Il progressivo raffreddamento dei rapporti tra mondo ebraico e Vaticano alla luce della recente riaccensione del conflitto israelo-palestinese.
A cura di Pietro Polieri
Sommario: 1. Il pomo della discordia: la ventilazione papale dell’ipotesi di genocidio – 2. La reazione ebraica e israeliana alle posizioni vaticane – 3. Il de-centramento islamo-palestinese del dialogo tra cattolici ed ebrei da parte di Papa Francesco: da ‘fratelli maggiori’ a ‘semplici comuni amici’ – 4. Conclusioni. Oltre l’‘equi-vicinanza’ multi-solidale bergogliana, il buon senso ‘real-politico-(inter)religioso’.
Il pomo della discordia: la ventilazione papale dell’ipotesi di genocidio
È databile al 17 novembre 2024 la diffusione ufficiale della notizia dell’imminente uscita in Italia, Spagna e America Latina, e progressivamente in altri Paesi, del nuovo libro del Papa dal titolo La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore[1], in cui il capo della Chiesa cattolica interviene su una serie di questioni globali – quali, ad esempio, la famiglia, l’educazione, la questione sociale, la pace, le nuove tecnologie informatiche e intelligenti artificiali, la crisi climatica –, ritenute meritevoli di un complesso di azioni internazionali dall’ampio respiro antropo-politico. Non da ultimo, ma addirittura degno di un rilievo particolare, il problema delle migrazioni, su cui il Pontefice ribadisce la posizione assunta in occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2017, in virtù della quale si debba porre come ineludibile e inderogabile il nodo dei Paesi di origine, le cui condizioni di instabilità e caoticità politica, oltre che di disuguaglianza e ingiustizia sociale, sono ritenute le cause essenziali e precipue dei movimenti migratori. Dopo aver prospettato, per un verso, l’istanza a generare sviluppo in tali Paesi, al fine, soprattutto, di salvaguardare il futuro delle giovani generazioni, l’unica vera incarnazione della speranza per quelle realtà degradate e violentate da un destino avverso e infame, per un altro, l’invito a realizzare un processo di integrazione di tutti i segmenti territoriali coinvolti nella dinamica coatta di cui i migranti sono loro malgrado protagonisti, Bergoglio si trattiene sul nodo inaggirabile dell’accoglienza dei soggetti che fuggono dalle guerre, che, a suo parere, avrebbe caratterizzato il profilo umanitario di alcuni Stati confinanti o comunque attigui ai territori gravati dalle guerre ucraina e israelo-palestinese, ovvero segnatamente la Polonia e la Giordania, che hanno spalancato le porte a vere e proprie ondate di profughi ucraini, da un lato, e palestinesi, dall’altro. Ed è proprio qui che il Pontefice, dopo essersi soffermato a chiarire quanto la Giordania abbia letteralmente salvato i ‘fratelli palestinesi’ dalla carestia che ha colpito Gaza, soprattutto a fronte/a causa delle difficoltà di approvvigionamento di cibo e aiuti di ogni genere (certamente – si legge come sottinteso – non per volontà loro, ma in ragione di precise strategie militari israeliane di ‘razionale affamamento’ della popolazione nemica, come da molte parti e fonti asserito[2]), non solo, attraverso tale solidarietà, mostra particolare vicinanza ai ‘soli’ palestinesi, ma per di più inserisce una valutazione di merito, che sposta a-simmetricamente l’asse della ‘prossimità’ umana e politica papale e vaticana, in particolare, e cristiano-cattolica, in generale, post-pogrom di Hamas, da Israele ai palestinesi: «A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali»[3].
Tale affermazione – che compare, all’interno del volume di Papa Francesco, come un elemento, a dire il vero, distonico, avulso e isolato/slegato rispetto al contesto discorsivo in cui si trova collocato, quasi fosse un pensiero ossessivo ‘vagabondo’ che cercasse per forza un canale ‘qualsiasi’ di espressione, foss’anche in un ambiente espositivo non perfettamente adeguato, per non dire del tutto inadeguato –, a ben guardare, oltre a rappresentare uno ‘schiaffo politico’ inatteso quanto ponderato, data l’assenza di un interfacciamento con la propria struttura diplomatica o la mancata comunicazione a organi di stampa ‘vaticanamente’ con-formi, risulta una forma di allineamento, in merito alla questione dell’inquadramento ‘genocidario’ delle operazioni militari israeliane, con le posizioni assunte tanto dal Segretario delle Nazioni Unite, António Guterres, quanto dalla Corte Internazionale di Giustizia (Cig), organo giudiziario dell’Onu, oltre che, implicitamente, con quelle della Corte Penale Internazionale (Cpi), che ha riconosciuto Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant, rispettivamente primo ministro e (ex) ministro della Difesa dello Stato ebraico, come colpevoli, insieme a e al pari di altri esponenti di Hamas (come Ismail Haniyeh, Yahya Sinwar e Mohammed Deif), di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità[4]. Per alcuni analisti e commentatori l’istanza papale potrebbe essere stata suscitata da almeno due fattori. Da un lato, l’anfibilogicità del linguaggio impiegato dagli israeliani per definire le proprie azioni belliche, che, a fronte, proprio nei giorni precedenti alle dichiarazioni bergogliane, di un attacco mirato sul campo profughi di Bet Lahiya – che aveva procurato almeno dodici morti, poi passati, secondo l’Associated press sulla base delle comunicazioni di Hosam Abu Safiya, medico dell’ospedale Kamal Adwan, a trenta vittime –, sono ordinariamente rubricate come operazioni dovute rispetto a ‘obiettivi terroristici’ annientati durante processi di evacuazione della popolazione palestinese da ‘aree di combattimento attivo’. Dall’altro, la fattuale impossibilità di accedere ai tanti teatri di guerra, dove si consumano atti violenti e uccisioni in assenza di qualsiasi occhio valutativo terzo e neutro, sia giornalistico sia di membri autorizzati di organizzazioni umanitarie non governative o di organismi ufficiali internazionali[5].
L’iniziativa ‘dichiarativa’ del Pontefice, inoltre, va incardinata in una cornice di recenti rapporti internazionali del Vaticano con Israele ben più ampia, e comunque tesa. In effetti Bergoglio, dopo l’attacco disumano di Hamas contro i centri abitati israeliani prossimi al confine meridionale della Striscia di Gaza, ha progressivamente mostrato una certa insofferenza rispetto alle decisioni e alle strategie belliche di Netanyahu e compagni, al punto che, come raccontato da alcuni palestinesi ricevuti nel 2023 in udienza da Papa Francesco, costui avrebbe già in quella sede parlato di ‘genocidio’ per riferirsi alle numerose operazioni militari israeliane, a fronte delle quali aveva invocato insistentemente o tregue umanitarie temporanee o un definitivo cessate il fuoco. Non è bastata, certamente, la smentita del Segretario di Stato Pietro Parolin e tantomeno la sua comunicazione della piena consapevolezza vaticana delle implicazioni delle ricadute internazionali di un’eventuale evocazione papale del termine ‘genocidio’ a convincere gli osservatori e le parti coinvolte nel conflitto a recedere dalla convinzione che proprio quella parola fosse stata impiegata dal Pontefice per descrivere come egli qualificasse i drammatici accadimenti occorsi nella Striscia. Soprattutto se si pensa che proprio la Santa Sede, nella figura dello stesso Parolin, aveva più volte definito gli attacchi israeliani contro i palestinesi in termini di ‘carneficina’ e di ‘reazione sproporzionata’ rispetto al proprio diritto di difesa. V’è, inoltre, da sottolineare che la postura critica di Bergoglio nei confronti di Israele già nel 2023 sarebbe da legare anche alla sua forte preoccupazione per la sorte dei cristiani di Gaza, e in particolare della Parrocchia della Sacra Famiglia, che le Idf israeliane definirono ‘zona rossa’, pronta a essere sgomberata in direzione di due linee di fuga verso sud. Insomma, per una serie di ragioni, per lui del tutto plausibili, il monarca vaticano e guida spirituale della totalità dei cristiani cattolici, dal 2023 a oggi, pur condannando la violenza inaudita dell’attacco terroristico di Hamas contro lo Stato di Israele, ha deciso di assumere nei confronti soprattutto del suo primo ministro Netanyahu e dei suoi sodali governativi una netta posizione di avversione morale e conseguentemente politica, recentemente ribadita da alcuni episodi e circostanze, che secondo la prospettiva israeliana, avrebbero accresciuto ulteriormente la tensione già ampiamente palpabile tra le ambasciate cattolica ed ebraica. In primo luogo, l’assegnazione a persone palestinesi del compito di realizzare la natività esposta nell’Aula Paolo VI in Vaticano per il Natale 2024 e l’impiego della kefiah palestinese per avvolgere Gesù Bambino all’interno della mangiatoia, un dettaglio dell’abbigliamento non indifferente e neutro, se si considera che quel copricapo è notoriamente assurto a simbolo proprio della lotta palestinese contro l’occupazione israeliana. In secondo luogo, le dichiarazioni di Bergoglio in occasione degli auguri natalizi alla Curia il 21 dicembre 2024, concentrate, per quanto concerne il conflitto israelo-palestinese, sull’esclusiva feroce riprensione rispetto ad atti compiuti dagli israeliani. Stando alle parole del Papa, infatti, «Ieri il Patriarca non lo hanno lasciato entrare a Gaza come gli avevano promesso. E ieri sono stati bombardati bambini. Questa è crudeltà, questa non è guerra. Voglio dirlo perché tocca il cuore»[6].
L’accusa bergogliana rivolta a Israele di non stare più procedendo alla messa in opera di una giusta guerra di difesa, ma, in fondo, di uno spietato massacro, anche e soprattutto di bambini indifesi, e quella di stare compromettendo di fatto i rapporti con la Santa Sede, negando l’autorizzazione al Patriarca Pierbattista Pizzaballa di accedere a Gaza per recarsi presso la Parrocchia della Sacra Famiglia in occasione dell’ordinaria, quanto rincuorante, visita pastorale per la Vigilia di Natale agli ormai pochissimi cristiani lì ancora residenti e resistenti – circostanza, questa, però del tutto smentita dalla Sala Stampa dell’Ambasciata israeliana in Vaticano –, ha generato un terremoto diplomatico di notevoli dimensioni, che si può ritenere, con uno sguardo analitico nemmeno troppo acuto, come difficilmente contenibile e risolubile, almeno nell’immediato, e che starebbe allontanando in misura crescente due universi culturali e religiosi, come quello cristiano(-cattolico) ed ebraico, che nel corso del tempo hanno duramente, ma con profitto, faticato per appianare longeve frizioni e vicendevoli pregiudizi che avevano caratterizzato la storia dei loro rapporti.
