Aggredire un infermiere, durante l’esercizio delle proprie funzioni, anche solo verbalmente, equivale a commettere un reato. È quanto emerso dalla Cassazione. Tale decisione è destinata a fare giurisprudenza, specificando la linea di demarcazione e di difesa della sicurezza fisica e psicologica degli operatori sanitari risolvendo definitivamente il concetto spinoso in merito alla posizione giuridica degli infermieri, ovvero quelli di essere degli incaricati di pubblico servizio.
Analisi
La Corte di Cassazione, pronunciandosi sul caso in esame, con la sentenza pronunciata dalla sezione VI il 05.10.2022 e depositata il 18.10.2022 n.39320 ha posto definitivamente l’accento sulla questione specificata in epigrafe, ovvero quella secondo colui gli infermieri sono “incaricati di pubblico servizio” ed un loro impedimento dell’attività lavorativa, è una “interruzione di un pubblico servizio”. Seppur in ritardo, si osserva la questione con ottica di “personificazione sanitaria”, ovvero, la sentenza della corte nomofilattica, va a tutelare la figura dell’infermiere (quale intera categoria generalista poiché non si può escludere dall’applicare l’analogia e non estendere l’applicazione di tale principio, anche agli operatori socio sanitari e chiunque è affine a tale professione svolta nei presidi ospedalieri).
In merito alle ripetute aggressioni verbali e fisiche che vengono proferite e perpetrate continuamente ai danni degli infermieri nelle corsie degli ospedali, sono figli di una ingiustificata rabbia di pazienti e parenti che presi dalla concitazione del momento, emanano affermazioni verbali poco adatte e consone ai danni degli operatori.
L’ingiustificata azione degli affini è lesiva quando hanno origini futili frutto dell’errata cognizione che la prestazione lavorativa non è eseguita mai abbastanza minuziosamente bene nei confronti dei cari nei cui confronti il professionista sanitario esegue in favore del richiedente supporto.
Le violenze spesso poggiano su motivazioni pretestuose e non legittime, e non giustificano affatto agitazione e la rabbia che sfociano spesso in offese personali che un professionista non merita di subire durante l’esercizio delle proprie funzioni, soprattutto se in quel momento l’operatore assistenziale è intento a prendersi cura di un malato.
Quello su cui si pone l’accento non sono le aggressioni fisiche ma le comunicazioni rivolte alle persone quali diretti interessati che esercitano la professione sanitaria. Quello che può accadere, è che durante lo svolgimento del proprio lavoro dedito alle cure del malato, il familiare assuma un atteggiamento ostile andando a ostacolare l’esercizio delle sue funzioni, andando a danneggiare l’onore, la reputazione della propria persona quale diritto personalissimo, oltre che l’interruzione di un pubblico servizio, se svolto all’interno di un presidio ospedaliero.
Il Caso
Il caso da cui è arrivata la pronuncia definitiva della Suprema Corte di Cassazione, è frutto della richiesta iniziale dell’infermiera che rivolgendo il consueto invito fatto ad un affine della paziente sita all’interno dell’ospedale per le cure consuete, ha visto la nascita di un diverbio tra l’infermiera e la donna che si rifiutava di allontanarsi causa cessazione dell’orario di visita, tramutata da un alterco in un’aggressione verbale e successivamente in una colluttazione fisica. Da tale colluttazione prosegue prima con il rincorrere dell’affine, e poi con un colpo violento al volto – ovvero uno schiaffo – esattamente, nel momento in cui l’infermiera stava chiamando l’ausilio dei colleghi al fine di far riuscire a rispettare le regole interne in merito al diritto di visita.
Le motivazioni della Cassazione: Il chiarimento della posizione giuridica:
La prestatrice di lavoro sanitario ha sporto denuncia/querela e la signora nei cui confronti si procedeva, è stata condannata per il reato di “lesioni personali” e anche per i reati di “resistenza a pubblico ufficiale” e “interruzione di pubblico servizio”.
La Corte di Cassazione ha specificato circa la posizione dell’infermiera specialmente chiarendo se la sua qualifica giuridica sia ascrivibile e parificata a quella di un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio. La corte specifica che: “nonostante l’infermiere sia ‘solo’ un incaricato di pubblico servizio e non un pubblico ufficiale, l’ostacolo frapposto all’attività da questi svolta (che non può essere sospesa o soggetta a impedimenti) integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale, punibile con la reclusione da sei mesi a cinque anni”; si specifica altresì che “affinché venga integrata la fattispecie di resistenza a pubblico ufficiale, non è necessario che sia concretamente impedita la libertà di azione del pubblico ufficiale, è sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto dell’ufficio o del servizio, indipendentemente dall’esito, positivo o negativo, di tale azione e dell’effettivo verificarsi di un ostacolo al compimento dell’atto del pubblico ufficiale” e che è direttamente connessa alla violenza “ha rilevato come la condotta violenta fosse proprio connessa alle funzioni esercitate dalla G., tanto da costituire ostacolo alla stessa”.
