La legge “spazzacorrotti” la Corte Costituzionale boccia il giustizialismo e il simbolismo penale


La legge 9 gennaio 2019 n.3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), presentata dal Governo come “Spazza – corrotti”, è stata, sin dal momento della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, fortemente dibattuta. Recentemente, peraltro, è stata oggetto di una fondamentale pronuncia[1] della Corte costituzionale, la quale ne ha sancito la parziale incostituzionalità.


 

Relativamente al primo profilo – «misure di contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione» – occorre dedicare particolare attenzione agli interventi posti in essere dal Legislatore.
Si è proceduto, infatti, ad un inasprimento delle pene per i reati contro la pubblica amministrazione; è stata introdotta una causa di non punibilità per chi, prima dell’inizio delle indagini preliminari, confessa spontaneamente il reato; sono state introdotte misure volte ad intensificare la penetranza delle indagini penali; sono state introdotte rilevanti modifiche nell’ordinamento penitenziario, oggetto, queste ultime, della citata pronuncia della Corte costituzionale.
Con riguardo all’ultimo profilo richiamato, ossia le modifiche dell’ordinamento penitenziario, occorre fornire qualche precisazione ulteriore.
La legge 3/2019, infatti, ha inserito molti dei reati contro la pubblica amministrazione[2] nell’elenco dei reati c.d. ostativi di cui all’art. 4 bis Legge sull’Ordinamento Penitenziario[3].
Tale circostanza perplime l’interprete sia con riguardo alla reale opportunità di assimilare simili ipotesi delittuose a quelle già previste nell’elenco dell’art. 4 bis ord. pen. (tra i quali spiccano i delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, nonché delitti di associazione mafiosa e reati sessuali), sia in relazione ai profili di diritto intertemporale – di cui il novum legislativo non si occupa – forieri di problemi applicativi alla luce del diritto vivente. L’inserimento dei citati reati contro la pubblica amministrazione nell’elenco dei c.d. reati ostativi di cui all’art. 4 bis ord. pen. ha originato conseguenze tanto serie quanto prevedibili.
Anzitutto, i condannati per reati previsti dal primo comma del citato art. 4 bis possono godere dell’assegnazione al lavoro all’esterno, dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58 – ter della stessa l. 354/1975 o a norma dell’art. 323 bis, co. 2, del codice penale.
Più precisamente, ai sensi della prima delle due norme summenzionate, la collaborazione con la giustizia deve sostanziarsi nell’essersi adoperati, anche dopo la condanna, per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero nell’aver aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati.
Similmente, anche se in modo non del tutto sovrapponibile, l’art. 323 bis co. 2 c.p. prevede una circostanza attenuante a favore di chi, avendo commesso uno dei delitti previsti dagli articoli 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321, 322 e 322 bis, si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite. La condotta descritta in tale disposizione si pone, dunque, come presupposto per la concessione dei benefici penitenziari nonché delle misure alternative alla detenzione.
Orbene, il novum legislativo impone ai condannati di «collaborare con la giustizia», nel senso appena precisato. In assenza di tale collaborazione, l’inclusione dei reati contro la pubblica amministrazione nella “lista” dell’art. 4 bis ord. pen. osta al riconoscimento di tali benefici e tali misure.
Peraltro, proprio tale ultima considerazione insinua il dubbio nel giurista sulla legittimità della norma sotto un diverso profilo rispetto a quello indagato dalla Corte Costituzionale.
I reati originariamente previsti nell’art. 4 bis ord. pen. si segnalano, come anche i reati contro la pubblica amministrazione che vi sono stati aggiunti dalla legge 3/2019, per il forte allarme sociale che generano; essi, tuttavia, si caratterizzano, altresì, per una sorta di presunzione di pericolosità sociale dei loro autori, la quale può – sebbene sia comunque sempre auspicabile il ripudio di qualsiasi presunzione in campo penale – giustificare un regime esecutivo della pena aggravato.