La reazione ebraica e israeliana alle posizioni vaticane
La prima tra gli ebrei a rispondere, in Italia, per le rime e con un piglio acceso alle affermazioni di Papa Francesco del novembre 2024, che si sarebbero ritrovate di lì a poco nel suo libro autobiografico, è la scrittrice italo-ungherese, testimone diretta della Shoah, Edith Bruck, la quale rimanda all’eminente mittente cristiano il pesante addebito agli israeliani-ebrei di genocidio. Che lei ritiene, al contrario, sia praticato da Hamas in due sensi: nei confronti dello stesso popolo palestinese, che ha volontariamente, inutilmente e dannosamente esposto a un conflitto non necessario, nonostante i pregressi irrequieti rapporti con gli israeliani; nei confronti degli ebrei, che in modo statutario dichiara di voler eliminare/sterminare ovunque si trovino nel mondo. Per Bruck, che pure riconosce al Papa sensibilità per la condizione vissuta in passato dal popolo ebraico – avendo(le) lui personalmente chiesto perdono per la quota di responsabilità, in tale direzione, ascrivibile ai cristiani nel tempo storico –, le parole del Pontefice sono scarsamente pesate, sia a causa di una sua impropria gestione linguistica del lessico italiano impiegato, sia, conseguentemente, per una sua incapacità (e di quella dei suoi collaboratori) di piena comprensione delle implicazioni e delle conseguenze dell’uso contro lo stesso Israele di una costellazione significale, quale quella di ‘genocidio’, che ne ha storicamente contrassegnato in negativo l’identità, ferendola onto-costitutivamente. Per questo la parola genocidio sarebbe stata utilizzata dal Pontefice in maniera eccessivamente plastica e leggera, addirittura inconsapevole, tenuto conto del fatto che il suo stesso conio avrebbe trovato nella drammatica vicenda sterminazionistico-ebraica di fattura nazista la sua profonda e fondativa ragione. Mettere, dunque, oggi proprio contro gli ebrei quel concetto operativo di genocidio, che la storia di soprusi e violenze da loro subìti ha contribuito storicamente a foggiare, parrebbe configurarsi, insomma, come una vera e propria beffa, dopo l’immenso danno patito. Così facendo, per Bruck, non solo si andrebbe perdendo la ponderosità e la radicalità tragica della realtà che quel termine si impegna a designare, consentendo a esso di applicarsi indiscriminatamente e indifferentemente a scenari, secondo lei, del tutto incomparabili con quello ebraico-olocauistico (e anche con quello armeno), ma addirittura si smentirebbero e si dismetterebbero alcuni suoi requisiti definitori, come l’intenzionalità stato-pianificativa, la sistematicità eliminazionistica e la larghezza di scala operativa della pratica antropo-annichilativa. Inoltre, ribadendo l’unicità del carattere genocida della Shoah, lancia l’allarme di un suo impiego comparativo con altri fatti storici e di cronaca, pur drammatici in termini di elisione di vite umane, del tutto improprio, che impedisce a questi ultimi di trovare un idoneo inquadramento classificatorio e categorizzativo[7].
Sulla linea di Edith Bruck, in quei giorni infuocati dalle parole del Pontefice, si muove anche, in maniera ufficiale, l’Ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Yaron Sideman, il quale, oltre a ribadire l’uso indebito del termine genocidio in relazione all’operato esclusivamente difensivo di Israele, rispetto a all’azione condotta da Hamas, quella, sì, da giudicare come intenzionalmente ‘genocida’ nei confronti di concittadini israeliani, colpevoli solamente di essere tali, considera le affermazioni del capo della Chiesa cattolica come pericolose in termini di economia delle relazioni internazionali e di equilibri geopolitici, in quanto, a suo parere, contribuiscono pericolosamente a isolare Israele[8].
Al momento di tale dichiarazione, la preoccupazione manifestata dal diplomatico ebreo si salda, certamente, con la sua piena consapevolezza di una crescita e di una diffusione esponenziali dell’antisemitismo in tutto il mondo sia come rigurgito appendicolare di un odio antiebraico mai veramente sopito e, nella fattispecie, da molti (incredibilmente) giudicato come ‘positivamente’ reattivo rispetto all’eccidio del 7 ottobre da parte di Hamas, sia come forma di solidarietà nei confronti della causa ‘resistentiva’ palestinese e delle sue vittime provocate dalle azioni belliche israeliane, cosa che ha rinfocolato una sorta di antisemitismo ideologico di ‘altro colore politico’ rispetto a quello ordinariamente connotante l’avversione nei confronti degli ebrei. Per di più la replica di Sideman risulta ancora più piccata e irritata visto che la posizione papale anticipa di solo un giorno, pienamente conformandosi a esso, il Rapporto del ‘Comitato speciale per indagare sulle pratiche israeliane che incidono sui diritti umani del popolo palestinese e degli altri arabi dei territori occupati’[9], i cui esiti sembrano proprio rispondere puntualmente alla domanda di Bergoglio di indagare scientificamente sull’ipotesi di genocidarietà delle azioni belliche israeliane nei confronti dei palestinesi. Infatti, tale documento, pronto già dal 20 settembre 2024, sentenzia in modo lapidario che lo Stato ebraico, a partire dal periodo immediatamente successivo all’attacco di Hamas nell’ottobre 2023, ha impiegato l’esercito per violare i diritti umani dei palestinesi, non solo con azioni militari, ma anche attraverso il taglio o l’impedimento di forniture di beni essenziali, quali cibo, acqua, carburante e aiuti umanitari. Israele, inoltre, anche per mezzo di una vera e propria censura mediatica e della repressione del dissenso interno, ha impedito che l’opinione pubblica ecumenica venisse a conoscenza, diretta e immediata, sia della catastrofe ambientale-umanitaria di Gaza sia dell’impiego bellico israeliano anti-etico dell’Intelligenza Artificiale, finalizzato alla distruzione intenzionale/mirata del popolo palestinese. Nei confronti del quale, dunque, Israele, secondo i risultati raggiunti da tale Rapporto, ha realizzato una serie di azioni compatibili con la fattispecie del gravissimo e deprecabile reato di ‘genocidio’. A domanda bergogliana, quindi, risposta istantanea e fulminea dell’Onu. Di qui, ovviamente, il risentimento diplomatico di Sideman, che, a guardar bene, in termini di incisività, si presenta addirittura meno veemente rispetto a quello assunto dalle dichiarazioni di altre personalità del mondo dell’ebraismo, soprattutto italiano, come il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni. La cui risposta dalle colonne del Corriere della Sera non si fa attendere, se non qualche giorno, giusto per affilare adeguatamente la lama della critica: «Considerando ciò che è stato detto fin dall’inizio dalla massima autorità cattolica sulla guerra in Israele, penso ci sia stata una escalation dal 7 ottobre in poi: il riferimento al genocidio è un nuovo gradino, il più alto. Le critiche del Vaticano sulla condotta di Israele sono una questione molto complessa: di orientamento politico e di indirizzo morale. Nell’indirizzo morale, additare una intera collettività come responsabile di genocidio è molto rischioso. L’accusa è carica di simboli. Il popolo ebraico, con la Shoah, è stato vittima di un vero e proprio genocidio. Dagli anni ’60 c’è stata una diffusa volontà di attutire l’impatto di quella tragedia. Addirittura si capovolgono i ruoli: la vittima diventa carnefice. Ma la volontà genocidaria era di chi il 7 ottobre ha attaccato Israele»[10].
Di Segni, in quell’intervento pubblico, non lesina, inoltre, disapprovazione nei confronti dell’intera comunità internazionale, che, mentre, da un lato, anche e proprio con il supporto vaticano, stigmatizza l’ipotetica volontà criminale di Israele di distruggere il popolo palestinese – quando, al contrario, lui crede fermamente che si tratti di legittima difesa da parte di uno Stato aggredito –, dall’altro, in vero, non dedica una riflessione paritetica all’intento, per di più dichiarato, dell’Iran di annichilire completamente lo Stato ebraico, quasi che ciò fosse del tutto razionalmente accettabile e per di più meno grave. Con ciò Di Segni sostiene di non voler assolutamente minimizzare alcuni eccessi della condotta bellico-militare dell’esercito israeliano, tuttavia sottolinea l’ingiustizia nella criminalizzazione di una sola parte in causa, ovvero quel popolo ebraico che si starebbe battendo solamente affinché, eradicandola completamente, sia eliminata la causa di una possibile replicazione, nel presente o nel prossimo futuro, delle violenze perpetrate a danno degli ebrei nell’ottobre 2023. Assodato questo una volta per tutte, Di Segni ritorna a tamburo battente sulla questione dei rapporti tra mondo ebraico e Chiesa cattolica nella fase post-7 ottobre, rimarcando che quest’ultima, attraverso la sua più alta carica, abbia scelto, in fondo, con quali particolari vittime stare/schierarsi, dal momento che, per quello che concerne il fronte ebraico del conflitto, sarebbero riemerse con preoccupazione figure archetipiche del pregiudizio cristiano anti-giudaico, come l’immagine vendicativa degli ebrei e quella della loro sete di sangue innocente, date le tante morti provocate dalle azioni militari israeliane che hanno coinvolto numerosi bambini. In tal senso, Il Rabbino Capo di Roma constata che i rapporti tra Vaticano ed ebrei – che non possono non passare anche dal modo di interpretazione delle tragiche vicende in corso, che vedono Israele combattere contro l’odio antiebraico del palestinese Hamas – si stiano progressivamente raffreddando e stiano per giunta regredendo a uno stadio addirittura precedente il Concilio Vaticano II, momento in cui si condusse a compimento quel processo, lungo e complesso, di avvicinamento tra due mondi fino ad allora vicendevolmente incompatibili e ostili, che sarebbe veramente e straordinariamente colpevole sciupare. Per questo, Di Segni, valutando che, dal momento della robusta risposta israeliana alle nefandezze di Hamas, a livello mondiale si sia riprodotto e ripresentato un certo grigio e minaccioso ambiente di incipiente e rinvigorito antisemitismo, invita i cattolici, soprattutto delle alte sfere, a evitare di fornire in alcun modo argomenti e segnali di una qualche loro forma di (storica) avversione profonda nei confronti degli ebrei, che passano indirettamente per l’asimmetrica (attuale) fraintendibile/fraintesa solidarietà, pur tutta umana, nei confronti delle vittime palestinesi di un conflitto – in sé da giudicare sempre come un crimine –, che vede, però, troppo spesso, dimenticati gli oppressi e i caduti israeliani, in nome dei quali e per difendere i connazionali dei quali l’atroce guerra viene condotta: «L’Italia è un Paese formalmente cattolico ma con una realtà variegata: magari ascolta ciò che dicono le gerarchie ma poi ragiona di testa sua. La faccenda è più complessa. C’è uno scatenamento mediatico che ha creato un’atmosfera avvelenata provocando insicurezza nella comunità ebraica italiana. Io stesso, circa dieci giorni dopo il 7 ottobre, vicino casa sono stato aggredito da un passante di mezza età che mi aveva riconosciuto e che mi ha dato del massacratore di bambini. È come se ci fosse un pacchetto già pronto prima del 7 ottobre: e che ci sia un sostegno religioso a questi pericolosi atteggiamenti appare molto grave»[11].
