Legittimo il sistema di “raffreddamento” della rivalutazione automatica delle pensioni


Analisi della sentenza n. 19/2025 della Corte Costituzionale


A cura di Avv. Giorgio Seminara

Indice: 1. Premessa; 2. Il caso; 3. La decisione della Corte; 4. Sul principio di ragionevolezza; 5. Sul principio di proporzionalità e adeguatezza; 6. Idoneità del modulo perequativo e finalità solidaristica della manovra; 7. Conclusioni

Premessa

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 19 del 14 febbraio 2025 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da alcune sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti sulla legge di bilancio per il 2023, “poiché nell’introdurre misure di “raffreddamento” della rivalutazione automatica delle pensioni superiori a quattro volte il minimo INPS, non ha leso i principi di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza posti a garanzia dei trattamenti pensionistici” (come si legge nel comunicato stampa del 14 febbraio 2025 della Corte stessa).
Con la sentenza n. 19 del 2025, depositata il 14/02/2025, la Corte costituzionale torna a pronunciarsi su uno dei temi più dibattuti della materia previdenziale: quello del bilanciamento tra l’interesse, costituzionalmente protetto, all’“adeguatezza” dei trattamenti e le scelte di finanza pubblica richieste per la garanzia della tenuta finanziaria del Paese.
La questione investe, in particolare, il profilo dell’adeguatezza della prestazione pensionistica non al momento del collocamento a riposo, quando avviene la sua prima quantificazione, ma rispetto ai mutamenti del suo valore monetario nel corso del tempo.
Da lungo tempo si discute circa la legittimità o meno di norme volte a modificare sfavorevolmente la disciplina di tali rapporti di durata, soprattutto in considerazione dell’essere il loro oggetto costituito da diritti soggettivi perfetti; possibilità non preclusa, purché sussistano “inderogabili esigenze” – quali quelle conseguenti a situazioni di grave crisi economica – che ne possano giustificare l’adozione.
Un principio, quest’ultimo, costantemente affermato dalla Corte che, fin dall’origine, ha affrontato il tema della perequazione pensionistica nei termini della dialettica tra garanzia di diritti fondamentali e rispetto degli equilibri finanziari; giungendo quasi sempre a legittimare le scelte restrittive adottate, di volta in volta, dal legislatore.
La sentenza n. 19 del 2025 non interrompe, oggi, questa serie, pronunciandosi la Corte a favore della norma contenuta nell’art. 1, comma 309, della legge 197 del 2022.

Il caso

Le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti per la Regione Toscana e per la Regione Campania hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale, complessivamente, dell’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022 (legge di bilancio per il 2023) e dell’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000 (legge finanziaria per il 2001), entrambe disposizioni che incidono sui meccanismi di adeguamento degli assegni pensionistici alle variazioni del costo della vita.
Nello specifico, l’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022, stabilisce che, per l’anno 2023, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici è riconosciuta integralmente solo per quelli complessivamente pari o inferiori a quattro volte il minimo INPS; per quelli superiori, invece, la rivalutazione viene accordata in misura decrescente: 1) 85 per cento per gli assegni pari o inferiori a cinque volte il minimo; 2) 53 per cento per quelli di importo compreso tra cinque e sei volte tale soglia; 3) 47 per cento per i trattamenti inclusi in una forbice tra le sei e le otto volte il suddetto limite; 4) 37 per cento per quelli rientranti nell’intervallo tra le otto e le dieci volte il medesimo livello; 5) 32 per cento per i trattamenti superiori a dieci volte il minimo.
Attualmente il meccanismo di rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici (c.d. perequazione) è disciplinato dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, il quale si prefigge di tutelare i trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, che tende a colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di inflazione.
Con effetto dal 1° gennaio 1999, il meccanismo di rivalutazione delle pensioni si applica ad ogni singolo beneficiario in funzione dell’importo complessivo dei trattamenti corrisposti a carico dell’assicurazione generale obbligatoria.
L’aumento della rivalutazione automatica opera, ai sensi del co. 1 dell’art. 34 citato, in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo.
Tuttavia, già con l’art 69, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 è stato previsto che il sistema di perequazione automatica dovesse trovare applicazione soltanto per i trattamenti pensionistici di importo fino a tre volte il minimo INPS.

Per i trattamenti più elevati, esso spetta nella misura:

  • del 90 per cento per le fasce di importo da tre a cinque volte il trattamento minimo INPS;
  • del 75 per cento per i trattamenti eccedenti il quintuplo del predetto importo minimo.

Questa impostazione è stata seguita in successivi interventi legislativi, nell’ambito dei quali, spesso, si è provveduto a bloccare e/o ridurre le percentuali di perequazione.
I ripetuti interventi di riduzione dell’indicizzazione delle pensioni all’inflazione hanno prodotto un serio danno per i pensionati in termini di perdita di potere d’acquisto data dal progressivo aumento della differenza tra le pensioni che si sarebbero ricevute se adeguate al 100% al corso dell’inflazione e quelle effettivamente erogate a seconda delle indicizzazioni effettuate dai vari governi.
Non pare fuor di luogo esporre, a tal proposito, il quadro normativo nel quale le pensioni medio-alte si muovono.
Ebbene, ripercorrendo succintamente le tappe più recenti della rivalutazione delle pensioni, e richiamando necessariamente i diversi interventi della Corte Costituzionale che si sono succeduti nelle ultime due decadi, ci si può avvedere agevolmente di quanto la stessa Corte abbia cercato in tutti modi di scongiurare il ripetersi delle misure che faccia emergere l’esistenza di una debolezza sistemica, difficilmente governabile per il tramite di interventi necessariamente temporanei, per di più operati soltanto sui redditi pensionistici <<ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro>> (così, Corte Cost., sentenza n. 116/2013).

