I riflettori del mondo sembrano riuscire a puntare un singolo scenario per volta mentre gli orrori delle guerre e le loro conseguenze continuano imperterriti. Qualcuno però non dimentica e continua a lottare per salvare e ricucire vite. Dialoghi con Marina Castellano.
Di Andrea Minervini e Antonella Spiridigliozzi
Introduzione
Negli ultimi anni il panorama internazionale ha visto un incremento sensibile delle escalation violente in diverse parti del mondo, un indicatore importante di instabilità e di grandi macro-dinamiche internazionali che stanno cambiando.
Dai focolai di conflitto rimasti più o meno congelati dalla fine della Guerra fredda, passando per gli ampi e complessi teatri di guerra mediorientali dei primi anni Duemila sino a giungere ai più recenti scenari quali l’Ucraina, le violenze dilagano.
A farne le spese sono soprattutto i milioni di persone, civili, che restano coinvolti dallo scontro delle molte agende politiche in campo, che ne spezzano le vite, spesso in modo assoluto o costringendoli a scappare, saltando nel buio.
Troppo spesso a causa della facilità con cui una nuova crisi riesce a “monopolizzare” gran parte dell’attenzione dei maggiori attori di questo violento teatro alcune situazioni non risolte restano in un limbo che quasi mai si traduce in una cessazione delle ostilità. Ne è un esempio l’Afghanistan, tanto discusso e dibattuto e proprio partendo da questa lontana terra impervia abbiamo instaurato un dialogo con una persona che, per passione e per deontologia professionale, come molte altre fortunatamente, non dimentica. Gli occhi che attraversano la complessità della realtà della guerra , le mani che penetrano i corpi per tener stretta la Vita, la voce che allontana l’oblio dell’accanimento sui civili, sono quelli della Dott.sa Marina Castellano, che ci racconta la sua esperienza. Laureata in Infermieristica ed esperta in emergenza clinica, dal 2002 ha collaborato con importanti ONG come EMERGENCY, MEDICI SENZA FRONTIERE, RESQPEOPLE. Ha operato in numerosi teatri di guerra, dall’Afghanistan alla Repubblica Centrafricana, dal Kurdistan alla Libia e alla Sierra Leone. È autrice del libro “Vorrei vedere i bambini giocare. Storie di un’infermiera dentro la guerra” (Acquista qui), un racconto attraverso gli occhi dei bambini e i suoi dalle zone di guerra e di sofferenza che ha toccato con mano e che non ha dimenticato.
L’intervista
Da lunghi anni presta servizio medico in zone di guerra, come l’Afghanistan. Dopo tanti anni di sofferenza come ha percepito questa, se mi passa il termine, “fine” delle cose per il paese? Cosa prova? Tristezza, ingiustizia, frustrazione. E non per quello che è accaduto 2 anni fa, ma per quello che noi Occidente abbiamo portato lì sapendo benissimo che ad un certo punto sarebbe finita così.
Lo dimostra il fatto che appena è successo, ovunque nel mondo, tutti erano indignati pronti ad intervenire e aiutare i “poveri afghani”. Quanto è durato? 2 mesi? Forse anche meno.
Resta il fatto che ora gli afghani continuano a scappare dal loro paese e quando arrivano qui in Italia attraversando il mare o le montagne, con viaggi disperati, dove spesso trovano la morte, non ci sono più le porte aperte delle case per ospitarli, amministrazioni comunali che mettevano a disposizione alloggi, vestiti nuovi.
No, ora arrivano alle frontiere per andare dai loro parenti nelle varie città europee e vengono rimandati indietro dopo essere stati spesso maltrattati, imprigionati, negando loro ogni diritto se non quello di diventare dei clandestini.
Nel suo libro lei ci parla di bambini, vittime innocenti delle “guerre dei grandi”, crede che il trauma che questi hanno vissuto li aiuterà un giorno a ripudiare guerre e conflitti o la trappola della “spirale d’odio” è sempre dietro l’angolo?
Dipenderà da noi. L’odio, la vendetta si può fermare solo iniziando a promuovere la pace con i fatti, ripudiando la guerra. Abbiamo un bellissimo articolo nella nostra Costituzione, l’articolo 11. Ecco, iniziamo a insegnare ai giovani l’importanza di quella carta chiamata Costituzione, l’importanza del rispetto degli articoli che le danno vita. Perché la nostra Costituzione è ancora viva ma dobbiamo essere noi a non minarla, dobbiamo essere noi a rispettarla ogni giorno anche nelle piccole cose quotidiane.