Rispetto alla posizione papale sul comportamento militare di Israele nel conflitto che vede quest’ultimo impegnato con(tro) Hamas dal famigerato 7 ottobre 2023, Di Segni non è certamente nuovo a espressioni così taglienti e prive di filtri. Lo aveva già (di)mostrato in passato, più precisamente durante la conferenza organizzata il 17 gennaio 2024 presso l’Università Gregoriana di Roma in occasione della 35ª Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei. In quella circostanza a riprendere l’episodio è proprio un collega gesuita di Bergoglio, ovvero Padre David Neuhaus, corrispondente da Israele per la Rivista La Civiltà Cattolica, che analizza l’intervento del religioso ebreo romano: «il rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, ha lamentato la mancanza di solidarietà cattolica verso il popolo ebraico. Nel suo intervento, ha affermato cha ai più alti livelli della Chiesa si sarebbe dichiarato “che siamo tutti terroristi. Sono stati messi sullo stesso piano gli autori di un terribile massacro e coloro che cercano di eliminare questa minaccia e di evitare che si ripeta”. Così ha proseguito, criticando la posizione del Papa: “Chi fa il male, deve essere sconfitto, come accadde con i nazisti nel 1945. E non si può accettare l’idea che la guerra sia di per sé una sconfitta per tutti. Questo non autorizza qualsiasi cosa, ma non si può mettere sullo stesso piano chi soffre un abuso incredibile e chi cerca di eliminare l’origine e la ripetizione di questo abuso. C’è stata mancanza di sensibilità”»[12].
Le sferzanti parole di Di Segni in quella particolare circostanza vennero pronunciate a fronte di un’espressione bergogliana, esposta nel corso dell’Udienza Generale del 22 novembre 2023, che in tutto il mondo ebraico fu colta come una volontà di ingenerosa e sconveniente paritetificazione tra l’operato del gruppo terroristico palestinese di Hamas e quello militare, regolare e difensivo, di Israele: «Questo non è un guerreggiare, questo è terrorismo»[13]. Parole che hanno anticipato quelle tuonanti nel Messaggio papale Urbi et Orbi per la Pasqua 2024, che veicolarono la convinzione, altrettanto avvertita come ‘omogeneizzante’/‘livellante’ le responsabilità delle parti, per cui «La guerra è sempre un’assurdità, la guerra è sempre una sconfitta»[14]. All’epoca l’intervento di Di Segni non fece altro che andare a inserirsi nel profluvio incessante di repliche impetuose e incontenibili da parte di altri soggetti ebraici, non solo a fronte di tali particolari dichiarazioni pontificie, ma di un complessivo atteggiamento ‘vaticano’, ‘ufficiale’, guardato ormai come ‘a-simmetrico’ e parziale, nei confronti e a detrimento di Israele, che addirittura datava all’Udienza Generale dell’11 ottobre 2023, quando, a qualche giorno dal pogrom hamasiano e dall’avvio dell’Operazione ‘Spade di Ferro’ israeliana, Bergoglio si espresse nei termini seguenti: «È diritto di chi è attaccato difendersi, ma sono molto preoccupato per l’assedio totale in cui vivono i palestinesi a Gaza, dove pure ci sono state molte vittime innocenti»[15]. Davanti, dunque, alla progressiva formazione di una sorta di ‘pensiero vaticano’ sulla questione israelo-palestinese e, in modo precipuo, sulle responsabilità ‘evidenti’ del governo e dell’esercito israeliano, a intervenire, accanto a Di Segni, in tempi e modi diversi, e anche rispetto a differenti specifiche questioni, accomunate dal giudizio papale-ecclesiastico del tutto uniformemente negativo sull’operato dello Stato ebraico, sono, ad esempio, il ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, che rigetta qualsiasi parallelismo tra Israele ed Hamas; quattrocento ebrei, impegnati nel dialogo ebraico-cattolico, che (sotto)scrivono una lettera a Bergoglio, il 12 novembre 2023, affinché la Chiesa ripristini la sua funzione di faro di chiarezza morale e concettuale e riporti alla consapevolezza della distinzione tra la legittima critica nei confronti di Israele e la richiesta di negazione di questo e dei suoi abitanti ebrei, ma soprattutto si impegni a condannare in modo inequivoco la violenza e i massacri di Hamas contro gli ebrei; il Rabbino Capo di Milano, Alfonso Pedatzur Arbib, che rimprovera al Papa di non aver trattato con una speciale ‘esclusiva’ solidarietà gli ebrei, parenti degli ostaggi israeliani, nei giorni in cui Bergoglio incontrava, contemporaneamente, anche quelli delle vittime palestinesi; il Rabbino Capo del Sudafrica, Warren Goldstein, insofferente per l’accostamento papale tra Hamas e Israele e pronto a identificare, per converso, l’immagine di Papa Francesco con quella di Pio XII, nel senso della ripresa di certa funzione anti-giudaica vaticana; Il Rabbino Capo inglese, che sollecita il Pontefice a espiare i suoi peccati nella sua stessa funzione di capo della cristianità cattolica[16].
Insomma, un corpo, articolato quanto screziato, di interventi polemici si è andato pian piano costituendo letteralmente (e metaforicamente) come ‘contr-altare’ rispetto alle prese di posizione di Papa Francesco, e attraverso di lui, della Chiesa nella sua totalità – nonostante in essa siano ravvisabili sensibilità differenti e autonome rispetto a quella che ufficialmente vuole imporsi e con-formarsi alla linea internazionale oltremodo critica nei confronti di Israele, rappresentata dagli organi, soprattutto giudiziari, ma anche squisitamente politici, dell’Onu. In tale congerie di convincimenti e pareri ebraici/israeliani contro-cattolici sulla questione israelo-palestinese spicca, per la sua capacità di rappresentare la sostanza fondamentale e il cuore semantico degli stessi, la postura critica della Presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei), Noemi Di Segni, esposta in una densa recentissima intervista[17]. In essa emergono, infatti, 1) la sottolineatura che l’apertura delle porte sante in occasione del Giubileo, ordinariamente concepibile come dischiusura simbolica, quanto effettuale, di quelle del dialogo, soprattutto tra cristiani-cattolici ed ebrei, laddove si insista da parte papale preferibilmente e/o unicamente sui soli aspetti negativi registrati nel comportamento reattivo di Israele rispetto all’attacco di Hamas e non si investa, invece, sul teorema della generale responsabilità (congiunta) della convivenza, potrebbe, al contrario, significare il passaggio a un periodo di depressione di quello stesso dialogo; 2) l’invito a Chiesa e ad altre agenzie, di stampo tecnicamente progressistico, a non dimenticare di stare avendo a che fare con uno stato democratico, qual è appunto Israele, a differenza di altri soggetti collettivi, anche statuali, che, al contrario, si fanno beffa della democrazia, come l’Iran, che tiene in ostaggio, per ragioni ancora insondabili, se non quella, vagamente esposta dal governo della repubblica sciita, d’aver violato la legge iraniana, una giornalista italiana, Cecilia Sala, per la liberazione della quale si presenta difficoltosa la stessa attivazione di un ordinario canale diplomatico[18]; 3) l’istanza – che deriva dalla presa d’atto delle sempre più numerose e concordemente uniformi posizioni anti-israeliane – a perfezionare e ad approfondire la conoscenza del mondo mediorientale, cosa che, da un lato, inibirebbe la formulazione di slogan con i quali i politici occidentali pensano di affrontarne la complessità e scioglierne i nodi politici, dall’altro, consentirebbe di comprendere che il terrorismo, che in quelle aree del mondo trova sempre nuove e buone ragioni per generarsi e riprodursi, conosce, al converso, così bene il mondo occidentale da introdurvisi con facilità e da modellarlo a suo piacimento, addirittura ottenendo il risultato di porlo contro se stesso, semmai proprio attribuendo a suoi rappresentanti statuali, quale appunto Israele, connotazioni radicalmente negative – come quella di ‘stato terroristico’ – che meglio, invece, si addicono a quello; 4) la sollecitazione alle istituzioni, politiche e religiose, a evitare quello che definisce ‘l’automatismo del genocidio’, ovvero la meccanica identificazione della risposta militare israeliana con atti di segno etno-eliminazionistico, grazie al quale, molto probabilmente, non si ottiene se non l’esito di confortare, forse al di là delle proprie medesime intenzioni, pericolose riemergenti espressioni gruppali neonazistiche, che, certo, non hanno bisogno di ulteriore benzina ed energia ideologica per giustificarsi. Per N. Di Segni uno dei punti di forza nella lettura di quanto sta accadendo attualmente in Medio Oriente tra Israele e Hamas è lo svincolamento da interpretazioni politiche conformistiche e propagandisticamente generalistiche, da tralasciare preferendo a esse una valutazione dei fatti diretta, ‘sul campo’, così come lei stessa suggerisce in riferimento al caso della narrazione dell’attacco israeliano dell’ospedale di Gaza di qualche giorno prima del rilascio della sua intervista e della configurazione della situazione ‘pseudo-rivoluzionaria’ e ‘neo-libertaria’ in Siria: «“Nell’attacco all’ospedale di Gaza di qualche giorno fa sui giornali italiani si leggeva solo che erano morte 50 persone. Ma si ometteva completamente di dire che quell’ospedale era una base operativa di Hamas, con le armi nascoste tra i reparti, in corsia. Così come si è omesso di dire che il direttore dell’ospedale fosse anch’egli un terrorista”, argomenta Di Segni. “Noi occidentali abbiamo questa mentalità. Non sappiamo come sono fatti gli altri, conosciamo poco il medio oriente. Eppure non rinunciamo a prendere posizioni forti. Come stiamo vedendo anche adesso a proposito della situazione in Siria. È bastato vedere qualcuno in giacca e cravatta per crederlo rassicurante. Il vantaggio di Hamas, la ragione per cui sta vincendo la guerra mediatica, è che invece ci conosce bene, conosce le nostre debolezze, vi si insinua. E lo fa, pur di vincere questa guerra mediatica, sacrificando il proprio popolo, che viene usato come uno scudo”»[19].