Perciò, la Corte ha indirizzato un chiaro avvertimento al legislatore, sottolineando che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità. Le pensioni infatti, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto.
A partire dal 1998, in effetti, la legge finanziaria ha escluso, ancorché per un solo anno, dall’adeguamento con il costo della vita le pensioni d’importo superiore a cinque volte il trattamento minimo. La norma fu tuttavia “salvata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 372 del 1998 (e ordinanza n. 256/2001) proprio per il suo carattere eccezionale.
Per anni poi si è continuato ad applicare il meccanismo originario, fino al 2008, quando la legge finanziaria di allora (L. n. 247/2007) escluse, anche qui per un solo anno, l’adeguamento delle pensioni superiori a otto volte il trattamento minimo.

Nel 2012, l’abbattimento della rivalutazione ai danni dei pensionati si è ulteriormente manifestato sui redditi pensionistici, bloccando l’adeguamento per ben due anni con riferimento alle pensioni superiori a tre volte il minimo: questa volta, tuttavia, la Corte Costituzionale interveniva definendola illegittima, tanto che il governo successivamente sarebbe poi intervenuto per modificare – mitigandone gli effetti – la norma ottenendo così il placet della Consulta, espressasi nuovamente con la successiva sentenza n. 250 del 2017.
Con sentenza n. 234 del 2020 il Giudice delle leggi è intervenuto in relazione alle misure di contenimento della spesa previdenziale disposte dalla legge di bilancio 2019 a carico delle pensioni di elevato importo, dichiarando non fondate le questioni a proposito del “raffreddamento” triennale della rivalutazione automatica e, viceversa, accogliendole limitatamente alla durata quinquennale del contributo di solidarietà.
Si ricorderà che l’art. 1, comma 260, della legge n. 145 del 2018 stabiliva che, per il periodo 2019-2021, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici dovesse essere riconosciuta nella misura del 100 per cento soltanto per quelli complessivamente pari o inferiori a tre volte il minimo INPS, mentre, per quelli superiori alle tre volte, la rivalutazione andava riconosciuta in misura decrescente: 97 per cento per i trattamenti pari o inferiori a quattro volte il minimo; 77 per cento per i trattamenti superiori a quattro volte e pari o inferiori a cinque volte; 52 per cento per i trattamenti superiori a cinque volte e pari o inferiori a sei volte; 47 per cento per i trattamenti superiori a sei volte e pari o inferiori a otto volte; 45 per cento per i trattamenti superiori a otto volte e pari o inferiori a nove volte; 40 per cento per i trattamenti superiori a nove volte il minimo.

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Dopo un lungo periodo di tempo, il diritto alla rivalutazione “sulla carta” si sarebbe dovuto riconoscere integralmente a partire dall’anno 2022 (v. art. 1, co. 478, L. n. 160/2019), ma la novità è durata solo per un istante, posto che con la legge di Bilancio 2023, alla luce di un tasso d’inflazione piuttosto elevato che avrebbe comportato un esborso notevole per le casse delle Stato [secondo la BCE, l’inflazione complessiva nell’area dell’euro, misurata dall’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IAPC), si è collocata, in media, all’8,4 per cento nel 2022], la legislazione statale ha reintrodotto il seguente meccanismo di rivalutazione, confermandolo anche per il 2024:
• Al 100% del tasso di rivalutazione per gli assegni d’importo inferiore alle 4 volte il trattamento minimo;
• all’85% del tasso di rivalutazione per gli assegni tra le 4 e le 5 volte il trattamento minimo;
• al 53% del tasso di rivalutazione per gli assegni tra le 5 e le 6 volte il trattamento minimo;
• al 47% del tasso di rivalutazione per gli assegni tra le 6 e le 8 volte il trattamento minimo;
• al 37% del tasso di rivalutazione per gli assegni tra le 8 e le 10 volte il trattamento minimo;
• al 32% del tasso di rivalutazione per gli assegni superiori alle 10 volte il trattamento minimo.
Tenuto conto della normativa succitata, in tutti i giudizi principali, i ricorrenti hanno chiesto al giudice delle pensioni, per gli anni dal 2022 al 2024, l’accertamento del diritto (disconosciuto in sede amministrativa) alla rivalutazione integrale dell’assegno in godimento, nei primi due casi superiore a dieci volte il trattamento minimo e, nel terzo, di importo compreso tra le sei e le otto volte tale soglia di riferimento.

