Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli sforzi per immaginare il futuro di Gaza dopo la fine dell’operazione militare israeliana. Numerose sono le opzioni che sono state considerate per garantire la pace, ma sarà solo Israele ad avere il potere di decidere il destino della Striscia. Le speranze di realizzazione della soluzione a due stati si scontrano con l’intenzione israeliana di continuare ed espandere l’occupazione di Gaza.
Nessuna luce in fondo al tunnel
A quasi un anno dall’attacco del 7 ottobre e l’inizio delle operazioni militari israeliane, a Gaza la situazione rimane complicata. L’obiettivo di Tel Aviv di distruggere Hamas[1] non è ancora stato raggiunto, nonostante l’uccisione di quasi la metà dei 30-40mila militari dell’organizzazione, e il degradamento delle sue capacità offensive. Lo stato ebraico ha distrutto 22 dei 24 battaglioni di Hamas e ucciso figure chiave come Mohammed Deif, Marwan Issa e il capo politico Ismail Haniyeh.[2] Nonostante ciò, l’organizzazione sopravvive, con il capo militare Yaya Sinwar ancora nascosto nella Striscia.
Sul fronte degli ostaggi, ne rimarrebbero ancora 60 vivi a Gaza[3], e dopo l’operazione israeliana a Nuseirat a giugno, in cui 4 ostaggi furono liberati e circa 274 palestinesi uccisi, Hamas ha lanciato un avvertimento attraverso le parole del portavoce Abu Obaida, dicendo che i tentativi di recuperare ostaggi con la forza avrebbero portato alla loro morte.[4] Così, a inizio settembre Israele ha trovato 6 ostaggi uccisi in un tunnel, fucilati da Hamas all’avvicinarsi dei soldati dell’IDF.[5] L’obiettivo dell’organizzazione palestinese è di forzare Tel Aviv ad accettare un cessate il fuoco, anziché perseguire il recupero degli ostaggi militarmente.
I tentativi di negoziati si sono moltiplicati a partire dalla primavera, ma hanno proceduto con forti difficoltà a causa di una visione diversa del cessate il fuoco da parte dei due contendenti. Hamas vorrebbe un cessate il fuoco che ne garantisca la sopravvivenza e porti alla formazione di uno stato palestinese, mentre Israele mira a una pausa tattica per recuperare gli ostaggi, per poi continuare l’occupazione di Gaza ed eliminare Hamas. Oltre a questo, all’interno del governo israeliano vi sono diverse idee su ciò che è necessario ottenere dai negoziati. Ad esempio, i responsabili della sicurezza israeliana, cioè il capo dello Shin Bet, quello del Mossad, il ministro della difesa Gallant e il capo dell’esercito Halevi, sono d’accordo nel ritenere il corridoio Philadelphi, che divide Gaza dall’Egitto, non strettamente necessario, mentre Netanyahu continua a sostenere l’urgenza di tenerlo occupato. Inoltre, il primo ministro israeliano vede la distruzione di Hamas come obiettivo primario, non rimandabile, e dunque rimane contrario a un cessate il fuoco prima che questo sia stato ottenuto. Irritato dalla posizione irremovibile di Netanyahu, il presidente americano Biden ha affermato che il suo collega non sta facendo abbastanza per raggiungere un accordo[6].
Leggi anche:
- Israele bombarda Beirut e le roccaforti di Hezbollah: 356 morti e migliaia gli sfollati
- L’attacco contro i dispositivi di Hezbollah e le violazioni del diritto internazionale umanitario
Se dunque sul piano militare l’operazione israeliana ha ottenuto qualche successo, sebbene lontano dall’obiettivo massimalista che era stato posto, su quello politico Tel Aviv deve affrontare le difficoltà legate a un’opinione pubblica interna che pone la vita degli ostaggi al di sopra di tutto e una comunità internazionale sempre più avversa alle violazioni del diritto internazionale e alla devastazione nella Striscia (più di 41.100 morti direttamente, la maggior parte dei quali civili). A livello regionale, nonostante il rischio di guerra aperta con Teheran rimanga basso[7], i continui scontri con l’asse della resistenza a guida iraniana complicano la situazione per un Paese abituato a combattere guerre corte e fuori dal proprio territorio[8].
Quando la polvere si assesta
Nonostante la fine della guerra non sembri essere vicina, osservatori e media internazionali speculano già sulle possibili opzioni per il day after.
