Si può affermare che i grandi ideologi, rivoluzionari e sognatori della nostra storia siano stati sempre degli altrettanto grandi politici?
Introduzione
Si può affermare che i grandi ideologi, rivoluzionari e sognatori della nostra storia siano stati sempre degli altrettanto grandi politici? La risposta non è assolutamente scontata e nel corso di questa brevissima analisi cercheremo di approfondire, tramite alcuni esempi, come spesso l’ideologia “pura” si debba ridimensionare e sia stata ridimensionata per la più pratica e pragmatica politica. Ed è con questo concetto di fondo che ampliando lo spettro di analisi giungiamo ai protagonisti stessi di questo complesso binomio. Dal 1789 (secondo il focus di questo articolo), si sono verificati molti sconvolgimenti politici e sociali di matrice rivoluzionaria. Ma gli ideali professati hanno mantenuto la “purezza” che li aveva ispirati?
L’illuminato romantico, Robespierre e il più grande frutto della Rivoluzione, Napoleone
Una delle crepe più profonde nella cristianità francese e per estensione nella società stessa della Francia di ancien regime fu la stessa ideologia che gettò i semi della Rivoluzione, l’Illuminismo. Questa corrente filosofica e letteraria nata in Inghilterra e poi sviluppatasi in Francia fece sentire la sua eco in molti strati della società francese e fiorì nei salotti e nei Caffè culturali. Professava la centralità dell’uomo e della sua libertà contro i poteri tirannici e il dogmatismo religioso e le sue regole viste come catene per l’uomo stesso.
Nel fondo, i Lumi non erano antireligiosi, percorsi com’erano da un dinamismo creativo di una nuova fede. Non erano neppure necessariamente anticristiani: potevano essere riuniti dallo spirito di un cristianesimo primitivo che la chiesa romana avrebbe tradito; soprattutto affermavano di voler colpire il cristianesimo come potere politico e non come credenza religiosa. Resta il fatto che spesso è difficile distinguere tra il potere e la credenza, che si fa presto a slittare nell’anticristianesimo partendo dall’anticlericalismo, e che i Lumi sono stati decisamente anticlericali.[1]
Con questa riflessione il grande storico della Rivoluzione francese, François Furet, porta la nostra attenzione su uno dei punti cardine della questione, ovvero l’ideologia. Gli ideali cristiani non erano di certo messi in discussione dai Lumi e in seguito dai rivoluzionari. Il riferimento ad un “cristianesimo primitivo” vuole lasciare intendere che quei dettami di fratellanza e di armonia fra gli uomini, oramai associati al buon costume e alla vita retta non potevano che essere grandi alleati nonché supporto utile per le ideologie rivoluzionarie di libertà, uguaglianza e fraternità. L’ideale di questo “cristianesimo primitivo” però era nelle mani dalla chiesa, e la chiesa in quanto struttura sociale ma anche e soprattutto politica, ne deteneva il monopolio. Incastonato nella sua struttura, la quale agli occhi degli intellettuali del tempo, ovvero i Lumi e i rivoluzionari poi, era un’organizzazione corrotta di controllo e coercizione dell’uomo stesso. Con il 1789 tutto cambia e l’ideologia rivoluzionaria si scopre sufficiente, insieme ai suoi protagonisti, a “creare” un nuovo culto, un culto dell’uomo e delle sue libertà di cui un uomo in particolare diverrà custode e simbolo (postumo), Robespierre.
Fra Robespierre e la rivoluzione c’è una sorta di connivenza che lo aureola più strettamente e durevolmente di qualsiasi altro leader. […] Ma alla sua morte, in Termidoro morì con lui anche la rivoluzione. Il suo mito, d’altronde gli sopravvive come un’immagine indipendente della sua vita: Robespierre inizia una grande carriera postuma di eroe eponimo del terrore e della salute pubblica costruitagli dai suoi ex colleghi Termidoriani. […] Da morto i suoi colleghi che oramai conoscono la canzone ne fanno il deus ex machina della congiura contro la rivoluzione, senza rendersi conto che in tal modo contribuiranno al suo mito[2]
Robespierre, tra l’altro, prima della sua dipartita aveva espresso preoccupazione per il fenomeno della scristianizzazione e per la sua impoliticità. Il governo rivoluzionario si era battuto per le libertà in ogni sua forma e dunque anche la libertà di culto era compresa. I colleghi di Robespierre non erano di questo avviso. Fermi sostenitori della scristianizzazione nonostante i vari tentativi di “rinchiudere” la fede in oratori privati, le chiese iniziarono a riaprire, ma sempre sotto l’occhio vigile del governo. Le persecuzioni però continueranno effettivamente fino all’ascesa di Bonaparte che con una politica di conciliazione decreterà la fine di ogni tentativo di scristianizzazione in Francia[3]. Questo però non significa che la chiesa poté tornare al punto di partenza; non ritrovò più il controllo sulle esistenze individuali degli uomini, non presenziò più alle attività sociali e al clero venne sottratto il controllo dello stato civile dei cittadini per sempre.