La decisione della Corte

In via preliminare, la Corte ha dichiarato inammissibili le questioni riferite all’art. 69, comma 1, legge n. 388 del 2000 per difetto di rilevanza, avendo ad oggetto disposizioni delle quali la Corte dei conti rimettente non sarebbe stata chiamata a fare applicazione nel giudizio principale.
Ed invero, la regola generale di raffreddamento della dinamica rivalutativa delle pensioni che il suddetto art. 69, comma 1, aveva introdotto a far data dal 1° gennaio 2001, è stata sostituita, a partire dal 1° gennaio 2022, dal meccanismo limitativo previsto dall’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019.
Affrontando nel merito le censure relative agli artt. 3, 36, comma 1 e 38, comma 2 Cost., la Corte svolge un percorso argomentativo che si rivela tutt’altro che lineare, sovrapponendo una molteplicità di considerazioni e rendendo così assai problematica l’individuazione della ratio decidendi della pronunzia.
In buona sostanza, la Corte richiama i principi già espressi con la sentenza n. 234/2020 con quale aveva confermato la validità di un analogo meccanismo perequativo operativo nel triennio 2019-2021.
In primo luogo, la pronuncia in commento ha ricordato che la perequazione automatica è uno strumento di natura tecnica volto a garantire nel tempo l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici a fronte delle spinte inflazionistiche, nel rispetto dei principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, che però non implicano un rigido parallelismo tra la garanzia di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. e quella di cui all’art. 36, primo comma, Cost. (così anche le sentenze n. 250 del 2017 e n. 173 del 2016).
La garanzia della perequazione, spiegano i Giudici delle leggi, non annulla la discrezionalità del legislatore nella determinazione in concreto del quantum di tutela di volta in volta necessario, alla luce delle risorse effettivamente disponibili (v. anche sentenza n. 316 del 2010 e ordinanza n. 256 del 2001)
Non sussiste, del resto, un imperativo costituzionale che imponga l’adeguamento annuale di tutti i trattamenti pensionistici, purché la scelta contraria superi uno scrutinio di “non irragionevolezza”, calato nel contesto giuridico e fattuale nel quale la misura si inserisce (cfr. sentenza n. 250 del 2017 e n. 316 del 2010, ordinanza n. 96 del 2018).
In secondo luogo, la Corte ribadisce che il principale indicatore della «non irragionevolezza» dell’opzione legislativa è costituito dalla considerazione differenziata dei trattamenti di quiescenza in base al loro importo (v. sentenze n. 316 del 2010 e n. 250 del 2017).
Ebbene, secondo la Corte la misura introdotta dall’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022 non risulta rompere gli argini fissati a garanzia dei principi costituzionali evocati.
A tal riguardo, la prima fase del percorso argomentativo della Consulta si sviluppa attraverso un confronto delle modalità di raffreddamento della perequazione automatica delle pensioni introdotte dalla normativa impugnata con quelle presenti nella legislazione precedente. Da tale quadro di riferimento risulta alla Corte un orientamento che predilige la tutela delle fasce più deboli, in cui cioè, soltanto le fasce più basse sono integralmente tutelate dall’erosione del rispettivo potere di acquisto.
Dopo aver ricostruito il quadro legislativo che si è alternato nel tempo per fissare i criteri di rivalutazione dei trattamenti pensionistici, la Corte passa ad esaminare il meccanismo censurato e rileva come quest’ultimo sia meno severo della maggior parte di quelli oggetto degli interventi legislativi precedenti, che hanno superato il vaglio di legittimità costituzionalità; nondimeno, tale modulo di “raffreddamento” risulta “certamente meno favorevole per le pensioni di consistenza economica superiore alle quali, tuttavia, non è stato applicato (come avvenuto nella precedente occasione, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 261, della legge n. 145 del 2018) alcun “contributo di solidarietà” aggiuntivo” (v. par. 12.1, Considerato in diritto).
Nel caso in esame, in realtà, il confronto doveva essere fatto tra le leggi di bilancio 2023 e 2024, che hanno peggiorato in modo significativo il meccanismo di rivalutazione, e l’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019. In tal caso, la Corte si sarebbe accorta del ritorno al meccanismo più iniquo e sfavorevole per importi complessivi; in particolare, la legge di bilancio 2024 ha introdotto un peggioramento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a 10 volte il trattamento minimo Inps lordo: per queste pensioni la rivalutazione è scesa dal 32% al 22% (v. art. 1, commi 134 e 135, L. n. 213/2023).
Una ulteriore penalizzazione che finirà col pesare, non poco, sul bilancio delle famiglie, soprattutto di quelle il cui unico reddito è dato dalla pensione in godimento.
Ad avviso della Corte, invece, i parametri sopra evocati sono stati rispettati, anche se la misura in esame “costituisce l’ultimo anello di una catena di interventi analoghi che ha registrato poche soluzioni di continuità nel tempo” (v. par. 12.3, Considerato in diritto). Infatti, la lettura offerta dai rimettenti del monito lanciato dalla Consulta con la sentenza n. 316/2010 – secondo cui “la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità″ – sarebbe inconferente.
E proprio alla luce di quest’ultimo passaggio, può dirsi che la sentenza n. 19/2025 era, in qualche misura, annunciata: perché il monito lanciato con la sentenza n. 316 del 2010, come ci ricorda la Corte stessa, “collide con il dato di fatto che il meccanismo qui scrutinato non comporta «l’effetto di paralizzare, o sospendere a tempo indeterminato, la rivalutazione dei trattamenti pensionistici, neanche di quelli di importo più elevato, risolvendosi viceversa in un mero raffreddamento della dinamica perequativa, attuato con indici graduali e proporzionati»” (v. par. 12.3, Considerato in diritto).
I giudici delle leggi, insomma, con la pronuncia n. 234 del 2020 avevano già tracciato al legislatore il percorso delle scelte da effettuare in una materia caratterizzata, sempre più, da una logica (più che acquisitiva di benefici) distributiva di sacrifici, e da un crescente richiamo alla solidarietà (anche) dei pensionati più abbienti per garantire la tenuta finanziaria del sistema.
In quest’ottica, una misura diventerebbe irragionevole e, pertanto, ingiustificabile solo laddove dovesse intervenire sotto forma di blocco totale dell’indicizzazione per lunghi periodi, su trattamenti pensionistici non particolarmente elevati.
Per i giudici costituzionali, dunque, le misure simili effettuate in precedenza non limitano la possibilità di intervento del legislatore, a condizione che vi sia una valida giustificazione e sia prevista una durata proporzionata, che la Corte non dice, ma non potrebbe essere superiore all’ordinaria proiezione triennale del bilancio di previsione dello Stato.
La tesi che esclude, nel quadro dello scrutinio di legittimità, la rilevanza della ripetizione delle misure di riduzione della rivalutazione si basa sulla mancanza di identità formale delle singole fattispecie (leggi diverse, differenti periodi di applicazione, saltuarie interruzioni, diversi scaglioni ed aliquote, etc.).
Tale impostazione, però, non tiene conto degli effetti delle riduzioni della rivalutazione, tutte perdite subite (mancati incrementi) a carico di una ristretta categoria di cittadini, effettuate per periodi consecutivi o a cadenza ravvicinata.
Peraltro, su tale questione, la Corte costituzionale ha più volte sottolineato che le carenze del sistema previdenziale non sono sanabili nel giro di pochi anni. Infatti, “occorre evidenziare l’esistenza di una «debolezza sistemica» difficilmente governabile per il tramite degli interventi necessariamente temporanei, per di più operanti soltanto su redditi pensionistici ormai consolidati” (v. sentenza n. 234/2020, par. 18.12).