Secondo la Presidente dell’Ucei, atteso che sia del tutto necessario per l’Europa costruire una propria politica di sicurezza, dopo l’attentato di Amsterdam e le numerose manifestazioni di dissenso nei confronti di Israele, al limite con, se non proprio sfocianti, a suo parere, in espressioni di antisemitismo, e stante la consapevolezza che il radicalismo islamico si sia infiltrato nel mondo occidentale, al punto da farne vacillare i valori di libertà e democrazia, non rimane che, per un verso, cogliere la nodalità della difesa di Israele quale strumento extra-continentale di protezione degli stessi popoli europei, per un altro, attendere le mosse del nuovo presidente statunitense Donald Trump, con l’auspicio che la guerra, in senso assoluto, possa terminare a stretto giro. Ciò che, però, appare altrettanto chiaro a N. Di Segni, soprattutto se non dovesse cambiare la cifra dell’interpretazione papale dei fatti bellici che riguardano Israele e Hamas, è proprio la difficoltà nei rapporti ufficiali con la Chiesa cattolica: «“Le ultime dichiarazioni del Papa sul conflitto in medio oriente, le accuse a Israele, mettono a rischio il dialogo maturato negli ultimi 60 anni. Se prima del 7 ottobre sarebbe stato normale invitarlo in sinagoga, adesso la vedo molto difficile. Non è più una scelta scontata e ovvia”»[20]. Per questo non è per nulla indifferente che, in qualche modo, sulla questione politico-militare che coinvolge lo Stato ebraico e i palestinesi si tenti di ristabilire un asse comunicativo trasparente e moderato tra la Santa Sede e il maggior numero possibile di agenzie ebraiche laiche e religiose, ma anche una piattaforma discorsiva con la sfera diplomatica israeliana, grazie a cui consentire, indirettamente ma proficuamente, il veicolamento del processo di ‘ri-dialogizzazione’ tra cristianesimo cattolico ed ebraismo, sempre più minato alle sue basi da innesti ideologici e politici terzi, estranei, per contenuti e linguaggio, alle due tradizioni abramitiche.
Il de-centramento islamo-palestinese del dialogo tra cattolici ed ebrei da parte di Papa Francesco: da ‘fratelli maggiori’ a semplici comuni amici
Una volta riferito puntualmente sulla reazione israeliana ed ebraica a quelle che sono considerate, dal lato ‘giudaico’, precise scelte (anti-)diplomatiche e ‘di parte’ del Pontefice e, allo stesso tempo, ponderate provocazioni nei confronti del governo Netanyahu, mentre dal lato palestinese, un’estrinsecazione coraggiosa di sensibile solidarietà umana nei confronti della propria causa nazionalistico-autodeterminativa e della propria tragica condizione dis-umana a causa della ferocia della guerra in corso, è opportuno provare sinteticamente a comprendere che lo specifico orientamento bergogliano nei confronti dell’attuale politica israeliana si inscrive in un ben più articolato generale complesso teoretico-teologico e geopolitico, che neo-gesuiticamente intende rinnovare lo statuto, la natura, l’operatività e le finalità del dialogo interreligioso, in generale, e di quello cattolico-ebraico, in particolare. A gettare luce su tale nuova direttrice papale-vaticana è ancora una volta il confratello di Bergoglio, David Neuhaus, il quale, nell’articolo citato nel presente contributo, ne espone con dovizia di particolari e con una certa enfasi compartecipativa le rigeneranti connotazioni. Innanzitutto, per poter far emergere gli elementi inediti e innovativi della posizione di Francesco, soprattutto sul dialogo cattolico-ebraico, non solo richiama la Dichiarazione Nostra aetate[21], del 1965, unitamente al documento, pubblicato nel 2015, celebrativo dei cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, dal titolo Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili[22], ma soprattutto cita accuratamente il ruvido commento del rabbino David Rosen, all’epoca della presentazione di quel testo in Vaticano direttore internazionale per gli Affari interreligiosi dell’American Jewish Committee, secondo il quale quel testo cattolico, che avrebbe dovuto essere confirmativo di una certa ormai storicamente consolidata intesa tra cristiani ed ebrei, fondata sulla conoscenza reciproca dei capisaldi delle due realtà religiose, mancasse completamente del riferimento a quella fondamentale componente identitaria rappresentata per l’appunto dalla Terra di Israele, necessaria per la qualificazione del popolo ebraico in tutti i segmenti del tempo storico. Questo per dire, dunque, che Bergoglio è sempre stato perfettamente conscio di tale imprescindibile valore ‘terraneo’/‘territoriale’ di Israele, considerato ‘(auto-)costitutivo’ per gli ebrei, tanto più che, come ricorda lo stesso Neuhaus, a sollecitarglielo memorialmente vi era anche l’altro documento, che sicuramente ben conosceva, confezionato nel 2000 da alcuni ebrei coinvolti in prima persona nel dialogo con i cattolici, dal titolo Dabru Emet (‘Direte la verità’)[23], in cui, laddove non fosse stato ancora troppo chiaro, si ribadiva con esplicitezza e convinzione quanto la restaurazione dello Stato d’Israele nella Terra promessa fosse da giudicare come l’evento più importante dopo la tragedia olocaustica, cosa che, si scrisse, anche molti cristiani già avevano riconosciuto e condiviso per ragioni non squisitamente politiche[24]. Tuttavia, la linea seguita dal Pontefice è stata ed è attualmente in controtendenza rispetto a tale sensibilità e autocomprensione ebraica, dal momento che inclina evidentemente per un’inserzione determinante delle richieste e delle aspettative del popolo palestinese, tanto che, a prescindere dalle dichiarazioni terraneo-israelo-centriche degli ebrei con cui (tradizionalmente) ‘deve’ dialogare, Papa Francesco, in merito proprio alla questione israelo-palestinese, dirotta la (sua) Chiesa su posizioni filo-arabo-islamiche, tanto da curvare, nonostante le tante difficoltà e resistenze d’ordine internazionale, in direzione di una sua soluzione a due Stati sovrani, orientamento che bene esprime Neuhaus: «Tuttavia va ricordato che quella terra è anche la casa dei palestinesi. La massiccia migrazione ebraica in Palestina iniziò a ondate alla fine del XIX secolo. La maggior parte degli ebrei che arrivarono fuggivano dall’antisemitismo europeo. Nel 1917, quando gli inglesi promisero agli ebrei una patria in Palestina, essi costituivano il 10% della popolazione. Quando nel 1947 l’Onu decise di dividere il territorio in due Stati – uno per gli ebrei e uno per gli arabi –, gli ebrei rappresentavano meno del 35% della popolazione. Oggi in Israele/Palestina ci sono sette milioni di ebrei israeliani e sette milioni di arabi palestinesi. La Santa Sede, in sintonia con la comunità internazionale, propende per una soluzione del conflitto basata su due Stati: uno Stato per gli israeliani e uno Stato per i palestinesi. Ciò è stato ripetuto regolarmente negli ultimi mesi dalla Segreteria di Stato. Il cardinale Parolin, in un’intervista, nell’ottobre scorso, ha asserito: “A me sembra che la maggiore giustizia possibile in Terrasanta sia la soluzione di due Stati, che permetterebbe a palestinesi ed israeliani di vivere fianco a fianco, in pace e sicurezza, venendo incontro alle aspirazioni di gran parte di essi. Questa soluzione, che è prevista dalla comunità internazionale, ultimamente è sembrata ad alcuni, sia da una parte che dall’altra, non più realizzabile. Per altri non lo è mai stata. La Santa Sede è convinta del contrario e continua a sostenerla”. La soluzione dei due Stati faciliterebbe sicuramente le relazioni tra Israele e la comunità internazionale, inclusa la Santa Sede. Si tratta di una questione politica e diplomatica da risolvere attraverso i canali appropriati»[25].
Per la Chiesa di Francesco, dunque, la posizione da assumere, per lo meno nella specifica situazione dell’annoso conflitto israelo-palestinese e rispetto alla drammaticità degli attuali eventi bellici, deve essere quella più prossima alla comunità internazionale, ovvero di condanna, certo, delle atrocità commesse da Hamas nei kibbutzim israeliani il 7 ottobre 2023, ma anche, e ora soprattutto, delle azioni militari scriteriate e sproporzionate decise e realizzate dall’esercito israeliano su ordine del governo ultra-destrorso/ultra-ortodosso di Netanyahu. Per Francesco, in pratica, si tratta di ‘cambiare aria’ nei rapporti con Israele, di aprire le finestre a una nuova modalità di intendere i rapporti con tale Paese e con la sua cultura, per molta parte improntata – latentemente anche nelle sue manifestazioni più laiche – a una dimensione religiosa. In ambiente progressista, qualche analista, già all’epoca delle esternazioni bergogliane sull’ipotesi di genocidio israeliano a danno dei palestinesi, sosteneva che le parole del Papa fossero da considerare il segnale di un cambiamento di passo nel modo di intendere la relazione con gli ebrei e, soprattutto, con Israele, ormai privato (da Bergoglio, in sintonia con gli orientamenti della gran parte degli Stati a livello mondiale) di qualsiasi «trattamento speciale» da ricondurre a «una storia drammatica»[26]. Per questo, per quanto Nostra aetate abbia costituito il rilancio di un rapporto, nel tempo, controverso e contraddittorio tra cristiani ed ebrei, viene attualmente considerato in casa vaticana, gesuitico-bergogliana, solo uno dei passi della e nella ri-costruzione del dialogo con gli ebrei: se i cattolici, grazie a esso, hanno potuto cancellare, assieme all’accusa rivolta loro di deicidio, tutto l’armamentario mitico-figurativo pregiudiziale anti-giudaico, base inevitabile per sovrapponibili/sovrapposti costrutti anti-semitici, ora tocca agli ebrei, e soprattutto agli israeliani, principalmente quelli animati da un profondo quanto non maggioritario e non diffuso convincimento/sentimento sionistico-religioso, fare chiarezza sulle implicazioni materiali che tanto l’esclusivismo elettivo, di stampo teologico, quanto l’impiego storico-fattuale del contenuto biblico-torahico relativo alla Terra promessa comportano. Questo, osservato e analizzato terzialmente dall’esterno, sembra essere in sintesi il messaggio elaborato dal gesuita in veste bianca. Nel quale, come sopra sottolineato, devono potere farsi strada e trovare legittimazione, per Bergoglio, la rivendicazione territoriale, l’istanza autodeterminativa e la preghiera di salvaguardia della propria vita da parte dei palestinesi, e ciò – sembra quasi dolorosamente affermarsi in modo implicito e sottinteso – se non proprio a prescindere da, almeno sotto la pur ‘deprecabile’ spinta accelerativa in tale direzione generata dal massacro del 7 ottobre, che non in pochi, compresi molti cristiani, non hanno disdegnato di considerare come una possibile forma fenomenologica di ‘legittimo e ‘comprensibile’ attivismo resistentivo-nazionalistico palestinese e come pura tappa drammatica, quanto, a un certo punto, necessaria, all’interno di una storia tragica di occupazione israeliana. Neuhaus prova a spiegare l’apertura del Pontefice nei confronti degli appelli e delle istanze palestinesi affermando che: «Papa Francesco sta introducendo una nuova prospettiva nel dialogo con il popolo ebraico. Per la prima volta da secoli, il Pontefice proviene dall’esterno dell’Europa, ossia da quel Vecchio continente su cui grava la colpa del trattamento che ha riservato agli ebrei. Bergoglio, noto per aver intrattenuto stretti rapporti con la comunità ebraica della sua patria nativa, l’Argentina, ha proseguito e approfondito l’impegno della Chiesa nel dialogo con gli ebrei. Tuttavia, nella multiculturalità delle Americhe, in Argentina il cardinale Bergoglio ha avuto stretti rapporti anche con i musulmani. Da Papa, ha rinnovato il dialogo con i musulmani e l’islam e, in questo dialogo, la questione palestinese è viscerale. Inoltre, Francesco porta con sé anche una coscienza plasmata nel contesto latinoamericano di lotta contro l’oppressione e di solidarietà con i poveri. Mentre il dialogo con gli ebrei occupava un posto di primo piano nel pensiero eurocentrico, papa Francesco ha iniziato ad allargare la prospettiva, non decentrando l’importante rapporto con il popolo ebraico, ma sottolineando anche altre preoccupazioni, che egli cerca di portare pure nel dialogo con gli ebrei. Tra esse ricordiamo il dialogo con l’islam, la povertà e la migrazione e la questione scottante dell’uguaglianza, della libertà e della giustizia per il popolo palestinese.
