Dall’utopia coloniale del “trasferimento” alla realtà della pulizia etnica: svuotare Gaza rappresenta da decenni l’ossessione irrisolta del progetto di Israele.
Nel cuore della tragedia palestinese, Gaza occupa un posto simbolico e strategico di primaria importanza. Il recente sostegno israeliano alla proposta del presidente statunitense Trump di svuotare Gaza e deportare due milioni di palestinesi verso l’Egitto e la Giordania ha scosso la comunità internazionale, ma in Israele ha incontrato un consenso significativo. Come racconta Alain Gresh (Direttore del quotidiano online Orient XXI, autore di Palestine. Un popolo che non vuole morire, Parigi, 2024. Acquista qui) su Le Monde Diplomatique, questa non è una novità, ma il riemergere di un’idea antica: il “trasferimento”, ossia l’espulsione sistematica dei palestinesi, è da decenni una componente implicita, talvolta esplicita, del progetto sionista.
Gaza: un ostacolo storico
Fin dalla sua creazione come entità territoriale alla fine della guerra del 1948-49, la Striscia di Gaza è stata percepita da Israele come una minaccia permanente e una spina nel fianco. Nonostante non fosse mai stata un’entità amministrativa unitaria sotto l’Impero Ottomano o il mandato britannico, Gaza ha assunto un’identità definita solo dopo la Nakba, accogliendo centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi cacciati dalle proprie case.
Yitzhak Rabin, leader laburista ed ex premier israeliano, affermava nel 1992: “Vorrei che Gaza sprofondasse nel mare.” Una frase che, sebbene accompagnata dalla consapevolezza della sua irrealizzabilità, rifletteva il sentimento condiviso anche da settori “moderati” della politica israeliana.
Il “trasferimento” come strategia
Come evidenziato da Gresh, il concetto di “trasferimento” ha attraversato ogni fase del conflitto israelo-palestinese. Dai piani di insediamento dei rifugiati nel Sinai elaborati con l’UNRWA e poi abbandonati da Nasser a seguito delle proteste popolari del 1955, fino all’occupazione israeliana di Gaza del 1956 durante la crisi di Suez e alla feroce repressione che ne seguì, ogni tentativo di controllo è passato anche per lo spopolamento forzato. Moshe Dayan, allora capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, coglieva in modo crudo il nocciolo della questione: “Vivono nei campi, e davanti ai loro occhi abbiamo occupato le terre e i villaggi dove vivevano loro e i loro padri.”
Gaza: luogo di resistenza e identità
Nonostante i massacri del 1956 e poi del 1971-72 sotto la supervisione del futuro primo ministro Ariel Sharon, la resistenza palestinese si è nutrita proprio delle ferite di Gaza. Da qui si formarono i quadri che avrebbero avuto un ruolo importante in Fatah, in particolare Khalil Al-Wazir (Abu Jihad) e Mohamed Khalaf (Abu Iyad), che sarebbero diventati i principali rappresentanti di Yasser Arafat. A causa delle oscillazioni di Nasser e della subordinazione delle loro richieste alla politica regionale e internazionale del Cairo, continuano a nutrire una tenace diffidenza nei confronti dei regimi arabi. La liberazione dei palestinesi può venire solo dai palestinesi stessi. Nel 1987 fu proprio Gaza ad accendere la miccia della Prima Intifada. La centralità del territorio nella lotta palestinese è stata talmente forte da farne una vetrina della tragedia – e della dignità – di un popolo.
Trump, Katz e il ritorno del sogno espulsivo
Nel contesto del conflitto esploso il 7 ottobre 2023, l’idea del trasferimento ha riacquistato forza. Secondo Gresh, la proposta di Trump rappresenta una svolta: “È probabilmente la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale che un capo di Stato invoca apertamente ciò che il diritto internazionale definisce un crimine contro l’umanità.”
Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha parlato, con eufemismi disonesti, di “partenza volontaria”. Dietro questa retorica, però, si nasconde la vecchia logica: spingere i palestinesi a lasciare Gaza, distruggendo le loro case, negando loro il ritorno e approfittando di ogni “grande agitazione” per accelerare il processo. Come ammette un ministro israeliano citato da Gresh, “è un dolore una tantum, ma possiamo spiegarlo come necessario per la sicurezza.”
Una memoria viva e ostinata
Eppure, ogni tentativo di espulsione ha incontrato e continua a incontrare la resistenza di un popolo che, pur a piedi nudi tra le macerie, torna nei propri villaggi, si riappropria delle rovine e costruisce tende dove una volta c’erano case. Come sottolinea Alain Gresh nel suo articolo, la volontà dei palestinesi di rimanere, di non scomparire, di resistere sulla propria terra, resta la risposta più potente al sogno secolare – ma mai sopito – di svuotare Gaza.
Foto: Rehaf Al Batniji. – De la série « No Shoes to Choose » (Pas de chaussures à mettre), 2023 © Rehaf Al Batniji – rehafalbatniji.com