La Rivoluzione in Francia aveva cambiato tutto. Ma sarà proprio la figura già citata di Napoleone a mettere ordine politico in quel caos, in quel brodo primordiale di idee e libertà che era diventata la Francia. Robespierre fu un simbolo, un ideologo e una bandiera ma ora quella moltitudine di idee da esso scaturite andava ordinata e in alcuni casi “troncata”.
La politicizzazione degli ideali rivoluzionari inizia già dopo la dipartita di Robespierre ma con Napoleone vede il suo apice.
Appena usciti dall’epoca della rivoluzione, i francesi non avrebbero accettato facilmente un capo che non avesse tanto splendore nazionale; ma arcistufi del repertorio rivoluzionario e ripiegati su ciò che avevano conquistato, volevano veder rafforzate le garanzie offerte alla proprietà e all’ordine. Rivoluzionario e conservatore insieme questo popolo contadino di piccolo-borghesi si riconobbe nel Bonaparte del Codice civile. E sottoscrisse spontaneamente il programma presentato nel novembre 1800, sempre al Consiglio di stato “Abbiamo finito il romanzo della rivoluzione; dobbiamo cominciare la sua storia, vedere solo quel che c’è di reale e di possibile nell’applicazione dei princìpi, e non quanto c’è di speculativo e di ipotetico. Seguire oggi un’altra strada sarebbe filosofeggiare e non governare.”[4]
Questo primo esempio, introduttivo della questione “religiosa”, che ha visto riassunta brevemente la storia degli ideali rivoluzionari francesi e l’ascesa al potere di Napoleone Bonaparte ci mostra chiaramente come l’ideologia e coloro che la incarnano appieno non bastano come programma politico, le parole citate di Napoleone al riguardo sono quanto mai calzanti e aprono gli occhi sull’evidenza del fatto che il solo “sogno” deve necessariamente svegliarsi e trovare applicazione pratica nella vita di tutti i giorni, a maggior ragione se un sogno che vuole essere prima di tutto di rivoluzione sociale e politica.
Marx, Lenin, Stalin, la “santa” trinità di un sogno cristallizzato in oscuro terrore
Un altro grande esempio di “sogno ideologico” asservito alla pragmatica politica è quello che nasce dalla grande rivoluzione del secolo scorso, la Rivoluzione d’ottobre. Seguendo e tenendo fede agli scritti di Marx come ad un vangelo, Vladimir Ilich Lenin avviò, in quello che nel 1918 era uno dei grandi imperi alla deriva di quel mare di distruzione che fu la Prima Guerra Mondiale, un progetto ideologico-politico atto a distruggere l’intero ordine sociale ed economico capitalistico. Gli anni della Rivoluzione russa e della guerra civile che ne seguì furono sanguinosi, e quel che restava del vecchio Impero russo dello Zar era in ginocchio. La sola fede nell’ideologia comunista di Lenin e dei bolscevichi che a lui facevano capo riusciva a tenere insieme un paese assediato e in piena guerra civile.
[…] credevano intensamente in una fede di un certo tipo, e per loro le opere di Marx, Engels e Lenin erano come sacre scritture, i loro autori erano profeti del marxismo un equivalente della religione[5]
La fede negli ideali rivoluzionari marxisti non ammetteva, purtroppo, altre fedi.
Consolidato il loro potere, i bolscevichi avviarono una vera e propria campagna effettiva di scristianizzazione in tutto il territorio sovietico. La chiesa ortodossa era la fede religiosa più diffusa e radicata, e per i bolscevichi che cercavano di raggiungere un controllo totale sulla popolazione questo non era accettabile.