Sul principio della ragionevolezza

Secondo la Corte costituzionale, il meccanismo legislativo censurato non è irragionevole perché salvaguarda integralmente le pensioni di più modesta entità e, per un periodo limitato, riduce progressivamente la percentuale di indicizzazione di tutte le altre al crescere degli importi dei trattamenti, in ragione della maggiore resistenza delle pensioni più elevate rispetto agli effetti dell’inflazione.
Insomma, la rivalutazione viene prevista – sebbene in percentuali ridotte, ma non certo simboliche – anche per i trattamenti di più elevata entità.
Tuttavia, alle pensioni oltre le 10 volte il minimo la rivalutazione è stata riconosciuta in misura decrescente e, comunque, non progressiva del 32% per l’anno 2023 e del 22% per l’anno 2024.
Una riduzione, quindi, che diventa economicamente “insopportabile” oltre le dieci volte (annullando di fatto la rivalutazione con una perdita secca piuttosto significativa).
Basti pensare, infatti, che una pensione d’importo superiore alle dieci volte il trattamento minimo, quindi sopra i 5.253,80 euro, anziché godere di una rivalutazione al 75% del tasso dovrà “accontentarsi” di un 32%-22% di detta somma.
Una magra consolazione, questa, che certamente non ripaga il pensionato delle tante tensioni, ansietà e frustrazioni che da tempo lo affliggono vedendo diminuire giorno dopo giorno il “valore” della propria pensione a fronte di aumenti, costanti e generalizzati, dei prezzi dei beni e servizi destinati al consumo delle famiglie.
La Corte sottolinea anche come questo meccanismo venga applicato per un periodo limitato, senza avvedersi però che tale periodo inizia a essere ormai ben poco limitato, considerando che per il governo sembra diventata un’abitudine, come dimostrato anche dall’ultima manovra che per il 2025 prevede una rivalutazione parziale degli assegni per i trattamenti superiori a quattro volte il minimo.
Ad ogni modo, l’operato del legislatore è stato assolto, appellandosi i giudici delle leggi ai due limiti classici che condizionano i dicta della Corte: la discrezionalità del legislatore e il necessario rispetto delle esigenze di bilancio.
A differenza di quanto sostenuto dai giudici rimettenti, infatti, le ragioni delle scelte legislative in rapporto alla situazione generale della finanza pubblica emergerebbero chiaramente dalle relazioni, sia illustrativa sia tecnica, che accompagnano il disegno di legge di bilancio per il 2023. In pratica, viene individuata una precisa scelta legislativa di redistribuire il complesso delle risorse disponibili a vantaggio dei trattamenti di importo più basso.
Per la Corte, le opzioni politiche sottese alla manovra, come illustrato negli atti parlamentari, mirano invero a rispondere alle difficoltà sociali cagionate da una forte e imprevedibile spinta inflazionistica causata da tensioni geopolitiche, che ha portato a un brusco innalzamento dei prezzi di servizi irrinunciabili connessi al mercato dell’energia, in un contesto economico generale ancora caratterizzato dalla necessità di uscire dalla grave crisi economica determinata dalla pandemia da COVID-19.
In questo complessivo contesto, la Corte non può far a meno di evidenziare il carattere “strutturale” della manovra, osservando che “gli effetti della misura, pur se di applicazione limitata (originariamente ad un biennio e poi) ad un anno, si proiettano anche al di là dell’orizzonte triennale della manovra, come è reso evidente dall’indicazione delle «economie in termini di minore spesa pensionistica» previste fino all’anno 2032 e ammontanti, al lordo degli effetti fiscali, a circa 54 miliardi di euro” (v. par. 12.2, Considerato in diritto).
Appare discutibile, dunque, la riconduzione della valutazione della misura nell’ambito temporale del bilancio triennale.
In effetti, dalla sentenza emerge un tipo di bilanciamento anomalo che contrappone con successo la forza del quadro triennale del bilancio stabilito con legge ordinaria gli interessi costituzionalmente protetti presenti nel giudizio, attribuendo implicitamente a norme di una fonte ordinaria la prevalenza rispetto alle disposizioni della Carta che tutelano detti interessi.
Grazie al «raffreddamento» della rivalutazione delle pensioni, il governo per il triennio 2023-2025 realizzerà una minore spesa che «al netto degli effetti fiscali» è «pari a circa 2,1 miliardi nel 2023, 4,1 miliardi nel 2024 e 4 miliardi nel 2025».
La relazione illustrativa del disegno di legge di bilancio in parola, peraltro, individua anche ulteriori interventi che la misura in esame contribuisce a finanziare.
Alcuni di essi si collocano nel medesimo ambito previdenziale, quali: – la proroga di istituti che favoriscono il pensionamento anticipato, come la cosiddetta “quota 103” (commi da 283 a 285 dell’art. 1 della legge n. 197 del 2022); – l’indennità cosiddetta “ape sociale” (commi da 288 a 291); – la cosiddetta “opzione donna” (comma 292).
A ciò si aggiunge il sussidio una tantum per le pensioni minime, al fine di contrastare gli effetti negativi delle tensioni inflazionistiche (comma 310).
Altri interventi, pur estranei al circuito previdenziale, rientrano comunque nel più ampio settore “lavoro, famiglia e politiche sociali” (di cui al Titolo IV dell’originario disegno di legge, comprendente anche la misura oggetto dell’odierno scrutinio): – la maggiorazione del 50 per cento, a decorrere dal 1° gennaio 2023, dell’assegno unico universale, al ricorrere di certe condizioni (commi 357 e 358); – l’incremento dell’indennità per congedo parentale (comma 359); – il riordino delle misure di sostegno alla povertà e dirette all’inclusione lavorativa (commi da 313 a 321), eccetera.
Questo approccio è stato ritenuto coerente con le finalità di politica economica, chiaramente emergenti dai lavori preparatori e legittimamente perseguite, volte a contrastare anche gli effetti di una improvvisa spinta inflazionistica incidente soprattutto sulle classi sociali meno abbienti.
Anche se la sentenza conferma la discrezionalità del legislatore nel bilanciare la sostenibilità del sistema previdenziale con la tutela del potere d’acquisto dei pensionati, sullo sfondo resta il dubbio sulla possibile violazione del principio di progressività fiscale sancito dalla Costituzione (art. 53 Cost.).