Tale presunzione di pericolosità sociale, però, potrebbe non essere ragionevole nei riguardi dell’autore del delitto, ad esempio, di peculato che, rispetto al condannato per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, normalmente ha un “grado” di pericolosità sociale ben diverso.
Le suesposte argomentazioni acquistano maggiore forza alla luce dell’ulteriore conseguenza pratica generata dalla legge 3/2019.
Occorre, infatti, indagare ancora un altro effetto che “indirettamente” la riforma operata dalla l. c.d. Spazza – corrotti ha prodotto (recte: avrebbe voluto produrre) sui soggetti condannati per reati contro la pubblica amministrazione: il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione.
Ai sensi dell’art. 656, co. 9, let. a), c.p.p., infatti, la sospensione dell’esecuzione della pena non può essere disposta nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4 bis della l. 26 luglio 1975 n. 354, e successive modificazioni.
L’impatto pratico di tale ultima disposizione citata è stato dirompente.
Normalmente, infatti, il condannato in via definitiva ad una pena della reclusione inferiore agli anni 4, può giovare della c.d. sospensione della condanna: il condannato – benché esecutato e come tale destinatario di una sentenza divenuta definitiva ed esecutiva essendo la stessa passata in giudicato – nel rispetto di termini perentori e decadenziali, può promuovere istanza di misura alternativa alla detenzione “da libero”. La ratio del sistema, così come succintamente tratteggiata, è quella di permettere al condannato di chiedere – e, laddove ne ricorrano i presupposti, di ottenere – la misura alternativa alla detenzione mentre è ancora libero.
I reati contemplati nell’elenco dell’art. 4 bis sono esclusi da questo sistema per effetto della citata disposizione processuale. I reati di cui all’art. 4 bis, dunque, sono detti “ostativi” proprio in quanto impediscono al condannato di poter ottenere la sospensione dell’esecuzione inframuraria della pena; in altri termini, in siffatte ipotesi il condannato non potrà promuovere l’istanza di misura alternativa dal carcere.
Orbene, appare evidente l’empasse generata dalla l. 3/2019: si pone il problema, in assenza di una precisazione legislativa, di comprendere se la riforma del 2019, insistendo su una norma pacificamente di carattere non sostanziale bensì processuale, secondo il diritto vivente, debba essere applicata alla luce del principio del “tempus regis actum” ovvero se debba ritenersi che, stanti le enormi ripercussioni pratiche sulle modalità di espiazione della pena e sulla sua natura, debba operare il fondamentale principio di irretroattività della norma penale più sfavorevole, sancito dall’art. 25 comma 2 Cost.
La particolare rilevanza del problema de qua può essere colta già solo in relazione all’ipotesi dell’imputato che abbia patteggiato una pena inferiore ai 4 anni di reclusione, rinunciando a provare di dimostrare la propria innocenza, nella consapevolezza che, comunque, questi avrebbe potuto promuovere l’istanza tesa ad ottenere una misura alternativa senza mai entrare in effettivo stato di reclusione.
Con ben undici ordinanze di rimessione, è stata, dunque, sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 6, let. b), legge 9 gennaio 2019, n.3.
Secondo i remittenti, la citata disposizione sarebbe illegittima nella parte in cui non prevede che le modifiche da essa apportate all’art. 4 bis, comma 1, legge 26 luglio 1975, n. 354, si applichino soltanto ai condannati per atti commessi successivamente all’entrata in vigore nella legge n.3 del 2019.
Più precisamente: da un lato[4], si contesta l’aggravamento delle condizioni per l’accesso ai benefici penitenziari ed alle misure alternative, rispetto a quelle previste al tempo della commissione del fatto. Dall’altro[5], si censura l’impossibilità di procedere a sospensione dell’esecuzione della condanna ex art. 656, co. 9, c.p.p.