Nel 1922 Lenin ordinò l’eliminazione di numerosi vescovi con il pretesto che si erano rifiutati di vendere i loro tesori per alleviare i danni della carestia nella regione del Volga, e con l’introduzione della N.E.P. non cessarono le persecuzioni contro il clero che, per usare le parole pronunciate da Lenin davanti al Politburo, era cinico, dissoluto e corrotto[6].
Nella nascente Unione Sovietica di Lenin la creazione di un culto degli ideali rivoluzionari era quanto mai evidente ma la sola ideologia, per quanto forte nei suoi sostenitori, non riusciva ad essere sufficiente per far riprendere il paese. La stessa N.E.P. (Nuova Politica Economica) voluta da Lenin era un passo indietro rispetto all’ideale comunista puro ma certamente un metodo meno violento e feroce del comunismo di guerra.
Egli non cercava più soltanto concessionari esteri che aiutassero la ripresa economica, ma proponeva in aprile anche di estendere il programma della Nep oltre i suoi limiti originari. Realizzò il suo obiettivo nel maggio 1921, quando la decima conferenza del partito approvò la proposta di rilegalizzare le piccole manifatture private. […] Furono così reintrodotte le pratiche de capitalismo ed ebbe fine il “comunismo di guerra”[7]
La prematura dipartita di Lenin però aprì le porte a Josif Stalin, di natura molto più pragmatico del suo predecessore, vide proprio nello strumento del comunismo di guerra e nel terrore armi da affiancare al culto della personalità del defunto e definitivamente silente Lenin. Il sogno rivoluzionario di quest’ultimo e le mire di esportazione dello stesso sogno nel mondo furono immediatamente ridimensionate. Della N.E.P. (Nuova Politica Economica) di Lenin non rimase traccia e il “comunismo di guerra” venne modificato e ristrutturato, trasformandosi nel primo “piano quinquennale” staliniano.
Nel giro di due anni (dalla dipartita di Lenin n.b.) la Nuova politica economica venne smantellata pezzo dopo pezzo. In agricoltura fu rimpiazzata da un sistema di aziende collettive. Nell’industria da un “piano quinquennale” che assegnava crediti finanziari e obiettivi di produzione a fabbriche, miniere e cantieri. Le aziende commerciali private scomparvero. Si fece diffusamente ricorso alla forza.[8]
Come detto, Stalin, in quegli stessi anni iniziò la creazione del culto di Lenin e dell’ideologia marxista-leninista, ma come Napoleone in Francia utilizzò l’ideologia solo come base della sua politica mantenendone i caratteri utili e depennandone quelli impraticabili o non conformi alla sua personale linea di azione. Così Stalin fece per il culto di Lenin e un primo esempio di questo lo troviamo nella volontà sempre ben fissa nella mente di Lenin di esportare la rivoluzione nel mondo che fu subito accantonata. Stalin capì sin da subito che la nascente URSS era troppo debole e ancora instabile per potersi permettere di perseguire il sogno utopistico di Lenin e infatti questo fu “messo in naftalina” in favore, anzi, di accordi internazionali, atti a favorire lo sviluppo economico-industriale sovietico con il supporto economico e finanziario delle nazioni capitaliste, le quali per Lenin corrispondevano al nemico.
Le banche e il mondo degli affari occidentali erano troppo ansiosi di firmare accordi con l’Urss dopo la grande depressione di autunno. Furono acquistati macchinari moderni, specie da Germania e Stati Uniti. Furono anche firmati accordi per cui grandi aziende straniere si impegnavano a fornire assistenza tecnica nell’ambito di nuove industrie sovietiche. […] Non occorreva neanche che Stalin si desse molto da fare per attenuare le paure occidentali riguardo le intenzioni sovietiche sul piano internazionale. Sotto la Nep egli si era fatto un nome con lo slogan “il socialismo in un solo paese”[9].
Seppur riassunto brevissimamente, anche questo secondo esempio preso in analisi ci dimostra come ancora una volta l’applicazione politica degli ideali di una rivoluzione trova come scoglio la poca pragmaticità di questi ultimi e a volte la poca lucidità dei primi fautori di essi. Lenin con la sua Nep lo aveva capito ma la sua scomparsa lasciò campo libero ad un politico di indole molto più aggressiva come Stalin che vide nello scheletro degli ideali rivoluzionari un forte mezzo per raggiungere il potere assoluto e portare la nascente Urss “in auge” nello scacchiere internazionale quanto prima e ad ogni costo.
