una parte piccola, ma non irrisoria, delle bilance dei pagamenti dei due alleati.
I dazi, definiti come quelle imposte applicate alle importazioni per aumentare il costo di beni stranieri, producono, laddove applicati diversi effetti: in primo luogo sui consumatori, in quanto i dazi influiscono profondamente sul mercato interno, modificando la struttura dei prezzi, gli incentivi alla produzione e il benessere dei consumatori. In pratica, essi introducono distorsioni che riducono l’efficienza allocativa e generano perdite di benessere. I consumatori vedono l’aumento del costo dei beni importati e perdono benessere.
In secondo luogo, i dazi tendono essere regressivi, cioè colpiscono di più le fasce più deboli della popolazione. Esse destinano una quota maggiore del loro reddito all’acquisto di beni soggetti a tariffe. Anche le disuguaglianze sociale, di conseguenza, aumentano.
Tuttavia, in specifici contesti, possono avere effetti strategici positivi. Alcuni autori[7] hanno sostenuto che i dazi possano favorire l’industria nascente, proteggendola dalla concorrenza estera fino al raggiungimento di economie di scala o comunque tutelare la propria industria quando essa è incapace di competere nei mercati internazionali. Il settore automobilistico americano ne è un esempio. Anche chi ne sostiene i benefici, afferma tuttavia che si tratta di una soluzione subottimale a quella del libero scambio e che i dazi portino vantaggi solo nel breve periodo. Nel lungo periodo, infatti, le ritorsioni commerciali e i maggiori svantaggi dovuti al fatto che i consumatori spendano di più per i beni importati o siano costretti a virare su alternative nazionali annullano qualsiasi vantaggio ottenuto tramite politiche protezionistiche. Le entrate fiscali accumulate dallo Stato e il surplus dei produttori che vedono aumentata la domanda di beni nazionali non riescono a compensare la perdita di benessere della generalità dei consociati[8].
La domanda sorge spontanea: le politiche protezionistiche di Trump, intese come quelle politiche volte a proteggere gli Stati Uniti dal resto del mondo, che sembra essersi coalizzato per minare la supremazia dello Zio Sam, sono una risposta a un’insoddisfazione generale verso la globalizzazione o un tentativo di mostrare i denti e dimostrare al mondo che l’America è ancora il più grande, grosso e cattivo attore internazionale esistente, senza il quale il mondo non funziona? Le dichiarazioni sull’acquisizione del Canale di Panama e della Groenlandia sembrano indicare la prima opzione: esse acquisiscono un senso se lette alla luce delle mire espansionistiche russe verso Ovest o di quelle cinesi verso Formosa (o Taiwan). Stessa cosa si può dire delle politiche commerciali verso la Cina, messe in alt subito dopo il loro annuncio. Per quanto riguarda le decisioni verso l’Europa, historia magistra vitae:  già nel 2018, Trump impose dei dazi sui metalli europei e su altre materie fondamentali per l’industria americana. Ad oggi, infatti, l’Unione europea non ha lo stesso peso politico, economico e militare delle Superpotenze mondiali e, per quanto voglia, non può sedersi al loro stesso tavolo.
D’altra parte, le politiche anti-immigrazione, nonché il programma di politica interna sembrano far propendere per la prima interpretazione, cioè per l’insoddisfazione generale verso la globalizzazione.
È chiaramente possibile che entrambe le interpretazioni siano possibili e abbiano un fondo di verità. Ai posteri l’ardua sentenza.

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La De-Globalizzazione: un fenomeno strutturale?

La de-globalizzazione è un processo che vede una riduzione degli scambi commerciali e una rilocalizzazione della produzione. Le cause principali sono molteplici: oltre l’insoddisfazione delle classi medie dei Paesi sviluppati, anche i Paesi che si comportano da free rider, cioè ne godono dei vantaggi senza però integrarsi economicamente con il resto del globo in un regime di libera concorrenza, ne sono una causa in quanto portano anche altre nazioni a voler ricevere i benefici senza pagarne i costi. Le crisi finanziarie, dalla subprime a quella Covid, hanno dato forse il colpo di grazia al fenomeno: l’interdipendenza tra le varie economie è divenuta tale che uno shock in un Paese si è diffuso al mondo intero nel giro di pochi mesi. Basti pensare che meno di un secolo fa, la crisi del 1929 non si diffuse in Europa fino alla seconda metà del 1931 e comunque i suoi effetti non furono così devastanti come nel caso del 2008. Un’ultima causa possibile della de-globalizzazione sta nel fatto che economie avanzate stanno cercando di riprendere il controllo della produzione strategica e del loro capitale umano, inteso come conoscenza, specializzazione dei propri lavoratori, e non sono più disposti a condividerli con altri Paesi[9].

