La decisione di Putin di invadere l’Ucraina potrebbe aver avuto un altro motivo: la gestione delle enormi riserve delle materie prime presenti sul territorio ucraino. Ne abbiamo discusso con Giuseppe Sabella, autore di “La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino: Ecco perché l’Europa è nel mirino di Putin”.
Articolo presente nel volume: “La geopolitica delle Terre rare”.
La volontà di arginare il tentativo di allargamento ad est della NATO e il desiderio di “denazificare” il Governo di Kiev potrebbero non essere le due sole chiavi di lettura per decriptare la decisione di Putin di invadere l’Ucraina lo scorso 24 febbraio 2022. Dietro ragioni ideologiche potrebbe nascondersi il tentativo russo di mettere le mani sui giacimenti di materie prime presenti in territorio ucraino. Litio, manganese, ferro, titanio, uranio: risorse strategicamente importanti per Mosca, tanto da giustificare una decisione – quella di invadere uno Stato sovrano – che rischia di portare il mondo sull’orlo della Terza guerra mondiale. Per comprendere le motivazioni geo-economiche e l’importanza dei minerali rari nel conflitto russo-ucraino, abbiamo discusso con Giuseppe Sabella, direttore esecutivo della Think Tank Oikonova e autore de “La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino: Ecco perché l’Europa è nel mirino di Putin” (Rubbettino Editore. 2022).
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Nel 2022 ha pubblicato un libro dal titolo: “La guerra delle materie prime e lo scudo ucraino: Ecco perché l’Europa è nel mirino di Putin”. Cosa s’intende per “scudo ucraino”?
Lo “scudo ucraino” è la Terra di Mezzo dell’Ucraina, così chiamata dai geologi per la sua ricchezza di materie prime. Si tratta dell’area compresa tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov, nel sud del Donbas. L’area totale della sua superficie è di circa 250 mila chilometri quadrati. In termini di potenziale di risorse minerarie, lo scudo ucraino non ha praticamente parità in Europa, e forse anche nel mondo. All’interno di questa zona geologica si trovano grandi riserve di ferro, di uranio e di zirconio, oltre che pietre preziose e semipreziose, materiali da costruzione (tipo granito estratto di alta qualità). Non solo terre rare, nello scudo ucraino si estraggono anche uranio (l’Ucraina è tra i primi tre esportatori al mondo), titanio (decimo esportatore), minerali di ferro e manganese (secondo esportatore): tutte materie prime fondamentali per le leghe leggere (titanio) e anche per acciaio e acciaio inossidabile (minerali di ferro e manganese). Inoltre, secondo le più recenti scoperte geologiche, nelle antichissime rocce di questo territorio si nascondono giacimenti di litio. Sulla base di queste ricerche, l’Ucraina, insieme alla Serbia, in questo momento ha probabilmente il maggior potenziale di “oro bianco” – così chiamano il litio in ambito finanziario – dell’intera regione europea. Questi ritrovamenti di litio sono stati individuati soprattutto attorno all’area di Mariupol, la città portuale del Donbas tra le più colpite dai bombardamenti russi.
Perché è importante il litio?
Il litio e, più in generale, i metalli rari sono elementi in grado di cambiare e di potenziare le proprietà delle leghe che li contengono. Hanno effetti molto importanti su microchip e semiconduttori. Il litio, in particolare, è indispensabile per lo sviluppo dell’industria delle batterie (gli attuali leader nella produzione delle batterie sono Giappone, Corea del Sud, Cina e Australia) tra gli obiettivi più importanti del Green Deal europeo, che ha proprio nell’auto elettrica uno dei suoi simboli. Per quanto riguarda le terre rare, l’Europa le importa per il 98% dalla Cina che, per il momento, ne possiede il 40% delle riserve mondiali. Possiedono terre rare anche USA, Vietnam, Brasile, Russia, India, Australia, e Groenlandia. Questa era la ragione per cui Trump voleva comprare l’isola più grande del mondo dalla Danimarca. Si stima che anche il canale di Sicilia ne sia ricco. Le terre rare in questo momento più ambite sono quelle del gruppo dei “supermagneti”, ovvero il neodimio, il lantanio, il praseodimio, etc. Sono importantissimi per la produzione dei nuovi motori dell’auto elettrica, così come per smartphone e televisori, ma anche per tutta la filiera eolica, per la fibra ottica e per quella della diagnostica medica. Come si comprende, sono il cuore dell’innovazione tecnologica e digitale, motore a sua volta – insieme alle fonti energetiche rinnovabili – dello sviluppo sostenibile. In realtà, il problema vero delle terre rare non è la loro rarità – al di là del gioco di parole – ma la loro difficoltà di estrazione.