In relazione alle richiamate ordinanze di rimessione, occorre osservare che il Giudice delle Leggi ha dichiarato l’infondatezza della eccezione proposta dall’Avvocatura generale dello Stato secondo la quale non sarebbe stato necessario, né opportuno, procedere ad una declaratoria di incostituzionalità poiché sarebbe stato possibile per i giudici del merito operare un’interpretazione costituzionalmente operata.
L’infondatezza di tale eccezione rappresenta la base sul quale edificare ogni successivo ragionamento sul tema.
Secondo il diritto vivente, infatti, “le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione non riguardano l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa e non avrebbero carattere di norme penali sostanziali”. Con la conseguenza che esse sarebbero sottoposte al principio “tempus regit actum” e, dunque, applicabili anche retroattivamente, a fatti anteriori alla loro entrata in vigore.[6]
Il principio di irretroattività della norma penale (sfavorevole), così come presidiato dall’art. 25, co.2, Cost., è stato sempre interpretato, dalla dottrina e dalla Giurisprudenza, come riguardante norme penali sostanziali: esse sarebbero, dunque, quelle che risiedono nel codice penale o in altre norme comunque incriminatrici.
Le norme processuali e quelle relative all’esecuzione della pena, invece, atterrebbero ad un ambito differente, sottratto alla garanzia di irretroattività e regolato dal principio per il quale deve applicarsi la norma vigente al momento in cui essa viene applicata.
Orbene, attenendo i profili di criticità descritti ad una disposizione processuale (il citato art. 656 c.p.p.) e ad una regolante l’esecuzione della pena (il citato art. 4 bis ord. pen.), la conseguenza è che, in assenza di una declaratoria di incostituzionalità, i giudici di merito non avrebbero potuto operare una interpretazione costituzionalmente orientata in quanto essa si sarebbe posta in contrasto col diritto vivente.
Ulteriore profilo problematico[7] del sistema – come novellato nel 2019 – riguarda il presunto contrasto con la normativa convenzionale e, in particolare, con l’art. 7 CEDU.
La Grande Camera della Corte di Strasburgo, infatti, in una pronuncia del 2013[8], ha affermato che, in linea di principio, le norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU, eccezion fatta, però, per quelle che determinano una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della pena inflitta dal giudice».
Volendo riassumere le conclusioni della Corte costituzionale, è possibile essenzialmente evidenziare che l’irretroattività delle sanzioni penali rappresenta un limite dell’esercizio del potere politico, caposaldo e principale baluardo del concetto di “Stato di Diritto”.
La legge non può che esistere per disciplinare casi futuri perché solo in questo modo è possibile apprezzare, in termini negativi, la condotta del soggetto che si pone contro l’ordinamento, violandone le norme; soggetto che è, in ogni caso, titolare del diritto a conoscere con trasparenza le conseguenze della propria condotta.
Ribadito, dunque, il principio per il quale le pene debbano essere eseguite in base alla legge in vigore al tempo della loro esecuzione, occorre osservare che la Corte Costituzionale, nella pronuncia in esame, ha statuito che le regole relative al trattamento sanzionatorio si basano sul bilanciamento di delicati interessi, tra cui si annoverano la tutela dei diritti fondamentali dei condannati ed il controllo della residua pericolosità criminale dei detenuti all’interno e all’esterno del carcere.
La regola descritta, tuttavia, «deve però soffrire un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato».
Orbene, alla luce di quanto esposto, la Corte ha ritenuto che, con riguardo ai meri benefici penitenziari, ed in particolare dei permessi premio e del lavoro esterno, l’art. 25 Cost. non impedisce un’applicazione retroattiva delle modifiche derivanti dalla l. 3/2019. Sebbene tali benefici incidano in modo serio sulla concreta afflittività della pena, v’è da rilevare che una modificazione normativa relativa all’accesso ai citati benefici non modifica la natura né la qualità della pena, con la conseguenza che, trattandosi di norme relative all’esecuzione della pena, devono soggiacere al principio del “tempus regit actum”.