Pertanto, l’aggressione proferita all’infermiera, ha generato il diretto impedimento della professione dell’incaricato di pubblico servizio che di conseguenza ha comportato commissione del reato di resistenza a pubblico ufficiale poiché compiuta con violenza e minaccia. Tale condotta lesiva è in “re ipsa” ovvero opera a prescindere dall’effettivo avverarsi dell’impedimento del pubblico servizio. È l’offesa con minaccia e violenza alla persona che ha portato alla violazione del delitto di interruzione di pubblico servizio.
Ebbene, bisogna chiarire quando viene ad evidenza la commissione del reato di resistenza a pubblico ufficiale. Esso scatta nei confronti del soggetto che attraverso l’uso di violenza o minaccia – per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio – compie attraverso una azione, una lesione del bene giuridico tutelato.
Tale lesione si avvera solo nel momento preciso in cui l’incaricato o il p.u. stia (in quel medesimo momento), compiendo un atto di ufficio o di servizio, verso il soggetto o verso i propri colleghi o assistenti. L’azione, quindi, deve essere di intralcio o compromettere la regolarità del compimento dell’atto dell’ufficio, anche parziale, ma comunque idonea al non regolare svolgimento.
È chiara che l’azione di interruzione è avvenuta quando con minaccia, violenza e lesioni dolose commesse dal proponente del ricorso, siano idonee a commettere il delitto, che poi hanno portato all’interruzione del lavoro dell’operatrice e alla soccombenza del ricorso. Orbene, tale atteggiamento del reo dovrà essere idoneo ad offendere, ovvero attraverso una minaccia o violenza commessa con dolo atta a voler provocare l’evento lesivo. Non integra né violenza né minaccia la cd. resistenza meramente passiva, ovvero, quell’atteggiamento quale rifiutarsi di collaborare o obbedire compiuto con comportamenti contrastanti con il resto, esempio allontanarsi correndo, gettarsi a terra, ovvero quello che si evidenzia è che sono azioni non con violenza né con minaccia.
Momento in cui si riveste la qualifica giuridica
Durante le varie fasi di giudizio, quello che la difesa ha provato ad evidenziare, è che l’infermiera, quando è stata colpita dallo schiaffo, non stava svolgendo alcuna attività lavorativa atta a confermare l’interruzione di un pubblico servizio, poiché ella è stata raggiunta in un momento successivo dall’appellante che poi l’ha vista colpire al volto con uno schiaffo.
Proprio la Corte di Cassazione ha chiarito che “l’infermiera, allorché veniva inseguita e raggiunta dalla donna, presente ancora nella stanza, e colpita con violenza con uno schiaffo al volto, era proprio in procinto di richiedere aiuto al fine di far osservare le norme interne che disciplinano il diritto di visita dei pazienti» e questi fatti sono avvenuti dopo che «l’infermiera aveva, vanamente e ripetutamente, invitato la donna a lasciare la stanza ed attenersi agli orari di visita predisposti dalla struttura ospedaliera”. Quindi è chiaro che ad ella è stato impedito l’esercizio di un pubblico servizio.
Distinzione tra Pubblico Ufficiale e Incaricato di Pubblico Servizio
Sono pubblici ufficiali ex art. 357 c.p. “coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”;
Sono incaricati di un pubblico servizio ex art. 358 c.p. “coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”.
Articolo 337 c.p. Resistenza a pubblico ufficiale
Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
La ratio di tale norma si evidenzia sull’esigenza di tutelare la libertà di determinazione e di azione della P.A., attraverso la tutela anche fisica dei soggetti pubblici, sia che siano pubblici ufficiali, sia che siano incaricato di pubblico servizio. È quindi una tutela generica nei confronti dei soggetti pubblici che appartengono alla pubblica amministrazione.
Analisi della fattispecie
L’articolo 337 c.p. è inserito nel libro secondo “dei delitti in particolare”, al titolo II “dei delitti contro la pubblica amministrazione”, al capo II “dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione”.
Il tipo di reato è plurioffensivo, ovvero il bene giuridico tutelato e protetto dalla suindicata norma è il “buon andamento della pubblica amministrazione” quanto lesivo della “libertà di autodeterminazione” ed “incolumità della persona fisica” che esercita le pubbliche funzioni.
È un reato comune perché può essere commesso da chiunque, difatti il soggetto attivo del reato, ovvero l’autore materiale del fatto è un soggetto privato, mentre il soggetto passivo, del resto, cioè colui il quale l’azione criminosa bei cui confronti è rivolta, è il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio.
