Con quanta consapevolezza si è sempre più parlato, recentemente, di “populismo”? Attraverso un sintetico sguardo sulle origini storiche della definizione e sulle ragioni che oggi continuano a sostenerne l’esistenza, si cerca di fornire un possibile ritratto del fenomeno “dai mille volti”.
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Dare una definizione compiuta del termine populismo è complicato, almeno tanto quanto parlare di “democrazia” in generale senza tener conto delle rilevanti differenze che separano una c.d. “democrazia popolare”, da una “liberal-democrazia”, con tutte le conseguenze negative che ciò comporterebbe. Non a caso i due termini sono strettamente connessi tra di loro sul piano “pratico”, (da intendersi quale riferimento al momento “attuativo” delle complesse definizioni teoriche), connessione che se si vuole, si può constatare già dal punto di vista etimologico, contenendo entrambi i termini il riferimento alla parola “popolo” (precisamente “–demos” per quanto riguarda “democrazia”).
Tuttavia, è più giusto “accompagnare” il concetto di populismo con il termine “demagogia” (per l’appunto, lo si è indicato come “populismo demagogico”), piuttosto che parlare di populismo “democratico”, e ciò determina già una prima, necessaria, constatazione “logica”: la demagogia, secondo la teoria filosofica greca del “movimento circolare” (“anakuklosis”) , starebbe a rappresentare quel momento in cui dal governo “democratico assoluto” si passa, (in forza della inevitabile degenerazione propria a tutte le forme di governo “pure”), al governo demagogico, o dei “demagoghi”, ovvero di “coloro che guidano (più esattamente, sanno guidare) il popolo”.
Il cambiamento è notevole, in quanto se “democrazia” stava a significare “potere del popolo” o in senso più moderno, il “governo del popolo, per il popolo e per mezzo del popolo”[1], con la demagogia il popolo non è più il protagonista, ma diventa “soggetto passivo”, in quanto c’è “qualcuno” che ora lo conduce (il composto infatti deriva da demos + –ago, che indica il verbo “condurre”, da cui si è originato poi “demagogo”, per indicare specificamente la persona che copre il ruolo di “capopopolo”).
Di qui viene facile la constatazione per cui anche il populismo (in quanto concettualmente vicino alla demagogia) stia ad indicare un’accezione negativa della democrazia, ossia una sua specifica “forma degenerata”; in particolare lo si è inquadrato metaforicamente come la “malattia congenita” della democrazia, o la “zizzania” che cresce vicino al “buon grano” (la democrazia costituzionale), compromettendo la riuscita del raccolto[2], o ancora si sono coniati persino nuovi modi di indicare la democrazia quando intaccata dal populismo : a tal proposito si è parlato di demo-patia, demo-astenia e simili[3].
Se poi si passa ad un’altra considerazione, quella per cui la parola “populismo” risulta più recente rispetto a “demagogia”, si arriva a considerare il primo come un tipo di degenerazione (o se si vuole, una malattia) dai tratti più “moderni”, dalle caratteristiche più innovative, che ha dunque bisogno di nuovi strumenti per identificarla e di nuove “cure” per debellarla.
L’origine del termine si colloca infatti nella Russia ottocentesca, dove fu utilizzato per designare quel movimento politico-culturale di orientamento socialista, fortemente radicato nel popolo (il termine russo per indicarlo era narodnicestvo, da narod, “popolo”), e che trovava seguito specialmente nelle masse contadine, agguerrite contro i processi di modernizzazione, (di cui era accusato l’Occidente capitalista, portatore di tecnica e innovazioni che ne avrebbero fatto il maggior “centro unificatore del mondo”[4]) e allo stesso tempo consce dell’insopportabile regime zarista, che già si avviava tuttavia (a partire dall’ emancipazione della servitù, nel 1861) a tramutare in altro regime: quello di “controllo sociale” proprio della vicenda sovietica, orientata altresì allo sviluppo industriale (quindi allo stesso modo potenzialmente distruttiva per la vita contadina).