I rischi del protezionismo: lo Spaghetti Bowl

Uno degli effetti più pericolosi della de-globalizzazione è la proliferazione di accordi commerciali bilaterali e regionali, creando un sistema complesso e inefficiente noto come “spaghetti bowl”[10]. Questo fenomeno genera: un eccesso di normative differenti, che complica il commercio internazionale; una distorsione degli investimenti, poiché le imprese devono adattarsi a regole multiple e rischiano di incappare negli stessi dazi imposti dai propri Paesi di appartenenza a causa dell’eccesso di frammentazione della produzione, ad oggi delocalizzata in una moltitudine di stati diversi, soprattutto nel caso delle multinazionali; una riduzione dell’efficacia del WTO, che fatica a gestire un sistema sempre più frammentato.
Come osservano alcuni autori[11], il ritorno al protezionismo rischia di paralizzare la crescita economica globale.

Conclusione: la globalizzazione è davvero finita?

La globalizzazione, lungi dall’essere un fenomeno completamente esaurito, sta attraversando una fase di trasformazione. Se è vero che negli ultimi decenni essa ha avuto anche effetti positivi, è altrettanto innegabile che abbia prodotto effetti collaterali significativi: la polarizzazione economica, la perdita di posti di lavoro nelle economie avanzate e la crescente instabilità politica hanno eroso il consenso attorno al libero scambio.
Tuttavia, dichiararne la fine sarebbe prematuro. Più che un’inversione definitiva, stiamo assistendo a una riorganizzazione della globalizzazione, con nuove dinamiche basate su blocchi regionali, protezionismo mirato e re-shoring strategico. La de-globalizzazione totale sembra allo stato dei fatti alquanto improbabile: le interdipendenze economiche sono troppo profonde per essere smantellate senza costi insostenibili.
Gli Stati Uniti, con la loro politica commerciale sempre più assertiva, sembrano destinati a continuare a influenzare il destino dell’economia mondiale. La vera sfida sarà quella di riformare il sistema globale, trovando un compromesso tra vecchie e nuove esigenze, nonché tra i giovani leoni, atti a mettersi alla prova e a cercare di trovare il loro posto nel pecking order internazionale, e i vecchi leoni, che non voglio lasciare il loro posto.
In questo contesto, non si tratta di decretare la fine della globalizzazione, ma di capire in quale forma essa sopravvivrà.


Note

[1] D. RICARDO, Principles of Political Economy and Taxation, 1817
[2]B. OHLIN, Interregional and International Trade, Harvard University Press, 1933.
[3]D. RODRIK, Democracy and the future of world economy, W.W. Norton & co., 2011
[4]D.RODRIK,  The globalization paradox,  W.W. Norton & co., 2011 [5]https://www.euractiv.com/section/politics/news/eu-was-formed-to-screw-us-trump-says-in-promising-tariffs-on-cars/ [6]https://www.europarl.europa.eu/topics/it/article/20250210STO26801/relazioni-commerciali-ue-usa-l-impatto-dei-dazi-sull-europa#importanza-del-commercio-ueusa-6 [7]P.KRUGMAN, Handbook of International Economics, vol. 2, Elsevier, 1990.
[8]D. IRWIN, Clashing over commerce, 2017.
[9]R. BALDWIN, The great convergence, 2016.
[10] J. BHAGWATI,  US Trade Policy: The Infatuation with Free Trade Agreements, Columbia University Discussion Paper Series, No. 726, 1995.
[11]J. BHAGWATI, Protectionism, MIT Press, 1988.


Foto copertina: Trump si rivolge alla Conservative Political Action Conference il 24 febbraio 2024. | Jose Luis Magana / AP