Oggi la Chiesa cattolica vede nel dialogo con il popolo ebraico una questione essenziale per la propria identità. Ebrei e cattolici condividono gran parte della Sacra Scrittura; Gesù è totalmente incomprensibile senza il suo radicamento nel mondo ebraico e la Chiesa oggi cerca di onorare quel mondo ebraico. In effetti, essa è ben consapevole che molti ebrei legano la propria identità ebraica allo Stato di Israele, perché in esso vedono una garanzia per il loro benessere in un mondo che è stato spesso orribilmente crudele nei loro confronti. Alcuni di loro scorgono nello Stato una necessità connaturata al loro essere ebrei. Nel dialogo, la Chiesa s’impegna ad ascoltare attentamente e ad apprendere, ma è anche intimamente legata alla terra che gli ebrei chiamano “Terra d’Israele”. In essa, venerata anche da cristiani e musulmani, c’è un popolo privato dei propri diritti, quello palestinese»[27].
Se, dunque, Papa Francesco ha modificato ‘geneticamente’ l’impostazione del dialogo cattolico-ebraico, ciò è stato dovuto principalmente a due ragioni particolari. Innanzitutto alla sua maggiore propensione a coltivare il dialogo con i musulmani, che sicuramente non apparteneva, in modo per lo meno così intenso ed evidente, al suo predecessore Benedetto XVI, la cui severa impostazione teologica centrata sull’apoditticità e sull’indiscutibilità della verità cristologica non consentiva aperture così larghe nei confronti delle narrazioni religiose altre (tantomeno quella propria di un monoteismo rigido ‘concorrente’, come quello islamico), che pur doverosamente quanto istituzionalmente rispettava[28]. In tal maniera, Francesco, aprendo la Chiesa a una nuova relazionalità con i musulmani e dischiudendo un inedito fronte di ‘legittimazione cattolica’ dell’islam, ha potuto veicolare su tale scia neo-dialogica la causa palestinese, arrivando a riconoscerne addirittura il carattere ‘viscerale’ proprio per gli islamici. Anche se questo, a dire il vero, non ha comportato da parte cattolica, in generale, e di Bergoglio, nello specifico, un approfondimento, benché minimo, dell’analisi storico-politica e religiosa sia dell’incapacità di molti Paesi a maggioranza musulmana di sostenere compiutamente la vocazione palestinese a una propria territorialità sovrana autonoma sia, addirittura, del progressivo disinteresse, da parte di quelli tra loro che ordinariamente e materialmente supportavano e foraggiavano la causa palestinese, nei confronti delle ragioni e della valenza/portata valoriale di questa medesima, addirittura, poi, legandosi mani e piedi, per motivi economici, securitari e geopolitico-regionali, al ‘nemico’ israeliano/ebreo, come avvenuto nel caso della sottoscrizione nel settembre 2020 dei cosiddetti Accordi di Abramo tra Israele, da un lato, ed Emirati Arabi Uniti e Bahrein, dall’altro, cui si sono successivamente aggiunti Marocco e Sudan, in attesa che in tempi ragionevoli fosse della partita anche l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman[29]. In secondo luogo, Francesco è riuscito a portare nell’alveo cattolico la questione palestinese facendo leva soprattutto su elementi e spinte pratico-etiche appartenenti alla tradizione della teologia interreligiosa liberazionistica e terzomondistica, animata da una potente avversione nei confronti dell’oppressione e della schiavitù, oltre che di qualsiasi forma di subordinazione politica e sociale. Posta sotto tale luce, dunque, la questione islamo-arabo-palestinese non solo ha potuto trovare larga e docile accoglienza, soprattutto tra quei cristiani ‘progressisti’ completamente devoti alla versione ‘fine-mondiale’/argentina dell’evangelo cristiano, ma addirittura si è andata progressivamente a sostituire alla priorità ‘ebraica’ nel dialogismo interreligioso cattolico, in tal modo – e contrariamente all’interpretazione ‘non-decentrazionistica’ di Neuhaus – completamente riconfigurando ‘de-centrativamente’ la natura e la struttura stessa della concezione, teologica e operativa, del dialogo del cattolicesimo con le altre realtà religiose, quello alla Ratzinger/Kasper[30], tanto per intendersi. Cosicché l’interlocuzione con gli ebrei è diventata cattolicamente possibile ‘solo’ ‘in presenza’ di quella con i musulmani e quella con gli israeliani sulla questione della terra è diventata praticabile ‘solo’ ‘a condizione’ di trattarla contestualmente con i palestinesi. Ciò consente al confratello nel gesuitismo di Bergoglio, Neuhaus, di individuare addirittura, nella storia ecclesiastica, lì dove nessuno ancora l’aveva colto e riconosciuto, una specie di asse ‘papale-vaticano-palestinese’ entro cui, in maniera però del tutto ‘stra-ordinaria’ e singolare, parrebbe che l’attuale Pontefice abbia collocato la sua iniziativa filo-arabo-musulmana di introduzione della questione palestinese nella dimensione(/dimora) etico-teologica cattolica[31], quasi a legittimare l’idea di un’innovazione dialogica arabo-musulmana all’interno, però, di una pur riconoscibile, contenuta quanto corposa, parabola tradizionale pro-/filo-palestinese costituitasi recentemente nella Chiesa cattolica. Grazie, quindi, alla ‘moralizzazione’ bergogliana della causa palestinese, condotta dunque sui piani tanto dell’emancipazione nazionale-popolare dei palestinesi quanto della loro libertà/liberazione dal(l’)(israeliano) oppressore (occupante e colonizzatore), Papa Francesco è riuscito a forgiare un interfaccia con tutte le sensibilità globali eticamente compatibili, ovvero con tutte le piattaforme statuali e non, governativo-istituzionali e private, sovra-statuali e trans-nazionali, di taglio progressistico e modernistico, insieme alle quali ha di fatto intessuto una rete di solidarietà nei confronti dei palestinesi e di sostegno alla loro causa, e, attraverso di essi, ha intrecciato una nuova trama di rapporti almeno in apparenza distesi e cordiali con il mondo musulmano, che pure continua a guardare, in certe sue declinazioni, con diffidenza e ostilità al cattolicesimo e al mondo occidentale con il quale spesso lo identifica. Così facendo, Bergoglio ha introdotto la ‘sua’ Chiesa in un sistema morale e politico mondiale, improntato a un certo ‘paritetismo’ culturale, politico, etico e religioso – che Papa Ratzinger non avrebbe tardato a definire ‘relativismo’ –, il quale, in stretta relazione con la questione qui sollevata dell’attuale stato (di forma) del dialogo cattolico-ebraico, sta significando, soprattutto a partire dall’incontro con il grande Imam dell’Ahzar, Ahmad al Tayyib (che seguiva già ad alcuni viaggi istituzionali di Francesco in Paesi musulmani quali Egitto, Emirati Arabi, Marocco, Turchia e Azerbaigian), un’effettiva radicale rimodulazione e riarticolazione di quel dialogo col mondo ebraico, nel senso non tanto di una sua marginalizzazione quanto soprattutto di una sua ‘relativizzazione egualitarizzante’. La quale possa e debba ottenere come risultato tangibile che gli ebrei, al pari delle diverse ‘alterità religiose’ con cui la Chiesa stabilisce rapporti istituzionali e morali, non avvertano più il privilegio relazionale di cui erano state destinatarie da parte cattolica – in ragione, probabilmente, anche del senso di colpa cristiano esperito progressivamente, in genere, da molti papi post-conciliari, e di cui Bergoglio, argentino, latino-americano, extra-europeo, estraneo, dunque, ai complessi autocolpevolizzanti post-nazi-fascistici continentali, sembrerebbe non avvertire il peso –, ma percepiscano di essere, per i seguaci di Cristo, come gli altri soggetti confessionali, al pari di essi, anche dello stesso cattolicesimo. E ciò, circolarmente, per Bergoglio, si traduce nel nuovo messaggio interno ai cristiani di emanciparsi dal senso di superiorità rispetto alle altre configurazioni religiose e di assumere un atteggiamento ‘paritetistico’, che molti di essi, al contrario, colgono come puro ‘indifferentismo’. Quello stesso, in pratica, che, nella loro lettura della realtà interreligiosa, starebbe di fatto allontanando i cattolici dagli ebrei, il rapporto con i quali era stato recuperato a seguito di un lavor(ì)o storico-teologico oltremodo faticoso, per consentire, al contrario, per il mezzo e il tramite strumentale di una rinnovata relazione con il mondo musulmano, l’apertura livellata e uni-forme con tutte le altre fedi. Gli ebrei, dunque, avrebbero perso lo status di ‘fratelli maggiori’[32] dei e per i cristiani, per diventare, si potrebbe dire, ‘semplici comuni amici’ diversamente religiosi, come gli altri, e, soprattutto, come i musulmani, cosa per loro più complessa da accettare e digerire, soprattutto in virtù dei profondi storici attriti col popolo palestinese a maggioranza islamica. Condizione, questa, che tecnicamente si sta ripercuotendo su più livelli – come in questa sede molte volte ricordato –, come quello squisitamente politico-internazionale, in cui la nuova filosofia dialogico-interreligiosa bergogliana rispetto a ebrei e a musulmani sta traducendosi in valutazioni, giudizi e decisioni vaticane alquanto ‘fredde’ e ‘critiche’ nei confronti di Israele e oltremodo ‘accorate’ e ‘accondiscendenti’ verso i palestinesi, in