Ciò che esse invece proponevano quale modello alternativo e più “sano” di società era quello intrinsecamente legato al “patrimonio di valori” del comunitarismo contadino, (significativamente rappresentato nell’istituto dell’obščina, indicante una sorta di comunità agraria russa, costituita dall’associazione di varie famiglie contadine, completamente autogestita, che cessò di esistere con la collettivizzazione delle terre nel 1928)[5], i quali tratti identitari erano soltanto in apparenza “arretrati” (o meglio, se paragonati all’occidente industrializzato e fortemente “liberalizzato”), per quanto in realtà fossero indicati come la sola salvezza dall’illusione emancipatrice portata dall’uomo borghese, seguendo la quale il loro destino era di divenire “prodotti umani” del capitalismo, vale a dire, gli operai del proletariato[6].
L’intento (si può dire in un certo senso, positivo) era quello di scongiurare l’avvento della democrazia così come si prospettava in Europa occidentale, e cioè un fenomeno che, se avesse continuato a basarsi sul “politeismo dei valori” occidentalizzanti, avrebbe portato al trionfo della sola forza, (ed è ciò che effettivamente accadde nel corso del ‘900, con l’ondata di totalitarismi e delle dittature). Per questo c’era bisogno che vi fosse un “vero” ritorno del popolo sulla scena politica (o meglio, il ritorno del “vero” popolo, le masse contadine invece della borghesia), e che la democrazia assumesse i connotati di una “totalità umana” (contrapposta invece alla vita moderna, connotata da un individualismo sfrenato, fonte di dissoluzione dei rapporti sociali), con un unico fondamento, giusnaturalista, qual era rintracciabile nella stretta coesione sociale ancora presente all’interno della società contadina russa.
Nonostante le “nobili” premesse, quella che si può qui definire quale “rifondazione populista della democrazia” in effetti in Russia non ebbe esiti tanto notevoli dal punto di vista politico, (sarà infatti il bolscevismo e la futura Unione sovietica a svolgere il compito di riformare la società russa, aprendo invece le porte alla modernità, in netto contrasto al populismo contadino), segno ne è il fatto che il termine slavo originario (narodnicestvo), sarà rimpiazzato nel corso del ‘900 dalla parola di radice anglosassone, “populism”, che assumerà il vero e proprio ruolo di nome comune[7], indicante ora un partito, un movimento, un leader o una forma di regime , con connotazione quasi sempre negativa.
Il passaggio al contesto anglosassone (americano, per essere precisi), non è del tutto casuale: nel 1891 infatti nasceva a Cincinnati il “People’s Party”(partito del popolo), che raccoglieva la reazione anche qui guidata in prevalenza dai contadini (i “farmers”), però stavolta avversi allo strapotere del sistema bancario e di un’economia che si avviava a diventare una vera “superpotenza” mondiale, ma che lasciava tuttavia insoddisfatti i piccoli proprietari, travolti dalle crisi sia in senso economico (quella più nota della Grande Depressione, tra il 1870 e il 1897), sia nel senso più radicalizzante (e che trovava sicuramente più seguito), di “crisi dei valori”, “crollo della moralità”, contro il trionfo dell’ avidità dei milionari corrotti e parassiti.
Questo populismo in versione americana aveva a che fare con una società completamente differente rispetto alla Russia pre-capitalizzata: una società che era nata come democratica e che aveva fatto della libertà il suo destino, non poteva certo rinunciare all’autodeterminazione individuale, e ciò valse a tenerla ben lontana dagli esiti del bolscevismo russo (così come dai totalitarismi dell’Europa continentale)[8]. Dal punto di vista politico, se da una parte questo si tradusse nel tramonto dell’avventura del People’s Party già dai primi del ‘900, (nel 1912 non esiste più), d’altra parte il “populism” si andrà connotando sempre più come termine autonomo e “neutro” (anche distaccandosi dalla sua connotazione spiccatamente socialista), indicante più in generale quella sorta di “sindrome” della modernizzazione subita dal popolo “piccolo” (in questi casi, i contadini), quando si trova di fronte al “trauma” di una difficile transizione epocale. Da tale sindrome principale, si irradiano poi tanti piccoli “malesseri” che vanno a colpire tutti i vari aspetti della vita di una società, (dall’economia, al sistema politico, passando per la giustizia, alla cultura ecc.) fino a “corroderla” completamente, ma a partire dal suo interno.
