“A Kiev non ci sono uomini”. Storie di vita ordinaria nell’Ucraina in guerra

Metro di Kiev, 10-03-2025. Valentina Chabert. @Opiniojuris.

Dalla chiusura dello spazio aereo, in Ucraina si entra solo via terra. C’è un treno in partenza ogni giorno, in tarda serata, che collega il confine polacco a Odessa e alla capitale Kiev. Da tre anni a questa parte, la piccola cittadina di Przemysl, nel sud-est della Polonia, è divenuta il crocevia di chi scappa dalla guerra e di chi per diverse ragioni sceglie di tornare a casa.


Kiev.Vestiti bene, dovrai stare in piedi per molte ore al buio e al freddo ad aspettare il treno”, si raccomanda la mia amica Anna. Al passare dei minuti, la fila di ucraini in attesa dei controlli di sicurezza alla frontiera si fa sempre più lunga, quasi a raggiungere il chilometro. Con l’aria gelida delle notti polacche sul viso, giunge finalmente il mio turno alla dogana. Davanti a me una signora anziana con una valigia pesantissima, accompagnata da due uomini sulla trentina – forse i nipoti. “Do pobachennya, babusyaarrivederci Nonna”. Pochi minuti più tardi, con l’aiuto del traduttore, la signora mi racconta che è venuta a trovare i suoi nipoti in Polonia. Sono riusciti a lasciare l’Ucraina tre anni fa, quando i timori di un possibile conflitto si trasformavano sempre più in certezza.

Passeggiando per le strade di Kiev mi è capitato più volte di ripensare a questa storia. La persona che mi accompagna nota il mio sguardo schivo e mi conferma che la mia intuizione è quella corretta: “A Kiev non ci sono uomini”. Dal febbraio 2022, la legge marziale e la coscrizione obbligatoria dai 25 ai 60 anni ha lasciato le città ucraine in mano alle donne. Gli unici uomini che si vedono per strada sono anziani, mutilati o veterani della guerra del 2014, adolescenti che si radunano nella piazza principale, giovani studenti che escono dall’università. “Da quando è scoppiata la guerra, mi sento la donna più fortunata e angosciata del mondo allo stesso momento”, mi confessa una persona che chiameremo Kateryna. Suo marito lavora nel mondo dell’università, e per la sua professione è riuscito ad ottenere un permesso rinnovabile ogni tre mesi che gli consente di non andare al fronte. Suo figlio, che ha appena compiuto 19 anni, lavora ed è ancora a Kiev. “Quando i russi ci hanno invaso, mio figlio aveva 16 anni. Ci siamo trovati davanti ad un bivio: indebitarci e mandarlo a studiare all’estero, sperando che si costruisca una vita lontano da qui, o tenerlo con noi e pregare che non venga prelevato e mandato a combattere”. Il figlio ha scelto di restare, consapevole che un giorno verrà chiamato alle armi per difendere la sua patria. Un giorno che per molti giovani ucraini vicino all’età della coscrizione obbligatoria potrebbe arrivare anche prima del previsto, qualora le proposte per l’abbassamento dell’età minima di leva divenissero legge.

Tra il suono ininterrotto di una sirena che invita a recarsi nei rifugi e il rumore della contraerea ucraina che intercetta e protegge la capitale dagli attacchi missilistici russi, Darya mi ha chiesto di incontrarci in un locale in una zona piuttosto centrale di Kiev. “Qui saremo al sicuro, possiamo metterci al piano di sotto che è murato e può fungere anche da rifugio antiaereo”.
Lo spirito degli ucraini in questi anni si è sempre mantenuto alto. Dalla battaglia di Kiev nei primi mesi della guerra, le persone sono divenute quasi assuefatte ad improvvisi cambi di programma per via degli allarmi imprevedibili. Hanno imparato a non prendere un taxi per tornare a casa quando si avvicina l’ora del coprifuoco – i prezzi vengono triplicati. Conoscono a memoria le mappe con i rifugi più vicini. Ma soprattutto vanno al lavoro, vanno a scuola, cenano al ristorante, condividono un drink nei caffè del centro, passeggiano per i parchi di Kiev. Uno stato di apparente normalità, nel quale ad un visitatore leggermente sovrappensiero e poco attento a ciò che lo circonda non verrebbe mai in mente di trovarsi in un paese in guerra. Fino a quando cala il buio, ed ogni parvenza di vita ordinaria si sgretola sotto i colpi della contraerea. “Vedi, nei primi mesi dall’inizio dell’invasione chiunque osasse uscire a bere un caffè o cenare in un ristorante veniva preso di mira. Gli veniva chiesto se fosse a conoscenza della situazione del proprio paese, sembrava strano e quasi inconcepibile anche solo sedersi con un amico davanti ad un tè. Poi abbiamo iniziato a capire che se quel ristoratore non lavora, se quel barista non riceve lo stipendio, non ci può essere un tessuto economico in questo paese. Abbiamo deciso di riprendere le attività quotidiane per sostenere l’economia, di supportare le tante donne che tornano a casa e non hanno più un marito perché morto o al fronte, di dividere le questioni militari da quella che è la vita ordinaria dei civili”.