relazione ai quali, ormai con disinvoltura, quasi ‘naturalmente’, si impiegano costrutti interpretativi condivisi con la maggior parte delle agenzie e delle strutture culturali e politiche con cui la Chiesa di Francesco ha voluto imbastire la suddetta rete di rapporti improntati a un certo ‘progressismo etico-egualitaristico’. Non per nulla, infatti, proprio nel giorno della sua nomina a cardinale, il 30 settembre 2023, il Patriarca di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, di fronte ai giornalisti riuniti per ascoltarne le reazioni, ha potuto plasticamente sostenere che «Gaza è una prigione, una prigione a cielo aperto in cui sono stipate due milioni di persone con una prospettiva economica e sociale molto ardua»[33], in tal modo, da un lato, riprendendo immagini e lessico di uno dei nuovi storici israeliani robustamente ‘anti-israeliano’, Ilan Pappé[34], che si riverberano, ormai da tempo, in maniera virale nell’immaginario collettivo globale, dall’altro, dimostrando, quindi, una condivisa partecipazione ecclesiastica e un pieno attivo concorso cattolico alla riproduzione e alla circolazione di stereotipi descrittivi delle condizioni e delle responsabilità degli attori del conflitto israelo-palestinese. Rispetto all’attuale andamento del dialogo cattolico-ebraico, condizionato fortemente da tale conflitto arabo-israeliano e dal modo bergogliano della sua ‘partigiana’ interpretazione – se così ci si può esprimere, riflettendo e riportando temporaneamente la voce dissonante e l’angolo critico visuale ‘conservatore’ sul Pontefice –, ma anche e soprattutto dall’indirizzo che alcuni (i polemici rispetto alle posizioni di Papa Francesco) definiscono ‘paritetico-indifferentistico’, mentre altri (i sostenitori della linea ‘egualitaristica’ papale) giudicano ‘inclusivo’ e ‘sim-patetico’, assunto dalla pratica dialogica cattolica in generale, la reazione di taluni credenti per così dire ‘anti-papisti’ si presenta in tutta la sua durezza. Come avviene nel caso dell’intellettuale ed ex docente universitaria cattolica Lucetta Scaraffia, oltremodo preoccupata degli effetti a suo giudizio disastrosi sul presente e sul futuro del dialogo cattolico-ebraico – al contrario tutto da ripristinare e rilanciare quanto prima, anche alla luce di una rivisitazione ermeneutica della storia e delle dinamiche del conflitto tra Israele e il palestinese Hamas –, prodotti proprio dall’inarcamento tipicamente bergogliano, socio-emozionalistico, dell’intera prassi dialogica vaticana e cristiana. Le sue dichiarazioni al vetriolo in proposito, rilasciate nel corso di un’intervista del 6 gennaio 2025, non lasciano dubbi sul suo giudizio pesantemente negativo sul Pontefice e sulla sua capacità di mantenere una posizione lucida e neutrale sull’incandescente e troppo complessa questione mediorientale: «Serena Sartini (S. S.): Secondo i media iraniani il Papa avrebbe criticato Netanyahu giudicandolo incurante dei diritti umani. Cosa pensa? – Lucetta Scaraffia (L. S.): La frase citata dagli iraniani è orribile soprattutto se si pensa che è rivolta ai rappresentanti di un governo che promuove la distruzione di Israele e calpesta i diritti umani ma purtroppo credibile perché il papa ne ha già pronunciate molte dello stesso tenore. Fin dall’inizio del conflitto infatti si è espresso in modo chiaramente anti-israeliano: prima non condannando severamente il pogrom del 7 ottobre, poi rifiutandosi per molto tempo di ricevere i parenti degli ostaggi israeliani, infine ricevendoli insieme ad un gruppo di sedicenti parenti di palestinesi di Gaza in nome di una neutralità che poi non ha mai tenuto. Il proposito di mantenersi al di sopra delle parti, ai fini di svolgere un ruolo di pacificazione già espresso a proposito della guerra in Ucraina non è stato poi mantenuto. Le parole del papa su quanto succede in Medio oriente sono state sempre e solo di condanna a Israele. E non solo le parole: bisogna pensare anche all’episodio del presepe con il bambino avvolto nella kefiah palestinese con il quale si è fatto fotografare.
S. S.: In questi giorni il Papa viene spesso “tirato” per la tonaca dall’una e dall’altra parte. Cosa pensa delle posizioni di Francesco sulla questione mediorientale? – L. S.: Penso che il papa sia male informato: lo rivela il suo citare sempre il parroco di Gaza, un argentino che risiede a Betlemme come fonte delle notizie, e mai ad esempio il cardinale Pizzaballa, del quale del resto ha dato anche una informazione sbagliata, e cioè che gli israeliani gli avessero vietato l’ingresso a Gaza, quando non era vero. Sembra che non si renda conto del peso morale oltre che politico delle sue parole, sembra non conosca la storia complessa e sofferta di Israele. Situazione delicata di cui non sembra cogliere la tragica importanza. Da questo punto di vista rivela i forti limiti del suo essere sudamericano, un argentino che si sente estraneo a tutto questo e si muove come un elefante in una cristalleria.
S. S.: A che punto è il dialogo interreligioso a suo parere con Papa Bergoglio? E come sono i rapporti con la comunità ebraica? – L. S.: Il papa non si è mai dimostrato interessato al proseguimento del dialogo interreligioso con gli ebrei, che consiste soprattutto nel riconoscere l’ebraicità di Gesù e degli apostoli. Ma in realtà mi sembra disinteressato a tutti i tipi di riflessione intellettuale, ai quali preferisce invece argomenti sociali ed economici. Giustamente il rabbino Di Segni ha denunciato lo stallo in cui versa questo dialogo, segnale pericoloso per quanto riguarda i rapporti con gli ebrei, non solo gli israeliani.
S. S.: Secondo lei il Papa dovrebbe essere più deciso nel condannare gli attacchi in Israele? – L. S.: Il papa dovrebbe essere più giusto quando parla di questo conflitto. Sarebbe già un passo in avanti se riuscisse veramente a sostenere una posizione super-partes, per questo e per la guerra in Ucraina, ma la sua parzialità pro-Russia e pro-Palestinesi trapela continuamente, rivelando in sostanza una posizione anti-occidentale e soprattutto anti Usa, tipica dei sudamericani»[35].
Conclusioni. Oltre l’‘equi-vicinanza’ multi-solidale bergogliana, il buon senso ‘real-politico-(inter)religioso’
Per Scaraffia, dunque, proprio la caratterizzazione latino-americana e terzomondistica del profilo cattolico-identitario di Bergoglio, che Neuhaus celebra come il punto di forza nella determinazione della svolta ‘pluralistica’ e ‘aperturistica’ della concezione e dell’esecuzione pratica del dialogo interreligioso, deve essere additato, al contrario, come la componente debole di quest’ultimo, dal momento che, invece di indurre un’atmosfera valutativa maggiormente neutrale e suggerire precauzionali equilibrate posizioni giudicative, genera continuamente parzialismi e antitetismi frontali e divisivi, lì dove, come nel caso del conflitto israelo-palestinese che chiama in causa immediatamente e conseguentemente il parallelo e consustanziale rapporto storico tra cristiani ed ebrei, sarebbe necessario mantenere ponderazione, moderazione, misura e controllo. Componenti che sono del tutto mancate recentemente nell’interlocuzione cattolica col mondo ebraico (e con quello israeliano), tanto da produrre da parte di quest’ultimo (e non solo!) quelle reazioni fortemente risentite, irritate e indignate, di cui nelle pagine precedenti si è voluto dare conto. E dire che, esattamente al contrario, come riportato sempre da Neuhaus – preziosissima fonte di interessanti informazioni e appassionato lettore dei processi e delle trasformazioni culturali, teologiche e socio-politiche attualmente in corso nella Chiesa e fuori di essa –, il vaticanista Andrea Tornielli, in un editoriale a sua firma pubblicato su Vatican News il 13 gennaio 2024, ha entusiasticamente/trionfalmente inquadrato la postura neo-dialogica terzomondistica e teologico-liberazionistica di Papa Bergoglio in una dimensione non di neutrale quanto ipocrita e fuorviante ‘equi-distanza’ tra le parti con cui la Chiesa e il cattolicesimo entrano in contatto e in rapporto, ma di solidale ed empatica ‘equi-vicinanza’, particolarmente – come nella più fulgida tradizione della teologia liberazionista delle religioni, cui troppo evidentemente Francesco sembra richiamarsi – nei confronti dei sofferenti, dei diseredati e delle vittime di ‘tutti’ i fronti relazionali convolti, e, nel caso di specie, tanto dei palestinesi quanto degli israeliani. Per Tornielli, che legge con attenzione e saluta con favore le metamorfosi teologico-pratiche di Papa Francesco in campo interreligioso, la equi-vicinanza è innanzitutto da considerarsi come «Vicinanza a chi soffre, a chi muore, a chi rimane senza più nulla. Questa vicinanza ai sofferenti su entrambi i fronti viene spesso interpretata come equidistanza. Non siamo neutrali in questa guerra. Stiamo, con piena convinzione, da una parte, quella delle vittime, dei sofferenti. Stiamo dalla parte dei 22 mila morti sotto le macerie di Gaza, dei 10 mila bambini uccisi. Stiamo dalla parte degli innocenti barbaramente uccisi nei kibbutz il 7 ottobre. Perché il sacrificio di ogni vita è una ferita incolmabile»[36].