Questo perché l’atteggiamento populista agisce in modo tutt’altro che differente rispetto a qualsiasi tipo di fondamentalismo, avendo alla sua base un forte credo, spesso legato ad una precisa “identità” nazionale, classista o persino razzista (in riferimento alla classe dei “contadini russi”; al forte disprezzo per il nascente “melting pot” dei populisti americani, nonché alle tracce di “mitica esaltazione” delle proprie radici etniche e indigene da parte dei maggiori leader populisti del ‘900 in America Latina[9]), o comunque ad altri aspetti sociali che trovano la loro ragione in tradizioni culturali o fedi religiose (emblematico è l’esempio riportato da F.Zakaria nel suo libro, The future of freedom, a proposito della corrente nazionalista fondata nella Vienna fin de siècle da K. Lueger, e da lui chiamata “cristiano-socialista”. Con questa il leader riuscì a raggiungere il massimo dei consensi proprio perché fu capace di attirare sia quelli degli operai, interessati alla “retorica” socialista, e quelli dei contadini, interessati invece al mantenimento di una forte identità nazionale; un’“opera” politica che sarà poi celebrata quale “grandiosa” nel Mein Kampf[10] di A. Hitler)
Le masse, una volta cadute (un po’ per ripiego, un po’ perché a ciò sospinte dall’esterno) in insofferenza e autoreferenzialità, diventano facile preda di chi (i “demagoghi”) si nutre dei loro consensi (o meglio, di un certo “assenso” astensionista delle prime) per prendere sempre più potere, fittiziamente dichiarandosi a favore del popolo in quanto “uomo del popolo”, ma in realtà ingannandolo riguardo il vero ruolo che questi ricopre.
È così infatti che il popolo, “sovrano” in democrazia, passa, senza accorgersene, a “strumentalizzato” in demagogia (ovvero, nel populismo demagogico).
Note
[1] Il riferimento è al famoso discorso di Gettysburg del 19 novembre 1863 tenuto da A.Lincoln, : «the government of the people, by the people, for the people» , in V.Possenti, Le società liberali, pp. 103-105
[2] Cit. A.Spadaro, Costituzionalismo vs populismo (Sulla c.d. deriva populistico-plebiscitaria delle democrazie costituzionali contemporanee), Studi in onore di Lorenza Carlassare, n. 16, Quad. Cost., forum online, ottobre 2009
[3] Cit. L.Ferrajoli, Democrazia e populismo, n.520, riv AIC, 30-07-2018 , utilizza questi termini in riferimento ai sistemi politici «basati sulla passivizzazione o peggio sull’astensione e sulla tacitazione del cosiddetto popolo sovrano» .
[4] Cit. P.Paolo Poggio, Il populismo russo: percorsi carsici ,Fondazione biblioteca archivio Luigi Micheletti, Altronovecento, riv online, 2003, p.2 : «Su questo nodo si concentra l’attenzione del pensiero russo, nel momento del primo delinearsi dell’edificio che la tecnica occidentale si appresta a costruire, ergendosi a potenza mondiale, centro unificatore del mondo. Pensando alle Grandi Esposizioni Universali che celebrano il trionfo del nascente capitalismo, Dostoevskij conia la metafora del “palazzo di cristallo”, dove tutti i problemi possibili e immaginabili saranno risolti con matematica esattezza, affidando al nichilismo dell’ “uomo del sottosuolo” la protesta contro questa prospettiva, la rivendicazione assoluta della libertà, fosse pure ridotta a capriccio, follia e sofferenza».