Sul principio di proporzionalità e adeguatezza

Non è certo questa la sede per ricostruire la complessa e non sempre lineare giurisprudenza costituzionale in cui la Corte – nel tentativo di riempire di contenuto il principio dell’adeguatezza dei mezzi alle esigenze di vita, principio in sé aperto e che lascia al legislatore ampia libertà nell’attuazione delle finalità con esso perseguite – ha, seppure con diverse prospettazioni, richiamato il collegamento esistente tra gli artt. 36 e 38 Cost.3; ciò sempre nella consapevolezza che tale lettura sinergica si realizzi alla luce dei principi di cui agli artt. 2 e 3 Cost..

Ed in effetti, che debba sussistere una qualche corrispondenza tra retribuzione e pensione, la Corte lo ha affermato da molti anni; la lettura sistematica di tali norme, costantemente proposta dai giudici delle leggi, certamente esclude che il livello del trattamento previdenziale adeguato possa ignorare del tutto la posizione economica e sociale raggiunta dal soggetto interessato. Anzi. In più occasioni – per lo più, si sottolinea, per situazioni riguardanti dipendenti del settore pubblico – è stato ribadito come dai suddetti articoli derivi una particolare protezione del lavoratore, nel senso che il suo trattamento di quiescenza, al pari della retribuzione percepita in costanza del rapporto di lavoro, del quale lo stato di pensionamento costituisce un prolungamento ai fini previdenziali, deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e deve, in ogni caso, assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia mezzi adeguati alle esigenze di vita per una esistenza libera e dignitosa. E tuttavia da ciò non discende che i livelli del trattamento previdenziale e delle retribuzioni debbano coincidere, né che debba sussistere un costante adeguamento del primo al mutevole potere d’acquisto della moneta, restando la commisurazione del trattamento al reddito percepito in costanza del rapporto di lavoro rimessa alle determinazioni discrezionali del legislatore, “le quali devono essere basate sul ragionevole bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti nell’attuazione graduale di quei principi” (cfr. Corte cost. n. 226/1993; nei medesimi termini, v. sentenza n. 208/2014).

A seguito della decisione della Corte va ricordato che il trattamento pensionistico degli assegni più elevati viene ridotto sine die. La mancata rivalutazione, infatti, non interessa solo le annualità in cui è scattata la riduzione, cioè gli anni 2023 e 2024, ma si trascina in modo strutturale in tutti gli anni successivi sino al decesso del pensionato con effetti residuali anche per i superstiti. Il blocco parziale della rivalutazione riduce, infatti, la base del rateo pensionistico su cui ogni anno si applica la perequazione dell’assegno e, pertanto, l’importo messo in pagamento risulta ogni anno inferiore rispetto al dovuto.
Insomma, l’operazione ha prodotto un effetto definitivo ma invisibile sui redditi pensionistici intaccandone il potere di acquisto in modo strutturale.
La sentenza n. 19/2025 non spende alcuna parola sulla poderosa e ampiamente dibattuta problematica dell’effetto di “trascinamento”.
A ben vedere, i ripetuti interventi di riduzione dell’indicizzazione delle pensioni all’inflazione hanno prodotto un serio danno alle pensioni medio- alte in termini di perdita di potere d’acquisto data dal progressivo aumento della differenza tra le pensioni che si sarebbero ricevute se adeguate al 100% al corso dell’inflazione e quelle effettivamente erogate a seconda delle indicizzazioni effettuate dai vari governi.
Con particolare riguardo all’effetto di “trascinamento”, la Corte ha semplicemente osservato che il principio di adeguatezza enunciato dall’art. 38, secondo comma, Cost. risulta rispettato “allorquando anche i trattamenti più elevati beneficiano di una sia pur ridotta perequazione”.
La Corte, pur riconoscendo perdite subite dai pensionati a causa della rivalutazione non integrale, rimanda al legislatore la possibilità di considerare questi effetti: “Nulla esclude, peraltro, che il legislatore possa tener conto della perdita subita, nel calibrare la portata di eventuali successive misure incidenti sull’indicizzazione dei trattamenti pensionistici” (v. par. 12.3.1, Considerato in diritto).
Il legislatore, però, non ha tenuto conto delle perdite subite (stimate in circa 37 miliardi a regime) che quindi non verranno compensate; infatti, ha confermato la mancata rivalutazione anche per il 2025.
La Consulta, in precedenti occasioni, ha indicato una pluralità di requisiti richiesti di cui tener conto per valutare la legittimità delle misure (contributo, blocco, sospensione, riduzione) adottate dal legislatore, tra i quali, il carattere di misura del tutto eccezionale, contingente, straordinaria, temporalmente circoscritta (nel senso che non può essere ripetitiva e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza), comunque utilizzata come misura una tantum e rispettosa del principio di proporzionalità.
Il confronto diretto con dette indicazioni è stato schivato grazie al carattere di scrutinio limitato alla proiezione triennale del bilancio.
Ad ogni modo, il principio di proporzionalità resta ineludibile ed operante indipendentemente dall’ambito temporale di riferimento e idoneo a condurre verso la fondatezza del dubbio di costituzionalità.
Sotto questo profilo non si rinvengono le ragioni per le quali sia stato ritenuto equilibrato il rapporto del mezzo (imposizione del pesante onere) al fine (apprezzabili vantaggi di soggetti più deboli).
La Corte ha trascurato di valutare la misura dei possibili benefici conseguenti alla riduzione della rivalutazione che, a fronte della minor spesa pensionistica, da un lato, impone forti sacrifici ai soggetti incisi e, dall’altro, produce un vantaggio simbolico e irrisorio per tutta la nutrita platea dei potenziali destinatari dell’iniziativa legislativa, che rivela piuttosto una inefficacia strumentale del meccanismo legislativo censurato.
Un intervento presentato come equitativo e riequilibrato non può limitarsi a realizzare la sola parte ablativa del progetto. La pars destruens non può non essere accompagnata da una adeguata pars construens a meno di non compromettere la ragionevolezza e la proporzionalità dell’intervento.
La giurisprudenza ha concepito una sorta di test di proporzionalità che esplora il rapporto costo- benefici come elemento rilevatore dei requisiti di ragionevolezza e proporzionalità propedeutico allo scrutinio di costituzionalità.
Nella logica assolutoria della sentenza, indulgente nei confronti del legislatore, il criterio del bilanciamento dei contrapposti interessi di rango costituzionale concretamente adottato dal legislatore sembra rimasto privo di evidenza.