Per i soldati è forse più facile, anche se a grandi linee la bandiera segnata sulle bombe e sui proiettili che li feriscono o uccidono è nota e associata al nemico ma per i civili e i bambini? Ha mai visto qualcuno curarsi del colore della bandiera di ciò che ha spezzato le loro vite in situazioni di emergenza?
Veramente non ho mai visto qualcuno disteso su una barella sfracellato da una mina, crivellato da colpi di kalashnikov curarsi da che parte arrivasse la morte. Quando si sta morendo non si ha più tempo per i pensieri inutili.
Siamo quotidianamente bombardati da notizie e immagini che ci giungono dai fronti di guerra attualmente attivi in ogni parte del mondo. La violenza è diventata, purtroppo, materiale di facile e normale fruizione nelle mani anche (e soprattutto) dei giovanissimi. Come si spiega la guerra, come si educa ad un’etica della pace e della tolleranza ai nostri bambini e ragazzi occidentali, che vivono in tempi e contesti diametralmente opposti?
Raccontando, parlando con loro, non smettere mai di ripetere quanto la guerra sia inutile e stupida. Sempre. I giovani non sono come li vogliamo far passare. Menefreghisti, privi di valori, svogliati, disinteressati, violenti, loro sono esattamente l’immagine riflessa allo specchio di ogni adulto che gli/le è accanto. Siamo noi che dobbiamo cambiare, siamo noi che dobbiamo cambiare quella immagine riflessa nello specchio.
Il caos della guerra rappresenta sicuramente una grave minaccia per le madri e per i neonati che ogni giorno si affacciano ad una vita di incertezza. Quanto può incidere lo stato di stress e paura delle gestanti sulla sicurezza del parto e sullo stato di salute degli stessi nascituri?
Nel 2020 ero in missione a Khost nel sud-est dell’Afghanistan. Ero in un ospedale ostetrico ginecologico. Nascevano 2000/3000 bambini al mese. Le mamme affrontavano viaggi anche di ore per raggiungere il nostro ospedale attraversando zone molto pericolose perché sotto il dominio talebano. Eppure, per loro era importante arrivare da noi perché sapevano che le cure che avrebbero ricevuto erano di alta qualità e gratuite. Per loro era importante far nascere la loro creatura in un luogo sicuro dove le cure erano garantite. Purtroppo troppo spesso le donne gravide sono costrette perché troppo distanti dall’ospedale o per via dei combattimenti nelle loro zone, a rivolgersi a “così dette cliniche private” dove vengono eseguite pratiche che non hanno nulla a che vedere con la medicina vera e sicura. Nel libro parlo di una donna che era arrivata da noi in condizioni disperate per le “cure” che aveva ricevuto in una clinica privata. Il bambino quando è arrivata da noi era già morto ma lei se non fosse stato per l’intervento della nostra dottoressa Zia dello staff nazionale, che l’ha operata in una situazione di elevato pericolo di sicurezza nella safe room, la città era sotto attacco quel giorno, la donna sarebbe anche lei morta. Invece è stata salvata. Le donne sono forti, sono coraggiose. Nulla le può fermare se c’è di mezzo l’amore per un figlio.
Se dovesse fissare un’immagine della vita dei bambini in guerra, della loro quotidianità, della loro sopravvivenza, quale sceglierebbe?
Vederli giocare nonostante tutto. Far correre i cerchi delle ruote con un bastone tra le strade impolverate dei villaggi del Panshir, e fare la gara a chi arriva primo davanti alla bottega del panettiere. E poi ovunque i loro sorrisi, certe volte ancora con le lacrime che scendono sulle loro guance. Ho imparato una grande verità in guerra, nessuno può cancellare il sorriso dal viso di un bambino. Neanche le bombe. Loro sono più forti.
La sua esperienza o evento vissuto più significativo?
Aver massaggiato il cuore di un amico per un tempo indefinito e sapere che non era già più lì. Vedere il suo sangue uscire da quella ferita lì, vicino all’inguine, colare giù dalla barella.
E io continuare ad ogni movimento delle mie braccia su quel torace a ripetere “Dai Tim, dai Tim cazzo, dai…”. Anche ora mentre lo sto raccontando, chiudo gli occhi e lo rivedo lì esattamente come 12 anni fa. Tim era un grande giornalista. Tim era mio amico. La guerra è una merda.
Foto copertina: Curare corpi e vite, dialoghi con Marina Castellano