Alcune menzioni
Gli esempi storici riguardanti il delicato argomento sinora trattato sono numerosi. Impossibile a tal proposito non citarne alcuni come la grande faida ideologica statunitense tra i presidenti Wilson e Roosevelt.
Teddy Roosevelt believed in the civilizing mission of the Anglo-Saxons in general and the United States in particular. He was a balance of power realist who believed in the use of force, but he coupled that with a moral belief that America could serve humanity by combining power with high purpose. At the same time, he believed that ‘life is strife’, scorned those who dreaded war, and was irritated by what he saw as the unrealistic idealism of Woodrow Wilson.[10]
Gli esempi più “eclatanti” (le Rivoluzioni francese e russa) sono stati previamente analizzati seppur in maniera molto riassuntiva e lo scontro ideologico tra i due famosi presidenti statunitensi è stato altrettanto funzionale al nostro discorso. Un’ultima menzione però è fondamentale. La Rivoluzione russa ha dato il via nel corso di quasi tutto il 900 a numerosi sentimenti rivoluzionari che sono stati perno di altrettanti “bracci di ferro” caratteristici della guerra fredda e dei contrasti tra Urss e Usa. Il più conosciuto? Sicuramente la crisi missilistica di Cuba del 1962, che cela al suo interno un’ultima chiave di lettura del discorso tra grandi ideologi e grandi politici affrontato in questo articolo. La figura di Fidel Castro è da sempre, e probabilmente per sempre, affiancata alla figura del grande rivoluzionario insieme a quella di Ernesto Guevara, ma è proprio fra i due che si coglie appieno la grande differenza tra rivoluzionario e politico.
[Guevara] Rivoluzionario, teorico e uomo politico (Rosario, Argentina, 1928 – Camiri, Bolivia, 1967); laureatosi in medicina, visse per qualche tempo in Messico, dove entrò in contatto con F. Castro, e aderì al suo programma politico. […] All’inizio del 1965 rinunciò alla cittadinanza cubana e a tutti gli incarichi che aveva a Cuba, per poter dedicare tutte le sue energie, come scrisse in una lettera di congedo a F. Castro, “al movimento rivoluzionario in un altro paese del mondo”.[11]
Guevara morì seguendo i suoi ideali in Bolivia, terra straniera che voleva “salvare”, in pieno stile romantico. Degno di Lord Byron, si potrebbe dire ma è su Castro che possiamo reperire le informazioni più interessanti. Castro, un giovane intellettuale, prese con l’aiuto di Guevara il potere a Cuba, spodestando il governo corrotto frutto del protettorato statunitense su Cuba a seguito della vittoria nella guerra ispano-americana.
Cuba era oramai sinonimo non solo di divertimento, ma anche di attività della malavita organizzata statunitense che esercitava la propria influenza sulla prostituzione e sulle case da gioco, il tutto con la connivenza del di un regime sempre più corrotto.[12]
Preso il potere nel 1953, Castro vi stabilì il suo governo rivoluzionario, governo che ebbe una rapida svolta marxista grazie all’influenza e al supporto economico sovietico e culminato con la crisi dei missili del 1962. La storia della crisi dei missili è nota ma molto interessante è la “fine” del periodo marxista cubano di Castro subito dopo la risoluzione degli avvenimenti del 1962. L’Urss agli occhi di Castro aveva ceduto dinnanzi agli Usa e quest’ultimo prese subito lo slancio per fondare una sua ideologia, “il modello rivoluzionario cubano”, da esportare in tutta l’America del Sud. L’evento che però è più di ogni altro significativo per la nostra tesi è la ripresa dei rapporti tra Castro e gli Usa a seguito della crisi, e in particolar modo le parole del leader maximo in relazione all’oramai ex alleato sovietico. Le parole di Castro, che di seguito verranno riportate, sono tratte da un’intervista segreta datata 25 ottobre 1963, alla quale oggi possiamo accedere grazie al sito degli Historycal Documents (FRUS), del governo degli Stati Uniti:
Fidel said that is in our mutual interest to get the soviets out of Cuba, but that as along as the blockade continues, he will not consider such a step. […] He said one of the major reasons for which Cuba needs the Ussr is the shipment of soviet oil, which will not be necessary in approximately five years when Cuba should be able to produce enough of her own.[13]
Le parole di Castro sopracitate, un chiaro tentativo di riconciliazione e convivenza con gli Stati Uniti, sono traducibili in un’assoluta scelta di carattere politico che poco ha a che vedere con l’ideologia nuda e cruda da “grande rivoluzionario” che ci si sarebbe aspettato da una figura come Castro, che a quel punto era “davvero” il presidente della Repubblica Socialista Cubana.