Idoneità del modulo perequativo e finalità solidaristica della manovra

Secondo la Corte, le opzioni politiche sottese alla manovra risultano giustificate anche in ragione della chiara finalità solidaristica ad esso sottesa, fungendo da contrappeso all’espansione della spesa pensionistica cagionata “da una forte e imprevedibile spinta inflazionistica”.
Insomma, tra i principi fondanti della nostra Costituzione assume centralità l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Solidarietà che, ai fini dell’argomento che stiamo trattando, interpella chi ha di più perché sostenga chi è svantaggiato e ha di meno.
La motivazione addotta dalla Corte appare però di stampo politico – sociologico, poiché in tal modo il principio dell’affidamento, corollario del principio di certezza del diritto, quale valore primario del diritto inteso a garantire la sicurezza giuridica, viene in sostanza depotenziato a situazione soggettiva sacrificabile in nome di una generica “consapevolezza” della realtà economico-sociale del momento, che potrebbe altrettanto genericamente pregiudicare non solo i pensionati, ma la generalità dei titolari di diritti acquisiti.
A modesto avviso dello scrivente, la limitazione al sistema perequativo automatico delle pensioni di cui alla L. n. 197/2022 assume il significato, non tanto di riequilibrare in senso solidaristico il sistema previdenziale, quanto di operare un mero risparmio di cassa.
Secondo la Consulta, invece, si tratta di una precisa scelta legislativa di redistribuire il complesso delle risorse disponibili a vantaggio dei trattamenti di importo più basso, trattandosi di interventi che non possono essere qualificati «di minore pregnanza costituzionale» (quota 103, ape sociale, opzione donna, sussidio una tantum per le pensioni minime, assegno unico universale, indennità per congedo parentale, misure di sostegno alla povertà e diretti all’inclusione lavorativa, eccetera).
In particolare, la pronuncia collega la disposizione censurata ad altre disposizioni, come la cosiddetta “quota 103” (commi da 283 a 285 dell’art. 1 della legge n. 197 del 2022), l’indennità cosiddetta “ape sociale” (commi da 288 a 291), la cosiddetta “opzione donna” (comma 292) e altri interventi nel più ampio settore “lavoro, famiglia e politiche sociale”. Ne deduce poi, la sentenza, che il quadro normativo evidenzia interventi che non possono essere qualificati «di minore pregnanza costituzionale» e che rientrano nella piena discrezionalità del legislatore, il quale può “stabilire nel concreto le variazioni perequative dell’ammontare della prestazione, attraverso un bilanciamento di valori che tenga conto anche delle esigenze di bilancio, poiché l’adeguatezza e la proporzionalità incontrano pur sempre il limite delle risorse disponibili” (v. par. 12.2., Considerato in diritto).
Si osserva, a questo riguardo, che la norma sul raffreddamento della perequazione (comma 309) non fissa questo collegamento, in quanto prevede solo un sussidio una tantum per le pensioni minime, al fine di contrastare gli effetti negativi delle tensioni inflazionistiche (comma 310).
Si fa dire pertanto alla legge ciò che la legge non dice.
Ad ogni modo, se il fine perseguito dall’istituto della perequazione, pur coi limiti e le contraddizioni che lo contraddistinguono, è essenzialmente quello di tutelare il trattamento pensionistico limitandone, per quanto possibile, l’incidenza dell’erosione inflazionistica, ogni intervento finalizzato a limitare o ridurre l’adeguamento in interesse comporta, di fatto, un impoverimento delle pensioni in godimento con una perdita economica annua, costante e crescente, per tutto il periodo in cui il pensionato continuerà a percepire il trattamento pensionistico, con ripercussioni, financo, sulla misura della pensione di reversibilità, ove successivamente spettante ai superstiti.
Ed è proprio questo il punto fondamentale trascurato dalla Corte, in quanto la norma oggetto di censura è stata preceduta da una quantità di interventi di blocco o limitazione (solo apparentemente) temporanei dell’indicizzazione tale da imporre una decurtazione che assume, oggi, carattere non più transeunte, ma definitivo.
Si tratta, infatti, di una misura ablativa permanente e assai gravosa, proprio perché ormai prolungata per oltre un decennio, anche per i trattamenti più elevati del minimo INPS, che dovrebbero presentare un maggiore margine di resistenza all’inflazione.
Con particolare riferimento al modulo di “raffreddamento” in esame, quindi, la Corte costituzionale non argomenta in modo approfondito intorno al principio dell’affidamento, ossia un patto implicito tra ordinamento e singolo cittadino circa la sua immutabilità unilaterale, ma si sofferma invece su valutazioni di equità del sistema previdenziale, che però non trovano riscontro nella norma, ma ciò nondimeno vengono presunte dalla Corte.
La Corte reputa piuttosto non necessario combattere la pressione inflazionistica con provvedimenti di raffreddamento della dinamica perequativa, “bastando che il legislatore illustri in dettaglio le finalità di politica economica che intende di volta in volta perseguire, selezionandole alla luce delle risorse disponibili, e che le misure adottate appaiano coerenti con tali finalità” (cfr. 13.2, Considerato in diritto).
La perequazione ormai non è più una variabile dell’inflazione, è diventata progressivamente una funzione al servizio di misure assistenziali e delle ricorrenti sperimentazioni pensionistiche.