Una delle idee è istituire una missione di peacekeeping ONU, che possa mantenere il cessate il fuoco, distribuire gli aiuti ai civili e supportare la riabilitazione del popolo palestinese. Perché questo funzioni, Israele dovrebbe ritirarsi completamente da Gaza e Hamas dovrebbe cedere l’autorità alla Palestinian Authority (PA), che chiederebbe al Consiglio di Sicurezza Onu la creazione di questa missione di pace. I paesi arabi del Golfo come Arabia Saudita ed Emirati Arabi potrebbero contribuire economicamente alla ricostruzione della Striscia e una forza multinazionale marittima potrebbe impedire il commercio di armi sulla costa[9].
Il ruolo della PA come autorità per il day after a Gaza è ampiamente riconosciuta come fondamentale dalla maggior parte degli osservatori. Ci sono più dubbi su come essa debba essere riformata e se debba includere Hamas (gli Stati Uniti sono contrari).
Tuttavia, c’è chi non considera la PA adatta a governare Gaza, perché un’istituzione che ha perso credibilità agli occhi dei palestinesi a causa della sua corruzione, metodi autoritari e complicità con Israele. Salam Fayyad, ex primo ministro della PA nella West Bank, ritiene che solo tramite profonde riforme l’Autorità Palestinese potrebbe essere in grado di assolvere al suo ruolo, cioè condurre il popolo palestinese verso la formazione di uno stato. Fayyad ritiene fondamentale l’unità delle fazioni palestinesi, da ottenere tramite l’inclusione anche di Hamas e della Palestinian Islamic Jihad all’interno della Palestinian Liberation Organization (PLO). L’inclusione dei gruppi più militanti è fondamentale perché essi non verranno totalmente eliminati da Israele, e continueranno a essere contro qualsiasi accordo di cui non facciano parte. Un passo avanti in questa direzione è stato compiuto a luglio, quando Fatah, che è la fazione più importante della PLO, e Hamas hanno raggiunto un accordo a Pechino, per terminare le divisioni e formare un governo di unità che comprenda tutte le 14 fazioni palestinesi. Hamas ha riconosciuto la PLO come unico rappresentante del popolo palestinese e ha accettato di formare uno stato basato sui confini pre-1967, implicitamente riconoscendo Israele[10]. Così facendo, Hamas ha accettato di non governare Gaza da sola, ma in collaborazione con la PA. Inoltre, il primo ministro palestinese Mohammad Mustafa ha presentato un piano per il day after, basato su aiuti, ricostruzione, riabilitazione, sicurezza, integrazione delle istituzioni ed elezioni[11]. Sembra così che le fazioni palestinesi cerchino di prepararsi alla possibilità di governare Gaza, sperando in un cessate il fuoco che però tarda ad arrivare.
Ciò che è meno chiaro è il ruolo di Israele. Alcuni ritengono che Tel Aviv dovrebbe ritirarsi completamente, in accordo con la advisory opinion della Corte Internazionale di Giustizia, che ha dichiarato illegale l’occupazione israeliana a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est[12]. Altri considerano necessaria la presenza dell’IDF per garantire la sicurezza e impedire la rinascita di cellule militari palestinesi[13].
Se le idee per il day after sono tante, non è ben chiaro quale sia il piano di Israele, quell’attore, cioè, che avrà il vero potere di decidere le sorti del futuro stato palestinese e di Gaza. Il problema dietro le varie concettualizzazioni del day after presentate dai commentatori internazionali è che non considerano due fatti.
Il primo è che Israele non ha alcuna intenzione di garantire l’autodeterminazione del popolo palestinese. La soluzione a due stati, supportata anche da Washington, è stata chiaramente rigettata dal governo Netanyahu, perché vista come una ricompensa ingiusta per Hamas dopo il 7 ottobre e come un rischio di infiltrazione da parte dell’Iran.[14] Tel Aviv concepisce il popolo palestinese come una minoranza, a cui è consentito vivere, ma senza pari diritti con i cittadini ebrei e senza reali capacità di autogoverno[15].