Nel novembre del 2021, l’Ucraina firma un accordo strategico con l’UE per lo sfruttamento dei suoi enormi giacimenti di Litio. Decisone che non è piaciuta a Putin…
Proprio per la ricchezza del suo territorio, qualche anno fa l’Ucraina è stata ufficialmente invitata a partecipare all’Alleanza europea sulle batterie e le materie prime con lo scopo di sviluppare l’intera catena del valore dall’estrazione alla raffinazione e al riciclo dei minerali nel Paese. A luglio 2021, il vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič – che adesso ha preso il posto di Frans Timmermans, padre del Green Deal europeo – si è recato a Kyiv per incontrare il primo ministro Denys Shmyhal.
In quell’occasione, è stato firmato il partenariato strategico sulle materie prime. E questo è certamente uno dei fattori di destabilizzazione del rapporto Russia-UE. Si consideri, anche, che in particolare la Transizione energetica europea è fumo negli occhi per Putin: il suo principale mercato, in particolare durante il mandato di Ursula von der Leyen, è sempre più orientato sull’energia rinnovabile e sempre meno sui combustibili fossili.
Senza pensare al fatto che, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, l’Europa ha deciso di fermare il grande gasdotto Nord Stream 2 – cosa che per Putin è stato un duro colpo – e che, dall’anno scorso, le sue fonti di approvvigionamento energetico sono completamente cambiate.
La società cinese Chengxin Lithium, con l’obiettivo dichiarato di diventare il “produttore leader mondiale di materiali per batterie agli ioni di litio”, aveva richiesto i diritti su due depositi di litio in Ucraina…
Le cose si sono però evolute diversamente dai piani della Chengxin.
A novembre 2021, come riportato dalla stampa specializzata e come confermato dalla stessa azienda austriaca, la European Lithium Ltd – società di esplorazione e sviluppo proprietà minerarie che ha sede a Vienna – si è accordata con la Petro Consulting Llc – azienda ucraina con sede a Kyiv – che dal governo locale ha ottenuto i permessi per estrarre il litio dai due depositi che si trovano a Shevchenkivske nella regione di Donetsk e a Dobra nella regione di Kirovograd, vincendo la concorrenza proprio della Chengxin. Era il 3 novembre 2021. Solo tre mesi dopo, Putin scatenava la guerra in Ucraina.
L’invasione ha fatto naufragare il piano sul litio dell’UE?
Naturalmente, fino a quando in Ucraina non avremo la pace, sarà difficile per Bruxelles dare concretezza ai suoi piani con Kyiv. Ci sono molti investimenti fermi che attendono una situazione diversa per essere liberati. Pensiamo, per esempio, alla rete infrastrutturale della mobilità elettrica: i costruttori spingono per il superamento del motore endotermico ma ancora non vi è uno sviluppo significativo delle colonnine. Del resto, come si fa a par partire in investimento ingente come questo quando c’è il rischio, nel giro di pochi mesi, di veder lievitare il costo delle materie prime del 200%?
È una forzatura definire il conflitto in Ucraina come la prima guerra per il litio?
Io l’ho chiamata “la guerra delle materie prime” ma, come abbiamo visto, il litio in Ucraina ha un valore enorme per cui chiamarla “la guerra del litio” non è certamente una forzatura. Il punto però è capire perché il problema delle materie prime oggi è così importante tanto da causare guerre. Con la pandemia è crollato il già traballante e vecchio ordine mondiale.
Il recente allargamento dei Brics è un elemento importante in questo senso. In particolare, con il decoupling delle catene del valore – ovvero con l’inizio del disaccoppiamento della tecnologia e dell’economia occidentale da quella asiatica – diventa strategico per le grandi piattaforme industriali controllare gli approvvigionamenti di materie prime. Consideriamo che il cambio di rotta della globalizzazione inizia almeno 10 anni fa, con il back reshoring delle produzioni (avviato da Obama, 2012). Poi nel 2015 abbiamo segni evidenti del rallentamento del commercio mondiale e nel triennio 2017-2019, prima della pandemia, la regionalizzazione delle economie era già disegnata: i mercati hanno iniziato a riorganizzarsi attorno alle grandi piattaforme produttive (Usa, Cina, Europa) anche per effetto dei dazi di Trump (2016).