[5] Da obščina, Enc. Online Treccani
[6] B.Bongiovanni , Populismo, Enc.Scienze Sociali, Treccani, 1996, pp. 703 ss: «Ed ecco profilarsi i fondamenti essenziali dell’identità del movimento socialista-populista russo, un’identità in gran parte costruita nell’ambito del confronto-contrasto con la realtà economico-industriale europea e con il panorama sociale proletarizzato che ne era scaturito. La presunta arretratezza non era realmente tale: per i populisti rivoluzionari […] si trattava di una differenza strutturale e di una via peculiare che poteva e doveva, tra l’altro, consentire di evitare le forche caudine e le peripezie sociali dello sviluppo capitalistico, quello sviluppo che per i socialisti occidentali si poneva invece come una tappa intermedia ineludibile, nonché produttrice di enorme ricchezza collettiva e anche di irrinunciabili spazi di libertà […] .Il soggetto rivoluzionario per eccellenza era di conseguenza costituito dai contadini, che si identificavano in toto appunto con il popolo e con la virtuosa morale comunitaria che lo contraddistingueva, e non dagli operai, consustanziali – tanto da esserne il prodotto più clamorosamente visibile – con il processo capitalistico-borghese, un processo che corrompeva i costumi imborghesendoli con miraggi mercantili, divideva la comunità, degradava il tessuto sociale, creava individui e individualismi, allontanava dalle radici profonde, e naturali, della vita collettiva».
[7] Cfr. V.Pazè, Democrazia e populismo, nuvole.it, p.2
[8] “Profetica” in questo senso è la considerazione di A.De Tocqueville, De la democratie en Amerique, op.cit., libro II, conclusione, p. 411 : «Vi sono oggi sulla terra due grandi popoli che, partiti da punti differenti, sembrano avanzare verso un’unica meta: i russi e gli americani. […] l’americano lotta contro gli ostacoli naturali, l’altro è alle prese con gli uomini […] Per raggiungere il suo scopo, il primo si basa sull’interesse personale e lascia agire senza dirigerle la forza e la ragione degli individui, solo il secondo concentra in qualche modo in un uomo tutto il potere della società. L’uno ha per mezzo dia zione principale la libertà, l’altro la servitù».
[9] Il XX secolo è stato per definizione il secolo dell’esplosione dei “populismi” latinoamericani, che hanno visto il trionfo di leader carismatici (dal Brasile di Vargas, all’Argentina di Péron, e al Messico di Cardenas negli anni ’30-’40, al Perù di Garcia e di Fujimori, l’Ecuador di Bucaram e il Venezuela di Chavez , per citare i più noti del dopoguerra), che appaiono accomunati da una certa avversione per il modello di democrazia liberale, e per il suo modello sociale, al quale contrappongono una sorta di “democrazia organica”, che si riferiva al popolo “originario” (mestizo, o el pueblo per i leader in Bolivia e in Ecuador), e alla sua “antica” unità di valori, contro le forze disgregatrici dei “nemici” esterni e interni.
L.Zanatta, Il populismo in America Latina. Il volto moderno di un immaginario antico, Biblioteca Zanatta, historiapolitica.com, p.10 : «In nome della “volontà” del popolo, infatti, del “loro” popolo, essi esprimono una radicale pulsione autoritaria, per non dire una vocazione totalitaria. Il popolo del populismo è il tutto, l’intero, il bene, la virtù, la nazione coi suoi tratti eterni e definitivi. Fuori da esso cova il male, la malattia che attacca il sano organismo della comunità. La logica manichea del populismo non lascia scampo. Decisi a rigenerare il popolo, a riscattarne l’identità pura e minacciata che essi e solo essi incarnano, si chiami peruanidad, argentinidad, brasilianidade o cubanidad, a realizzare un disegno provvidenziale, una missione salvifica e redentrice, i populismi sono impermeabili al pluralismo, nel quale, lungi dal cogliere la fisiologica risultante della differenziazione sociale, individuano la patologica manifestazione di divisioni artificiali introdotte nell’organismo sociale da qualche agente patogeno penetratovi dall’esterno. Come tale, il pluralismo è una malattia da estirpare.»
[10] F. Zakaria, The future of Freedom, op.cit., Chapter 2, The twisted Path, pp 59 ss
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