Quando ci si trova in aree di conflitto ed in contesti molto polarizzati, scivolare nel limbo del coinvolgimento emotivo perdendo di vista il reale scopo documentativo e di ricerca è molto facile. Complice la forte propaganda, che da un lato e dall’altro degli schieramenti cerca di plasmare la narrativa ai danni di quelle che sono le reali percezioni. In Ucraina la situazione è più eterogenea di quanto mi aspettassi: “Combatteremo fino all’ultimo ucraino”, ci ripetono dal governo da quando siamo stati invasi. E lo faremo tutti insieme, tornando al lavoro, guadagnando il nostro stipendio e contribuendo con le donazioni all’esercito per sostenere lo sforzo militare degli uomini che combattono per il nostro futuro e la nostra libertà”, mi dice Anastasiya.

Quando ho sollevato la questione durante incontri successivi con persone impiegate in ambiti professionali diversi da quelli di Anastasiya, la risposta non è stata la stessa. “La propaganda russa funziona benissimo, ma quella ucraina ha poco da invidiare alle tecniche di manipolazione delle informazioni del Cremlino”. Chiedo chiarimenti. “Ci dicono che combatteremo fino all’ultimo ucraino, ma siamo davvero disposti a farlo? Sappiamo benissimo che i russi vogliono il riconoscimento della Crimea come parte del loro territorio, il Donbas è perso. Quale pace è possibile?”. Ho sentito più volte questa narrativa durante i miei incontri. Le persone con cui ho parlato mi hanno chiesto di restare anonime o di usare nomi di fantasia: fare affermazioni di questo tipo in pubblico non sarebbe permesso, né tantomeno aiuterebbe il mantenimento di una stabilità psicologica o della calma apparente nella capitale. “Se Kiev insorge, l’Ucraina cessa di esistere”, mi è stato ripetuto.

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Tra la varietà eterogenea di prospettive che ho ascoltato, tuttavia, una mi ha colpito particolarmente per via di un velo di allarmismo piuttosto manifesto: “Quando Zelenskij è stato trattato in quel modo nello studio ovale, per noi è divenuto chiaro che la guerra è persa. Potremmo anche smettere di combattere, ma nulla cambierebbe. Putin non ha vinto sul campo ma vuole una tregua, un cessate il fuoco, una sorta di pace per avere il tempo di ricostituire il suo apparato militare. Ma non si fermerà: è tra gli scenari peggiori, ma è uno scenario. E dopo l’Ucraina c’è l’Europa: questo l’hanno capito solo la Polonia e i Baltici”.

Una prospettiva che detta da un ucraino può sembrare catastrofica e condizionata da forti emozioni negative, ma che a livello politico e securitario rappresenta ciò di cui ci continuano ad ammonire lettoni, lituani, estoni e polacchi: l’Europa si deve armare e preparare al fatto che questo conflitto sul continente europeo potrebbe non essere l’ultimo. Senza garanzie di sicurezza per l’Ucraina, immaginare qualsiasi scenario diventa un compito arduo. Tanto più che la situazione sul campo è in stallo ma resta imprevedibile, e ancor più se si pensa che l’assenza di una netta vittoria al fronte da parte russa non le sta impedendo di trattare la pace con gli Stati Uniti da una posizione di forza. Gli ucraini si chiedono quale ruolo abbiano le loro richieste di sicurezza in questa partita di ping-pong che attualmente si sta giocando in Arabia Saudita, e provando ad indovinare il futuro sono preparati ad un eventuale cambio ai vertici governativi. Quel che è chiaro è che l’insediamento di Trump alla Casa Bianca ha svoltato nettamente la partita: non solo gli ucraini si trascinano un conflitto con i propri vicini di casa, con cui hanno condiviso decenni di storia sovietica e con cui praticamente in ogni famiglia ci sono legami di sangue. Ma si trovano a farlo avendo la sensazione di prostrarsi ad una leadership che oltreoceano ha tagliato gli aiuti militari, cancellato il supporto a livello di intelligence, e li mantiene sul filo del rasoio minacciando di staccare la spina di Starlink, l’unico strumento che ha permesso di mantenere stabili le comunicazioni al fronte. Mi tornano alla mente le ultime parole che mi ha detto Oleksandra prima di salutarci: “non è solo una guerra di valori, ma di sfere di influenza. Vogliamo l’Unione Europea perché è una garanzia di sicurezza, siamo consci che entrare nella NATO è una partita mai iniziata. Ma ciò che accade in Ucraina è una partita in cui noi siamo semplicemente l’effetto collaterale: saremo noi a pagarne le spese. Pensa solamente al fatto che pagheremo gli aiuti militari con un infinito drenaggio di risorse naturali, che verranno svendute se non regalate”.


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