È in questo quadro, accelerato poi da pandemia e guerra, che scatta la corsa all’approvvigionamento: se ben ricordiamo, la crisi di microchip, gas e materie prime è qualcosa che inizia nel primo anno di pandemia, dopo il lockdown mondiale e la conseguente forte ripartenza delle produzioni. Tra i diversi Paesi del mondo, inoltre, vi era disallineamento dei lockdown e, in particolare, dei paesi fornitori: il Vietnam è stato in lockdown fino a novembre 2021. La Cina, approfittando del calo dei prezzi, in quel periodo acquista ovunque materie prime strategiche, dai chip e minerali a cereali e cotone. Una vera e propria “corsa all’accumulo”, non soltanto per immagazzinare scorte, ma anche nella consapevolezza che l’Europa – concentrata sulla Transizione ecologica e sul consolidamento del proprio mercato, cosa che non può non avere ricadute sulla penetrazione nel MEC del prodotto made in China – sarebbe andata in difficoltà. Questa corsa all’approvvigionamento significa, anche, passare dalla produzione just in time alle scorte di magazzino che avevamo quasi dimenticato. La crisi delle materie prime e l’inflazione nascono da qui. La guerra delle materie prime, con la crisi ucraina, conosce poi il suo aspetto più cruento: i territori occupati dai russi sono proprio quelli più ricchi di materie prime, in particolare proprio di gas, litio e Terre rare.
Pechino rappresenta indiscutibilmente il principale produttore di terre rare al mondo. Una posizione di vantaggio che potrebbe mettere in crisi la transizione?
Per quanto più o meno un anno fa in Svezia, nell’area di Kiruna, sia stato scoperto uno dei più grandi giacimenti al mondo di terre rare, a oggi, il 98% dei metalli rari utilizzati dall’Unione Europea viene importato dalla Cina, che – come si accennava in precedenza – vale il 60% dell’estrazione e il 90% dei processi di trattamento, purificazione e raffinazione. Venendo al litio e alle batterie, è vero che non sono da sottovalutare le ricerche e gli investimenti europei. Ma, anche qui, a oggi la Cina produce tre quarti delle batterie prodotte nel mondo: degli oltre 130 siti produttivi per le batterie al litio attualmente sparsi in tutto il globo, 100 si trovano in Cina. Questi numeri ci danno un’idea della dimensione del vantaggio cinese. Tuttavia, forse c’è qualcosa che non sappiamo. La forte accelerazione della UE, per esempio, sull’auto elettrica, in realtà è frutto delle pressioni e della volontà della grande industria, che sta investendo risorse ingenti sulla nuova auto. I grandi costruttori sono convinti che il mercato premierà il loro sforzo. Volkswagen, ad esempio, su 180 miliardi di euro di investimenti previsti per il 2023-2027 ne destinerà circa due terzi ai veicoli elettrici. Oliver Blume, ad del gruppo di Wolfsburg, dice che Volkswagen produrrà veicoli soltanto elettrici già prima del 2035. La stessa cosa dice Carlos Tavares, ad di Stellantis. Il destino della mobilità europea pare dunque tracciato dai costruttori più che dal Fit for 55, il provvedimento con cui si è deciso lo stop del motore endotermico. C’è chi sostiene che questo è il suicidio dell’industria europea che, in questo modo, cederà sovranità alla Cina. Io ho qualche dubbio, non credo per esempio che – per quanto concerne l’approvvigionamento di materie prime e metalli rari – i grandi costruttori non abbiano fatto i loro conti e non conoscano i rischi che corrono. Forse c’è qualcosa che non sappiamo fino in fondo…
La storia della transizione energetica dell’uomo ci insegna che per ogni nuova scoperta di fonti di energia sono scaturite guerre per l’accaparramento. Lo è stato per il carbone, per l’acciaio, per il petrolio. Ci dobbiamo aspettare nuovi conflitti anche per le terre rare? Guerra in Ucraina e colpi di stato nei Paesi africani che detengono questi minerali sembrerebbero confermare questa teoria…
Purtroppo, come dicevo, la riorganizzazione della globalizzazione apre a una fase storica molto incerta e, anche, violenta, le cui variabili non solo delle terre rare ma anche dell’energia hanno un peso rilevante. Pensiamo, anche, a ciò che sta avvenendo in Medio Oriente. In questo momento, non vi sono prove che la Russia sia coinvolta nell’attacco di Hamas a Israele ma è difficile escluderlo. A parte la vicinanza della Russia all’Iran – anche se è non è per niente detto che Hamas si sia mosso in accordo con Teheran – il punto vero è che il contesto che si è creato è del tutto favorevole a Putin: per ragioni di sicurezza, Israele ha deciso la sospensione dell’estrazione di gas nel giacimento di Tamar. A questo si aggiungano la crisi del gas australiano e il misterioso sabotaggio del Balticonnector, il gasdotto fra la Finlandia e l’Estonia. In sintesi: il prezzo del gas in Europa è al top da sei mesi. Come l’anno scorso, quando Putin le ha provate tutte per innescare un cortocircuito energetico in Europa, è ancora guerra del gas.
È, ancora, guerra delle materie prime.