L’elemento oggettivo del reato è rinvenibile sia nella minaccia che nella violenza. Per quanto riguarda la minaccia, essa consiste nella prospettazione di un male ingiusto, concreto ed attuale, idoneo a determinare una costrizione del soggetto passivo, non essendo per contro sufficiente la mera reazione genericamente minatoria del privato.[1]
Per quanto concerne invece la violenza, essa va sviscerata nella sua accezione propria ed impropria. In riferimento alla violenza impropria, va ravvisata “quando si utilizza un qualsiasi mezzo idoneo a coartare la volontà del soggetto passivo, annullandone la capacità di azione o determinazione”.[2] Per convesso, in merito alla violenza propria, si intende invece “l’impiego di energia fisica sulle persone o sulle cose, esercitata direttamente dal soggetto o per mezzo di uno strumento”.[3]
La fattispecie incriminatrice non punisce la resistenza meramente passiva, non potendosi essa farsi rientrare nei concetti di violenza o minaccia in quanto un atteggiamento passivo è propriamente non coincidente con la volontà del soggetto di arrecare la violenza o la minaccia.
Per quanto riguarda il rapporto violenza o minaccia a p.u. e resistenza a p.u., il criterio di distinzione è da ravvisarsi nel criterio temporale, per cui se la violenza o minaccia precede il compimento dell’atto da parte del pubblico funzionario si configura l’ipotesi di cui all’art. 336, altrimenti, se la condotta viene attuata durante il compimento dell’atto d’ufficio e allo scopo di impedirlo, il soggetto risponderà di resistenza ex art. 337.
L’elemento soggettivo del reato è il dolo specifico, ovvero, l’azione commessa con coscienza e volontà atte ad arrecare un danno ingiusto, e soprattutto voler realizzare un fine particolare.
Considerazioni conclusive
Ebbene, alla luce di quando sopra scritto, si evidenzia che gli infermieri sono operatori la cui qualificazione giuridica è quella di essere “incaricati di pubblico servizio” e un impedimento della loro attività lavorativa, è una “interruzione di un pubblico servizio”. Tale interruzione commessa dal reo, – attraverso un qualsiasi atto di violenza o meno, commesso con intenzionalità ed evidente cognizione delle proprie azioni di impedire l’esercizio lavorativo – è rinvenibile nella fattispecie delittuosa “resistenza a pubblico ufficiale” poiché gli stessi.
SENTENZA
Cass. pen., sez. VI, 5 ottobre 2022 (dep. 18 ottobre 2022), n. 39320
Presidente Capozzi – Relatore Costantini
Ritenuto in fatto
- B.V., per mezzo del proprio difensore, ricorre avverso la sentenza della Corte di appello di Milano che, confermando la sentenza resa dal Tribunale di Lecco, la ha condannata alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi otto di reclusione in ordine ai reati di cui agli artt. 337,582 e 340 c.p. poiché, richiesta dall’infermiera G.A.di lasciare la stanza in cui si trovava al di fuori dei consentiti orari di visita ai degenti, la inseguiva e, una volta raggiunta, la colpiva con uno schiaffo al volto, provocandole lesioni al padiglione auricolare destro giudicate guaribili in cinque giorni, così turbando la resiolarità delle attività ospedaliere.
- Avverso tale decisione, come unico motivo, la ricorrente deduce vizi di motivazione in ordine alla sola ritenuta sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p..
Secondo la ricorrente, la sentenza evidenzia che la violenza veniva semplicemente occasionata dal servizio di pubblica utilità svolto dall’infermiera ma non era tesa ad interromperlo, tanto da essere carente ogni legame con lo svolgimento del servizio; il litigio tra la ricorrente e l’infermiera G.A. è avvenuto in un momento successivo rispetto alla formulata richiesta rivolta alla B. ed al compagno di lasciare il reparto, quando si stava allontanando e aveva cessato ogni attività connessa allo svolgimento del pubblico servizio. Detta circostanza è emersa dalle dichiarazioni della persona offesa che aveva confermato di essere stata aggredita mentre si stava allontanando dalla stanza di degenza.
Le acquisizioni probatorie non hanno mai evidenziato collegamenti tra l’atto dell’ufficio e la violenza contestata alla B.
Con motivi aggiunti depositati telematicamente il 16 settembre 2022 la difesa insiste per l’accoglimento del ricorso ribadendo la assenza di legame tra lo schiaffo inferto alla persona offesa e l’attività da questa svolta.
Considerato in diritto
- Il ricorso, in quanto generico e declinato in fatto deve essere dichiarato inammissibile.
- Deve premettersi che le censure contenute nel ricorso, a fronte della conferma della sentenza di condanna relativamente ai delitti di resistenza ex art. 337 c.p., lesioni aggravate ex art. 582 e 585 con riferimento all’art. 576, n. 1, c.p. e interruzione di pubblico servizio ex art. 340 c.p., sono unicamente rivolte alla parte della decisione che ha confermato la condanna della ricorrente in ordine al delitto di cui all’art. 337 c.p. di cui al capo B) ed in tali corrispondenti limiti è stata formulata la richiesta di annullamento (conclusioni a pag. 3 del ricorso ribadite con i motivi aggiunti e conclusioni depositate telematicamente il 16 settembre 2022).