Prima del 7 ottobre Gaza era una prigione a cielo aperto, in stato di occupazione[16] dal 1967. In questi undici mesi di combattimento, lo stato ebraico non ha chiarito quale siano le sue intenzioni sul futuro della Striscia. Quello che è certo è che Israele intende mantenere un alto grado di controllo su Gaza, a fini securitari, e probabilmente creare una buffer zone lungo il suo perimetro. È plausibile che Tel Aviv ricerchi una costante presenza militare, anche al fine di controllare gli snodi principali quali il corridoio Philadelphi e Netzarim. Gli ufficiali israeliani hanno parlato di diversi piani per il day after, che contemplano idee quali la separazione della Striscia in zone, l’arruolamento di clan locali per mantenere l’ordine, la instaurazione della PA o di una missione araba, e persino l’insediamento di colonie israeliane[17]. Ciò che è chiaro è che Tel Aviv intende mantenere il controllo della Striscia, non certo metterla su un percorso verso l’autodeterminazione.
Il secondo problema è che non c’è alcun modo efficace per costringere Israele ad accettare le proposte presentate. Neanche gli Stati Uniti, che sono lo stato con maggior influenza su Tel Aviv, sono in grado di condizionare in modo significativo il processo decisionale dello stato ebraico. Storicamente, Washington ha sempre avuto difficoltà a farsi ascoltare dall’alleato, e ci è riuscito solo in casi in cui l’interesse nazionale americano era prevalente, ad esempio durante la crisi di Suez del 1956 o per il trattato con l’Iran sul nucleare, fortemente opposto da Israele. Washington non è mai riuscito a esercitare sufficiente pressione a influenzare le scelte israeliane riguardo il popolo palestinese e difficilmente vi riuscirà dopo il 7 ottobre.
Le operazioni belliche israeliane a Gaza continuano, e si sono espanse temporaneamente anche alla Cisgiordania, con un’incursione a Jenin che ha portato a distruzione e decine di morti[18]. Mentre i discorsi sul day after si accumulano, non è chiaro come e quando vi si arriverà. Implementare un piano di pace senza l’accordo di Israele, che occupa i territori militarmente, è impossibile, e non vi è segno che i diritti e le necessità dei palestinesi siano prioritarie per Tel Aviv. È dunque probabile che alla fine il post-guerra vedrà il popolo palestinese meno vicino a uno Stato di quanto lo fosse prima.
Note
[1] J. MAGID (2024), ‘Non-starter’: Netanyahu says no permanent Gaza ceasefire until Hamas destroyed, timesofisrael.com
[2] J. SPENCER (2024), Israel Is Winning, foreignaffairs.com
[3] M. BIGG E E. LIVNI (2024), Dozens of Hostages Remain in Gaza: What We Know, nytimes.com
[4] M. JAHJOUH, J. JEFFERY E K. CHEYAHEB, How an Israeli raid freed 4 hostages and killed at least 274 Palestinians in Gaza, apnews.com
[5] N. MELZER E J. FEDERMAN, Israel releases video of a Gaza tunnel where it says Hamas militants killed 6 hostages, apnews.com
[6] J. KRAUSS, How a narrow strip of scrubland has become an obstacle to a cease-fire in Gaza, apnews.com
[7] L. KHATIB, All-out war between Israel and Hezbollah is far from inevitable, chathamhouse.org
[8] A. ORION, Israel and the Coming Long War, foreignaffairs.com
[9] J. LINCOLN, How to Keep the Peace in Gaza, foreignaffairs.com
[10] J. JEFFERY, T. GOLDENBERG E H. WU, Rivals Hamas and Fatah sign a declaration to form a future government as war rages in Gaza, apnews.com
[11] M. MUSTAFA, Palestinian prime minister: a day-after plan for Gaza, washingtonpost.com.
[12] Legal Consequences arising from the Policies and Practices of Israel in the Occupied Palestinian Territory, including East Jerusalem, 19/07/2024, International Court of Justice
[13] J. SPENCER, Israel Is Winning, foreignaffairs.com
[14] Netanyahu again rejects Palestinian sovereignty amid fresh US push for two-state solution, edition.cnn.com
[15] Israel’s apartheid against Palestinians, 2022, amnesty international
[16] Israel and the occupied territories, icrc.org.
[17] A. IRAQI, The real schism in the Israel–Hamas ceasefire talks is about who decides Gaza’s future, chathamhouse.org
[18] A. SAWAFTA, Israeli forces pull out of Jenin leaving a trail of destruction, reuters.com
Foto copertina: Gaza