Diversamente è a dirsi in relazione all’accesso alle misure alternative alla detenzione, nonché riguardo al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione che, come si è avuto modo di rilevare, incidono sensibilmente sulla natura e sulla qualità della pena in concreto inflitta.
La Corte Costituzionale, dunque, al riguardo, si pronuncia con una declaratoria di incostituzionalità dell’art. 1 comma 6, let. b), l. 9 gennaio 2019, n.3, stabilendo che le modificazioni introdotte all’art. 4 bis, comma 1, l. 354/1975 si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge 3 del 2019, con riferimento alle misure alternative di detenzione e al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, c.p.p.
La pronuncia oggetto di commento si segnala, invero, per la prevedibilità del suo contenuto. La norma censurata rappresenta, probabilmente, uno dei migliori esempi di simbolismo penale e giustizialismo nella misura in cui si persegue la pretesa di arginare i fenomeni criminali più fastidiosi ed aberranti attraverso un “ceco” aggravamento del trattamento sanzionatorio.
In spregio ai più elementari principi che fondano il nostro diritto penale, il Legislatore sembra aver propeso per pene alte anziché certe, mirando a sanzioni esemplari piuttosto che prevenire realmente, con strumenti extra-penali, l’irrorarsi di certi fenomeni nelle arterie ordinamentali.
La stessa legge 3/2019, peraltro, si segnala anche per aver introdotto una riforma della prescrizione che pone quantomeno il dubbio della sua legittimità costituzionale.
Peraltro, conclusivamente, è lecito porsi il dubbio sulla ammissibilità, nel prossimo futuro, di giudizi volti ad ottenere un risarcimento da ingiusta detenzione promossi da quanti, tra l’entrata in vigore della Spazza – corrotti e la pronuncia della Corte, abbiano trascorso un periodo di detenzione in una casa circondariale.
Da più parti, infatti, si sono levate voci tese ad affermare la grande responsabilità s del Governo che, adesso, si esporrà, triste ironia della sorte, alle richieste di risarcimento avanzate proprio da coloro i quali il provvedimento normativo caducato mirava ad incarcerare.
Del resto, sebbene normalmente si intenda il risarcimento per ingiusta detenzione come il ristoro dell’assolto o del prosciolto il quale abbia subito, appunto, una ingiusta sottoposizione alla misura della custodia cautelare in carcere o degli arresti domiciliari, non c’è dubbio che tale ristoro spetti anche al condannato sottoposto, comunque ingiustamente, ad una di tali misure. Alla luce di quanto detto, il colpevole di un reato contro la pubblica amministrazione che a causa di una legge dichiarata incostituzionale (peraltro prevedibilmente) abbia dovuto patire la detenzione, potrebbe ben ritenere di avere diritto a tale forma di ristoro in quanto, anche se colpevole, non avrebbe dovuto subire alcuna misura e avrebbe dovuto ottenere la sospensione dell’ordine di esecuzione.
Vero è, anche, d’altra parte, che in tal caso non si è trattato di un errore giudiziario, che normalmente legittima simili pretese risarcitorie, bensì di una corretta applicazione della norma vigente. Se vi sono i presupposti per tale indennizzo, lo stabiliranno i Giudici che, certamente, verranno aditi a tale scopo.


Note

[1] Corte costituzionale, sentenza n. 32 del 2020.

[2]Artt. 314 co. 1, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater co. 1, 320, 321, 322, 322 bis.

[3]L. 26 luglio 1975, n. 354.

[4] Ordinanze n. 114, 157, 210 e 220 del r.o. 2019.

[5]Ordinanze n. 115, 118, 119, 160, 161, 193 e 194 del r.o. 2019.

[6]In particolare, punto 4.1.2 della sentenza in commento.

[7]Cfr. punto 4.2.3 della sentenza della corte costituzionale in commento.

[8]Corte Edu, Grande Camera, sentenza 21 ottobre 2013, Rio Del Prada contro Spagna, par. 89.


Foto copertina: Immagine web. Iusinitinere


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