- Deve essere ribadito il principio di diritto secondo cui, affinché venga integrata la fattispecie di resistenza a pubblico ufficiale, non è necessario che sia concretamente impedita la libertà di azione del pubblico ufficiale, essendo sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto dell’ufficio o del servizio, indipendentemente dall’esito, positivo o negativo, di tale azione e dall’effettivo verificarsi di un ostacolo al compimento degli atti indicati (Sez. 6, n. 5459 del 08/01/2020, Sortino, Rv. 278207). In particolare, quanto al contesto in cui la violenza assume rilevanza, questa Corte ha puntualizzato che quando il comportamento aggressivo nei confronti del pubblico ufficiale non è diretto a costringere il soggetto a fare un atto contrario ai propri doveri o ad omettere un atto dell’ufficio, ma è solo espressione di volgarità ingiuriosa e di atteggiamento genericamente minaccioso, senza alcuna finalizzazione ad incidere sull’attività dell’ufficio o del servizio, la condotta non integra il delitto di cui all’art. 337 c.p., ma i reati di ingiuria e di minaccia, aggravati dalla qualità delle persone offese Sez. 6, n. 23684 del 14/05/2015, Bianchini, Rv. 263813).
È necessario, pertanto che esista una stretta connessione tra la condotta violenta e minacciosa e l’attività a valenza pubblicistica effettivamente svolta tanto da essere impedita, intralciata o compromessa, anche solo parzialmente e temporaneamente, la regolarità del compimento dell’atto di ufficio o di servizio da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio (Sez. 6, n. 5147 del 16/01/2014, Picco, Rv. 258631).
- Per quel che in questa sede rileva, come anche evidenziato nel ricorso, non integra il reato di cui all’art. 337 c.p. la reazione minacciosa posta in essere nei confronti del pubblico ufficiale dopo che questi abbia già svolto l’atto del proprio ufficio e senza, dunque, la finalità di opporvisi (Sez. 6, n. 8340 del 18/11/2010, dep. 2011, Chiodo Khalil, Rv. 249582).
E proprio al fine di confutare tale evenienza, la Corte territoriale ha messo in evidenza come la persona offesa, allorché veniva inseguita e raggiunta dalla ricorrente e colpita con violenza con uno schiaffo al volto, era proprio in procinto di richiedere aiuto al fine di far osservare le norme interne che disciplinano il diritto di visita dei pazienti, fatti avvenuti dopo che, vanamente, aveva ripetutamente invitato la B. a lasciare la stanza ed attenersi agli orari di visita predisposti dalla struttura ospedaliera, violazione delle norme che regolano l’accesso al nosocomio che neppure la ricorrente ha mai contestato, ammettendo di essersi introdotta unitamente al compagno nel repairto degenze superando una catenella che ne precludeva, anche simbolicamente, l’accesso.
La Corte territoriale ha pertanto evidenziato, al cospetto di critiche rivolte alla ritenuta sussistenza del delitto contestato, che contrariamente a quanto affermato nei motivi di gravame, G.A., infermiera addetta al reparto, svolgeva esattamente le funzioni connesse al servizio pubblico al quale era deputata, visto che era uscita dalla stanza alla ricerca di un collega che potesse aiutarla a far rispettare la disciplina di visita dei parenti ed allontanare la ricorrente, il compagno ed il figlio della prima che si erano introdotti, al di fuori degli orari consentiti, nella stanza di degenza.
- La ricorrente, invero, omettendo di confrontarsi con la parte della decisione in cui è stato evidenziato (in tal senso anche la sentenza del Tribunale) che la persona offesa fosse nel corridoio proprio per richiedere ausilio ai colleghi per far allontanare la B., il compagno ed il figlio, tenta di accreditare la tesi a mente della quale l’attività di controllo dell’infermiera aggredita si fosse ormai esaurita.
Il ricorso in tali termini proposto scade, altresì, nel precluso merito nella parte in cui viene messa in discussione la decisione che, attraverso un percorso coerente e logico, previa analisi delle risultanze istruttorie con particolare riferimento alle testimonianze rese dalle persone presenti ai fatti, ha rilevato come la condotta violenta fosse proprio connessa alle funzioni esercitate dalla G., tanto da costituire ostacolo alla stessa.
- All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende, secondo quanto previsto dall’art. 616, comma 1, c.p.p..
P.Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Note
[1] https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-ii/capo-ii/art337.html
[2] https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-ii/capo-ii/art337.html
[3] https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-ii/capo-ii/art337.html