Conclusioni
Il discorso portato avanti in questo articolo è estremamente delicato e spinoso.
La complessità di questo argomento, che rientra a pieno titolo nella filosofia politica, lo rende ricco di spunti di riflessione e molti altri sarebbero gli esempi funzionali al ragionamento. Abbiamo visto anche dei casi in cui l’ideologia è stata tradotta quasi interamente in programma politico (si pensi alla Germania nazista) e ad oggi esistono stati nel mondo dove la religione è stata tradotta in codici penali e civili, influenzando appieno le vite di milioni di persone come in Iran e Arabia Saudita. Il doppio filo che lega i poli della nostra argomentazione sembra essere indissolubile ma un forte insegnamento che possiamo trarre dagli esempi del passato, più o meno recente, mostrato è che l’ideologia “nuda e cruda” non è applicabile in toto come programma politico funzionale. L’ideologia è spesso un sogno, che può diventare realtà ma nei sogni le cose sono spesso diverse e l’applicazione reale di questi può essere pericolosa. Come pericoloso è lo stesso asservimento del sogno ideologico per scopi terzi di personaggi, propriamente detti, politici. Una frase scritta da T. E. Lawrence nel suo libro I sette pilastri della saggezza è quanto mai calzante alla conclusione di questa prima parte del discorso che sarà prossimamente approfondito:
“Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Quelli che di notte sognano nei polverosi angoli della propria mente scoprono, di giorno, che era solo vanità; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogni ad occhi aperti, per attuarlo. Questo io feci. Intendevo creare una nazione nuova, ristabilire un’influenza perduta, dare a venti milioni di semiti le fondamenta sulle quali costruire un ispirato palazzo di sogni per il loro pensiero nazionale. […] Ma, quando vincemmo, mi si accusò di aver messo in pericolo i profitti britannici sul petrolio della Mesopotamia e di aver guastato la politica coloniale francese nel Levante”.[14]
Note
[1] F. Furet, M. Ozouf, Dizionario critico della Rivoluzione francese, Bompiani, Sonzogno 1988, cit., p. 113
[2] F. Furet, Critica della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari 2004, cit., p. 66
[3] Vedi F. Furet, M. Ozouf, Dizionario critico della Rivoluzione francese, p.119
[4] Ivi., cit., pp. 192-193
[5]R. Service, Storia della Russia del XX secolo, ed. Riuniti, Roma, novembre 1999, cit., p. 158
[6] Ivi., cit. p. 157
[7] Ivi., cit. p. 149
[8] Ivi., cit. p. 190
[9] Ivi., cit. p. 198
[10] J. MacGregor Burns and S. Dunn, The three Roosevelts (New York: Grove, 2001); Kathleen Dalton,Theodore Roosevelt: a strenuous life (New York: Knopf, 2002)
[11] https://www.treccani.it/enciclopedia/ernesto-guevara/
[12] A. Varsori, Storia internazionale, Ed. Il Mulino, Bologna 2015, cit. p. 239
[13]https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1961-63v10-12mSupp/d717
[14] T. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Bompiani, Firenze 1949/Giunti Editore S.p.A., Milano 2019, Cit.
Foto copertina: “Bonaparte valica il Gran San Bernardo” (noto anche come Bonaparte valica le Alpi) è un ritratto equestre del primo console Napoleone Bonaparte dipinto da Jacques-Louis David tra il 1800 ed il 1803. Napoleone viene rappresentato al momento del suo attraversamento del Colle del Gran San Bernardo con l’armata che lo seguirà nella vittoriosa seconda campagna d’Italia.