Una equi-‘vicinanza’, che, però, per non voler essere ‘distanziale’ (pur) in modo equo dal momento che non intende correre il rischio di essere interpretata come antropologicamente a-patica, inerte, grigia, indolente e passiva, può esporre chi vuole farsene carico – in questo caso la Chiesa cattolica e la sua guida suprema nei confronti di ebrei/israeliani e di palestinesi/(maggioritariamente) musulmani – al pericolo concreto e tangibile dell’isolamento, della solitudine o di un destino di compagnie di cui probabilmente, un giorno, potrebbe doversi preoccupare e pentire, o che potrebbe dover addirittura temere, tale è la distanza culturale, teologica e valoriale con esse e la basilare ostilità di queste nei suoi confronti. Condizioni, quelle appena descritte, che possono prodursi e verificarsi soprattutto quando, come nel caso bergogliano in riferimento alla questione israelo-palestinese, l’intenzione, teologica quanto materiale, di ‘stare-presso-tutti’-gli-afflitti, di ‘prendersi-cura-di-ciascuno’-dei-sofferenti, di ‘equi-avvicinarsi’-a-ognuna-delle-parti, divisa dalla guerra ma accumunata dalla sofferenza, troppo spesso è sembrato (e continua a sembrare), principalmente alla componente ebraica del conflitto in essere, risolversi in una rinnovata/rigenerata ‘accusa del sangue’ indirizzata ai soli israeliani, i ‘perfidi giudei’ del presente, meritevoli, perciò stesso, di biasimo e di condanna. Ma ad essi è parso concretarsi anche in un eccesso ‘parziale’ e ‘fazioso’ – per di più in contraddizione rispetto all’impostazione teoricamente aperturistico-paritetistica e neo-egualitaristica del dialogo interreligioso di stampo bergogliano – di partecipata indulgenza e di arrendevole accondiscendenza nei confronti del mondo islamico, in prima istanza, e, attraverso di esso, nei confronti di quello palestinese. Atteggiamento, questo, che, suo malgrado, ovvero al di là di qualsiasi proponimento consapevole da parte papale e cattolica, offre l’impressione (agli ebrei/israeliani, ad alcuni osservatori, a una parte dei credenti cristiani oltre che a una certa aliquota di arabi islamici) di legittimare e di tirarsi al traino le numerose altre componenti politico-musulmane, statuali e non, anche e soprattutto islamistiche, che gravitano, evidentemente o sordidamente, nell’orbita ideologico-religiosa musulmana. E che l’interesse scientifico di alcuni analisti geopolitici e di certi giornalisti-osservatori per la reciproca ricerca di nuove relazioni tra il Vaticano e l’islamico/sciita Iran[37] stia sviluppandosi in modo crescente e articolato la dice lunga sul mero carattere ‘ipotetico’ dell’avvicinamento sempre più corposo tra gli universi cattolico e musulmano. Ma riferisce ancor di più della preoccupazione di molti tra ebrei, israeliani e occidentali per il fatto che tale vicendevole accostamento, forse anche politico, tra la Chiesa cattolica, nella sua veste ufficiale vaticana, e il mondo musulmano, nella sua particolare versione iraniana, sia realizzato tanto a scapito della coltivazione del rapporto con l’ambiente ebraico quanto addirittura contro l’Occidente e i suoi valori fondamentali della libertà e del rispetto della dignità umana, guarda caso incardinati nella cultura che notoriamente viene definita ‘giudaico-cristiana’ e non in altra maniera. In ragione di quanto appena esposto, l’idea che la reimpostazione cattolico-vaticana del dialogo interreligioso a nuova trazione islamica e la posizione bergogliana così intransigente nei confronti di Israele nella sua guerra contro Hamas, nella misura in cui coinvolge sciaguratamente numerosi civili anche grazie alla loro esposizione al pericolo di vita da parte di tale gruppo terroristico-jihadistico palestinese, possano solo avere un’incidenza minima o del tutto passaggera sulla tenuta del rapporto tra cattolici ed ebrei, e tra le diplomazie di Roma e di Tel Aviv, pare essere palesemente illusoria. Soprattutto se, guardando al futuro dei rapporti tra israeliani e palestinesi, Papa Francesco, al di là di e a prescindere da tutti i processi e le trasformazioni principalmente politici attualmente in corso nel quadrante mediorientale – che sembrano allontanare l’ipotesi dei due popoli-due Stati co-esistenti nella medesima area territoriale –, oltre che alle oscillazioni continue e imprevedibili nelle dinamiche di alleanza tra i macro-attori sovrani a livello internazionale e tra le fazioni politico-religiose in campo/in gioco, è in grado di porre sul piatto unicamente ed esclusivamente l’opzione della convivenza tra essi nella Terra Santa, per lui e per i suoi (gesuiti) da chiamare quanto prima ‘Israele-Palestina’, senza pensare che tale soluzione, laddove fosse calata forzosamente dall’alto, almeno nell’immediato, potrebbe, a giudizio di una buona parte di ebrei e di israeliani, e anche di alcuni palestinesi, solo continuare a generare violenza e crudeltà reciproche, invece che condurre, come teoricamente si vorrebbe, allo spegnimento delle ostilità. Lunga, quindi, ancora è la strada per l’ottenimento della pace in Medio Oriente tra israeliani e palestinesi, ma certo è che essa, soprattutto a giudizio di buona parte di quel mondo ebraico di cui in questa sede si sono, pur parzialmente e sinteticamente, riportati giudizi e riflessioni di natura critica nei confronti dell’attuale posizione interreligiosa papale-vaticana, possa e debba essere raggiunta anche grazie a una rimodulazione dell’impostazione bergogliana della relazione dialogica tra la Chiesa cattolica e gli ebrei, tra la Santa Sede e la diplomazia israeliana, nel senso che, per essere proficuamente produttiva, sarebbe opportuno che tale relazione cattolico-ebraica evitasse di replicare e alimentare nella sua interna struttura architettonica, teorica quanto pratica, quella continua conflittualità che pure all’esterno vorrebbe contribuire a eliminare in maniera definitiva.
Note
[1] Cfr. PAPA FRANCESCO (J. M. BERGOGLIO), La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore, Piemme, Milano 2024.
[2] V. qui, nota n. 9. Cfr., a solo titolo di esempio, F. MANNOCCHI, «La fame di Gaza», in La Stampa, 333 (2024), 02 dicembre, p. 12; M. SRIVASTAVA – N. ZILBER – H. SALEH, «A Gaza la fame diventa un’arma (da Financial Time, Regno Unito)», in Internazionale [Gaza. L’arma della fame], 1553 (2024), pp. 16-18; M. SALAMEH AMAYTEL, «Dalle bombe alla carestia» (da Raseef22, Libano), in Internazionale [Gaza. L’arma della fame], cit., p. 18; A. HASS, «La disperazione non è propaganda» (da Haaretz, Israele), in Internazionale [Gaza. L’arma della fame], cit., pp. 19-20; F. GNETTI, «Morire di fame a Gaza», in Internazionale, 8 febbraio 2024, https://www.internazionale.it/notizie/francesca-gnetti/2024/02/08/fame-carestia-gaza; S. LESZCZYNSKY, «A Gaza in mezzo milione ridotti alla fame», in Vatican News, 23 novembre 2024, https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2024-11/gaza-israele-mediooriente-onu-fame.html; C. CRUCIATI, «Mai così pochi aiuti per Gaza, il nord sigillato è alla fame», in il manifesto, 17 ottobre 2024, https://ilmanifesto.it/mai-cosi-pochi-aiuti-per-gaza-il-nord-sigillato-e-alla-fame; REDAZIONE (OXFAM Italia), «Fame e sfollamenti: le armi contro i civili di Gaza», in OXFAM Italia, 12 luglio 2024, https://www.oxfamitalia.org/fame-e-sfollamenti-le-armi-contro-i-civili-di-gaza/; REDAZIONE (Save the Children), «Gaza: la fame non può essere un’arma di guerra», in Save the Children, 15 febbraio 2024, https://www.savethechildren.it/blog-notizie/gaza-la-fame-non-puo-essere-arma-di-guerra; REDAZIONE (ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), «Gaza: la fame come arma», in ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 09 gennaio 2024, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/gaza-la-fame-come-arma-159443.
[3] PAPA FRANCESCO, «“Bisogna indagare con attenzione se a Gaza è in atto un genocidio. Nel tempo delle migrazioni stiamo diventando disumani”», in La Stampa, 318 (2024), 17 novembre, p. 2.
[4] Cfr. INTERNATIONAL CRIMINAL COURT, n. ICC-01/18, 09 september 2024, https://www.icc-cpi.int/sites/default/files/CourtRecords/0902ebd18096dc05.pdf; ID., «Situation in the State of Palestine: ICC Pre-Trial Chamber I rejects the State of Israel’s challenges to jurisdiction and issues warrants of arrest for Benjamin Netanyahu and Yoav Gallant», 21 november 2024, https://www.icc-cpi.int/news/situation-state-palestine-icc-pre-trial-chamber-i-rejects-state-israels-challenges; L. DETTORI, «Mandati di arresto e giustizia globale: il nuovo corso della Corte penale Internazionale», in Diritti Comparati – Comparare i diritti fondamentali in Europa, 10 dicembre 2024, https://www.diritticomparati.it/mandati-di-arresto-e-giustizia-globale-il-nuovo-corso-della-corte-penale-internazionale/. Cfr. anche P. POLIERI, Il conflitto irrisolto. Israele e palestinesi, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2024, in particolare il capitolo IV dal titolo «Una ‘Norimberga’ per le vittime della Shoah? Israele: dal Giorno della Memoria dell’Olocausto degli ebrei al banco degli imputati per genocidio dei palestinesi» (pp. 115-196).
[5] Cfr. F. CAFERRI, «Gaza, altra strage. Israele protesta per le parole del Papa: “Non è genocidio”», in la Repubblica, 45 (2024), 18 novembre, p. 8.
[6] REDAZIONE (Ansa), «“A Gaza crudeltà”, furia di Israele per le parole del Papa. Scontro Tel Aviv-S. Sede anche su permesso a Patriarca Pizzaballa», in Ansa, 21 dicembre 2024, https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2024/12/21/a-gaza-crudelta-furia-di-israele-per-le-parole-del-papa_8902c20e-74a2-49b2-8d94-6641977c6605.html.