In una visione più generale si dovrebbe evitare il sorgere ed il consolidarsi di certi orientamenti secondo cui sia consentito imporre sacrifici, più o meno pesanti, ad una cerchia ristretta di soggetti senza vantaggi apprezzabili per altri interessi protetti.
Diverso sarebbe il giudizio qualora, nell’ambito delle scelte politiche discrezionali del legislatore, i sacrifici fossero distribuiti tra tutti i cittadini con metodo progressivo in relazione al reddito individuale di ciascuno.
Del resto, all’iniziativa politica di “raffreddamento” della rivalutazione delle pensioni maggiori non è estranea una componente ideologica che fa pensare che lo scopo primo non sia tanto quello del soccorso al sistema previdenziale ed ai suoi soggetti più deboli, quanto quello di colpire le pensioni più alte ritenute ingiustificato privilegio.
Dall’analisi dei meccanismi di “raffreddamento” della rivalutazione emerge, più che un fine diretto a soddisfare interessi pubblici, una netta preferenza per determinate categorie di cittadini, prescindendo dagli effetti positivi delle iniziative a loro carico.
Si coglie, piuttosto, un atteggiamento contrario al successo professionale ed al benessere economico, raggiunti dopo anni di impegno e di lavoro con ruoli di alta responsabilità. Si guarda solo quanto il pensionato guadagna e non ci si pone neppure la domanda del perché si è maturata una certa pensione: come dire, si scatta una istantanea, un flash invece di srotolare una pellicola e guardare tutto il film!
A tal riguardo, la Corte non ha fugato i dubbi sulla costituzionalità di norme retroattive che incidono sui diritti dei pensionati, salvo il richiamo alle esigenze legate alla crisi del sistema previdenziale che vengono presentate come munite di una preponderanza assoluta, “tirannica”, nel bilanciamento con altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette presenti nel giudizio come, tra le altre, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica di situazioni legittimamente maturate e consolidate.
L’importo elevato della pensione, avulso da qualsiasi considerazione su come si sia generato, sembra assumere connotazioni negative. In sostanza, sta passando il pericoloso messaggio secondo cui i percettori di pensioni più alte sono privilegiati, senza considerare i contributi da quest’ultimi versati, il riconoscimento dei meriti, l’impegno negli studi e nel lavoro per costruire valore economico e sociale.
In verità, la perequazione dovrebbe essere uniforme, cioè indipendente dall’importo della pensione. Difatti, la perequazione differenziata, minore per le pensioni più alte, è incoerente con la regola di calcolo perché appiattisce le differenze da questa volute in ragione della definizione di “merito” adottata (che nel sistema contributivo fa riferimento ai contributi versati).
Ad avviso dei giudici rimettenti, questa ingiusta disparità rischia di disincentivare il lavoro regolare e la crescita professionale, minando il principio di meritocrazia. La pensione più alta non può quindi essere interpretata come una sorta di “grande regalo” delle leggi, ma va rapportata al passato, cioè al lavoro svolto dal pensionato quando era in servizio.
Tale tesi non convince la Consulta, risolvendosi in una mera petizione di principio l’affermazione secondo cui la rivalutazione integrale delle pensioni più alte, di per sé sola, produrrebbe l’effetto di disincentivare il lavoro “in nero” e di incrementare finanche l’occupazione femminile: “La censura non si confronta, infatti, in alcun modo con il peso che normalmente rivestono altri motivi che possono sorreggere scelte individuali di questo tipo. Queste ultime possono essere legate, ad esempio, alla difficoltà delle nuove generazioni a trovare occupazioni corrispondenti alle proprie aspirazioni e retribuite in modo adeguato ai propri percorsi di vita, nonché all’intollerabile ritardo con il quale si va colmando il divario di genere (gender gap) proprio in materia retributiva. Preoccupazioni che attengono, quindi, allo sviluppo della stessa vita lavorativa attiva, più che al destino pensionistico” (cfr. sentenza n. 19 del 2025, par. 13.5 del Considerato in diritto).
In ogni caso, il legislatore non può, come regola aurea, intervenire ad nutum per diminuire il diritto quesito dei pensionati, specie se in assenza di una revisione razionale e ragionevole del sistema delle pensioni.
Le reiterate riduzioni del meccanismo perequativo finiscono per disconoscere l’incidenza della erosione inflazionistica su redditi da pensione con gravi ripercussioni sulle economie delle famiglie.
Resasi conto di tale evenienza, la Corte mette sull’avviso il legislatore, puntualizzando – a mo’ di monito – che non può esimersi dal sottolineare i vantaggi che deriverebbero da una «disciplina più stabile e rigorosa» del meccanismo di perequazione delle pensioni: “Del resto, l’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019 ha già dettato una regola che, in ossequio alla durata indeterminata espressamente conferitale, dovrebbe essere interessata con estrema prudenza da cambiamenti improvvisi, incidenti in senso negativo sui comportamenti di spesa delle famiglie”.
Indicazione, questa, disattesa dal legislatore, che ha continuato a ridurre la rivalutazione, vanificando anche la funzione previdenziale di tale meccanismo, poiché contrasta con la particolare esigenza di tutela avvertita dal pensionato al termine dell’attività lavorativa.

Conclusioni

Tirando le fila del discorso, la Corte ha con nettezza riaffermato il principio per cui la garanzia costituzionale della adeguatezza e della proporzionalità del trattamento pensionistico, presidiato proprio dallo strumento della perequazione automatica, incontra il limite delle risorse disponibili.
Il giudizio cui perviene la Corte può essere così sintetizzato: non sussiste un diritto costituzionale alla perequazione a cadenza annuale, né all’aggancio costante delle pensioni alle retribuzioni, soprattutto quando le pensioni per il loro importo piuttosto elevato, presentano margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo; è questo il caso dei trattamenti pensionistici incisi dalla norma impugnata, che si sono rivelati  comunque idonei, in ragione della consistenza dei loro importi, a realizzare una tutela adeguata.
Il ragionamento sviluppato nella parte motiva della sentenza appare foriero di ipotesi peggiorative della situazione futura dei pensionati incisi dalle misure in corso.
In questa ottica si avanza l’ipotesi non peregrina che in occasione di ogni bilancio, in relazione alla crisi permanente del settore previdenziale, il legislatore predisponga un appuntamento ablativo per le pensioni più alte.
Quali, a questo punto, le implicazioni derivanti dall’impianto motivazionale fin qui sinteticamente richiamato? In queste prime e brevi note possono appena accennarsi alcuni spunti di riflessione, sui quali ci si riserva approfondimenti successivi.
Le modifiche apportate al sistema perequativo sono certamente la causa degli insostenibili divari che si sono venuti a creare tra pensioni e retribuzioni. Se l’esigenza di porre un freno alla spesa pubblica comportava la necessità di introdurre tagli alle pensioni, il sacrificio del potere d’acquisto dei pensionati avrebbe dovuto essere una conseguenza di una misura eccezionale, finalizzata a superare il momento di crisi e non cristallizzarsi su una regola divenuta ormai standard, ovvero ridurre ogni anno la indicizzazione delle pensioni medio-alte.
In linea generale non può farsi a meno di cogliere i segni di una logica non del tutto lineare nello svolgersi del ragionamento complessivo che culmina nell’effetto finale della dichiarazione di non fondatezza della questione di legittimità dell’art. 1, comma 309, legge n. 197 del 2022.
Il punto cardine sul quale poggia la linea argomentativa della sentenza è il limite temporale del bilancio triennale dello Stato, periodo entro il quale ogni intervento deve essere scrutinato nella sua singolarità ed in relazione al quadro storico in cui si inserisce. Si confina così la valutazione del “raffreddamento” della rivalutazione nei limiti dell’ordinaria scansione temporale del ciclo del bilancio triennale in cui vengono definite le esigenze e le misure finanziarie ritenute necessarie per quel periodo.
Il riferimento ad un “quadro storico” avrebbe dovuto comportare un orizzonte temporale ben superiore ad un triennio: la “storia” delle limitazioni della rivalutazione è andata e va assai oltre la vigenza temporale di un singolo bilancio triennale.
Sembra di essere di fronte ad una artificiosa frammentazione del continuum del tempo e della storia in segmenti indipendenti refrattari ad ogni influenza degli eventi verificatisi in precedenza.
Compare una forma, non nuova, di sottile ostinazione a considerare il succedersi dei prelievi, blocchi e riduzioni della rivalutazione nel tempo come elemento ininfluente di valutazione. Limitando ad un biennio e/o triennio l’esame della misura ablativa è agevole sostenere la tollerabilità di una misura restrittiva di durata relativamente breve su pensioni ritenute con sufficiente capacità di resistenza e la sua ragionevolezza e adeguatezza a fronte della perdurante prevalenza delle esigenze di garanzia del sistema previdenziale nel complessivo scrutinio di costituzionalità.
La tesi che esclude, nel quadro dello scrutinio di legittimità, la rilevanza della ripetizione dei contributi si basa sulla mancanza di identità formale delle singole fattispecie (leggi diverse, differenti periodi di applicazione, saltuarie interruzioni, diversi scaglioni ed aliquote, ecc.). Nondimeno, tale impostazione non tiene conto dell’essenza fondante di tutti prelievi coattivi (contributi, blocchi, sospensioni, raffreddamenti) per esigenze pubbliche previdenziali a carico di una ristretta categoria di cittadini, effettuati per periodi consecutivi o a cadenza ravvicinata per oltre due decenni (dal 2000 i trattamenti sono stati decurtati per sedici anni su venti con prelievi di varia denominazione e misura).
Da questa valutazione è agevole dedurre che la perdurante debolezza del sistema previdenziale continuerà a comportare, in mancanza di una rivisitazione organica del sistema, una assidua e facile attenzione del legislatore nei confronti dei maggiori redditi di pensione con interventi impropriamente sostitutivi della fiscalità generale.
È necessario, allora, ripensare un sistema di welfare costruito su una più equa e ponderata ripartizione delle sempre più esigue risorse disponibili, nell’ottica del loro solidaristico riorientamento anche a salvaguardia delle “nuove” generazioni.
In definitiva, la sistemazione delle finanze previdenziali non potrà raggiungersi se non con una sua riforma organica del sistema.
È probabile che, fino ad allora, alla categoria dei pensionati con trattamenti maggiori resterà solo un ruolo obbligatorio di potenziale cassa di riserva, peraltro con effetti pressoché irrilevanti per il complesso delle esigenze previdenziali.