[7] Cfr. G. G. VECCHI, «Indagare se a Gaza è genocidio. Israele replica al Papa: noi le vittime», in Corriere della Sera, 45 (2024), 18 novembre, p. 15; E. BRUCK (con A. ARACHI), «“Francesco si sta sbagliando. Sì è una tragedia, ma è solo Hamas che vuol distruggere un popolo”. Edith Bruck: quella frase gli è scappata, l’italiano non è la sua lingua», in Corriere della Sera, 45 (2024), 18 novembre, p. 15; L. MONTICELLI, «Bruck: “Accuse gravi, la Chiesa non capisce, il rischio è sminuire l’unicità della Shoah”. La scrittrice sopravvissuta ai lager nazisti: “Sono stupita, il Pontefice è stato superficiale”», in La Stampa, 319 (2024), 18 novembre, pp. 2-3.
[8] Cfr. REDAZIONE (Sir Agenzia d’informazione), «Israele-Santa Sede: Amb. Israele presso Santa Sede a Papa Francesco, “Israele esercita diritto di autodifesa”», in Sir Agenzia d’informazione, 18 novembre 2024, https://www.agensir.it/quotidiano/2024/11/18/israele-santa-sede-amb-israele-presso-santa-sede-a-papa-francesco-il-7-ottobre-2023-ce-stato-un-massacro-genocida-israele-esercita-diritto-di-autodifesa/.
[9] Cfr. SPECIAL COMMITTEE TO INVESTIGATE ISRAELI PRACTICES, «Report of the Special Committee to Investigate Israeli Practices Affecting the Human Rights of the Palestinian People and Other Arabs of the Occupied Territories», n. A/79/363, 20 september 2024, https://www.ohchr.org/en/documents/thematic-reports/a79363-report-special-committee-investigate-israeli-practices-affecting.
[10] R. DI SEGNI (con P. CONTI), «“Un’escalation le critiche del Papa. Parlare di genocidio a Gaza è rischioso”. Roma, il rabbino capo Di Segni: rapporti più freddi col mondo cattolico», in Corriere della Sera, 276 (2024), 20 novembre, p. 20.
[11] Ibidem.
[12] D. NEUHAUS S.I., «Dialogo ebraico-cattolico all’ombra della guerra a Gaza», in La Civiltà Cattolica, 4174 (2024), pp. 313-326, ora in G. SALE – D. NEUHAUS, Israele e Palestina. Un conflitto senza fine?, il Pellegrino, Roma 2024, p. 409.
[13] Ivi, p. 402
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 400.
[16] Cfr. ivi, pp. 402-208.
[17] Cfr. N. DI SEGNI (con L. ROBERTO), «La Comunità ebraica (Noemi Di Segni) sul Papa: “Dopo le parole di Francesco su Israele difficile persino invitarlo in sinagoga”», in Il Foglio, 01 (2025), 02 gennaio, pp. 1 e 4.
[18] All’epoca dell’intervista rilasciata a il Foglio, ovvero il 2 gennaio 2025, la Presidente N. Di Segni non poteva evidentemente sapere che di lì a qualche giorno, precisamente l’8 gennaio, la giornalista Cecilia Sala sarebbe stata liberata e riportata ai suoi affetti nel suo Paese grazie all’azione congiunta di governo, diplomazia e intelligence italiani, in collaborazione, per quanto attualmente è dato conoscere, con il governo statunitense e molto probabilmente con la stessa mediazione dell’Ambasciata vaticana, visti gli ottimi rapporti, come si avrà modo di scoprire più avanti, con le autorità governative (e non solo) iraniane.
[19] N. DI SEGNI (con L. ROBERTO), «La Comunità ebraica», cit., p. 4.
[20] Ibidem.
[21] Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 28 ottobre 1965, https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decl_19651028_nostra-aetate_it.html.
[22] CRRE – COMMISSIONE PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L’EBRAISMO, “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50º anniversario di Nostra aetate (n. 4), 10 dicembre 2015, http://www.christianunity.va/content/unitacristiani/it/commissione-per-i-rapporti-religiosi-con-l-ebraismo/commissione-per-i-rapporti-religiosi-con-l-ebraismo-crre/documenti-della-commissione/_perche-i-doni-e-la-chiamata-di-dio-sono-irrevocabili–rm-11-29-.html. Sulla questione cfr. M. S. KINZER, Il mistero di Israele e della Chiesa. La dichiarazione «Nostra Aetate» e un destino comune, Fede & Cultura, Verona 2019; G. CAPONIGRO (a cura di), Figli di Abramo, Il dialogo fra religioni cinquant’anni dopo Nostra aetate, ETS, Pisa 2017, https://www.edizioniets.com/priv_file_libro/3348.pdf; P. TRIANNI, Nostra Aetate. Alle radici del dialogo interreligioso, Lateran University Press, Roma 2015; R. BURIGANA, Fratelli in cammino. Storia della dichiarazione Nostra Aetate, Terra Santa Edizioni, Milano 2015; M. GIULIANI (a cura di), Il dialogo ebraico-cristiano. A cinquant’anni da Nostra Aetate, numero monografico di Humanitas, 2 (2015).
[23] Dabru Emet (Direte la verità), 7 settembre 2000, http://www.nostreradici.it/dabru_emet.htm. Cfr., al proposito, anche N. HOFMANN, Il dialogo ebraico-cattolico: la partecipazione dell’ebraismo ortodosso, 17 gennaio 2018, http://www.christianunity.va/content/unitacristiani/en/commissione-per-i-rapporti-religiosi-con-l-ebraismo/other-documents-and-events/-journee-du-judaime–en-italie1/tradizioni–valori-e-impegni-comuni5.html, che quel manifesto ebraico interreligioso, composto all’interno dell’ebraismo liberale statunitense, richiama in modo sostanzioso e ponderato. [24] Cfr. G. SALE – D. NEUHAUS, Israele e Palestina, cit., pp. 410-411.
[25] Ivi, 411-412.
[26] Cfr. F. PELOSO, «L’ipotesi di genocidio a Gaza. Scontro tra Francesco e Israele», in Domani, 319 (2024), 18 novembre, p. 7.
[27] Cfr. G. SALE – D. NEUHAUS, Israele e Palestina, cit., pp. 413-415.
[28] Al proposito cfr. J. RATZINGER, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003; L. MAZAS – G. PALASCIANO (a cura di), La provocazione del Logos cristiano. Il Discorso di Ratisbona di Benedetto XVI e le sfide interculturali, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2017. Per comprendere ancora più analiticamente e limpidamente la concezione ratzingeriana del significato ‘corretto’ che la Chiesa cattolica deve intendere di dialogo con le altre chiese cristiane e di dialogo interreligioso, in modo da non mettere a repentaglio la sua propria verità cristo-centrica, e dunque la sua stessa identità (teologica), conservandole, dunque, entrambe in modo accurato, si veda l’importante e imprescindibile Dichiarazione, prodotta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e sottoscritta dal medesimo Joseph Ratzinger (assieme a Tarcisio Bertone) in qualità di suo Prefetto, dal titolo “Dominus Iesus”. Circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, 06 agosto 2020, https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20000806_dominus-iesus_it.html. Sulla specifica posizione di Benedetto XVI sul dialogo cattolico-ebraico cfr. BENEDETTO XVI, Che cos’è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale, Mondadori, Milano 2023; BENEDETTO XVI (in dialogo con il rabbino A. FOLGER), Ebrei e cristiani, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2019; J. RATZINGER – BENEDETTO XVI, Molte religioni, un’unica alleanza, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2007. Sulla collisione tra aperturismo teologico-liberazionistico e conservatorismo, esclusivistico quanto inclusivistico, si rimanda a P. POLIERI, Dio è tollerante? Il cristianesimo di fronte alla pluralità delle religioni e alla sfida etica globale, Stilo, Bari 2010, infra.
[29] Cfr. P. POLIERI, Il conflitto irrisolto, cit., in particolare il Capitolo I dal titolo «L’amnesia pericolosa. Israele, la rimozione della questione palestinese e gli Accordi di Abramo» (pp. 23-28); P. BALDELLI – E. TOSTI DI STEFANO (a cura di), Dalla competizione all’integrazione nel Medio Oriente-Nord Africa. L’impatto degli Accordi di Abramo sugli equilibri regionali, Edizioni Nuova Cultura, Ciampino (Rm) 2022.
[30] Sulla posizione di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI sull’interreligiosità cattolica e sul dialogo della Chiesa con gli ebrei, v. qui, nota n. 28. Sugli orientamenti di Walter Kasper sui medesimi temi, cfr. W. KASPER, Ebrei e cristiani. L’unico popolo di Dio, Queriniana, Brescia 2023; ID., Teologia in dialogo, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2020; ID., La sfida della nuova evangelizzazione. Impulsi per la rivitalizzazione della fede, Queriniana, Brescia 2012; W. KASPER – G. AUGUSTIN (a cura di), Percorsi di fraternità. Per raccogliere la sfida dell’enciclica Fratelli tutti, Queriniana, Brescia 2022.
[31] Così scrive Neuhaus: «Papa Francesco del resto non è il primo a introdurre i palestinesi nel dialogo con gli ebrei. Fu Paolo VI il primo Pontefice a riconoscere esplicitamente i palestinesi come popolo, e non semplicemente come gruppo di rifugiati. Nel messaggio natalizio del 1975, egli dichiarava: “E benché consapevoli delle tragedie non lontane che hanno spinto il popolo ebraico a ricercare un sicuro e protetto presidio in un proprio Stato sovrano ed indipendente, anzi proprio perché di ciò siamo consapevoli, vorremmo invitare i figli di questo popolo a riconoscere i diritti e le legittime aspirazioni di un altro popolo, che ha anch’esso lungamente sofferto, la gente palestinese”. La posizione della Chiesa si è manifestata durante le visite dei Pontefici in Terra Santa nel 2000 (Giovanni Paolo II), 2009 (Benedetto XVI) e 2014 (Francesco), quando i rapporti sia con gli israeliani sia con i palestinesi si sono rispecchiati nell’itinerario delle visite, che hanno portato i Pontefici sia in Israele sia in Palestina, e nei santuari sia ebrei sia musulmani, oltre che cristiani» (G. SALE – D. NEUHAUS, Israele e Palestina, cit., p. 415).
[32] Cfr. E. TOAFF, Perfidi giudei, fratelli maggiori, il Mulino, Bologna 2017; GIOVANNI PAOLO II – BENEDETTO XVI, Ebrei, fratelli maggiori. La necessità del dialogo fra cattolicesimo ed ebraismo nei discorsi di Papa Wojtyla e di Papa Ratzinger, Newton & Compton, Roma 2007; L. GULLI, Papa Wojtyla e i «fratelli maggiori», Nova Itinera, Roma 2005.
[33] G. SALE – D. NEUHAUS, Israele e Palestina, cit., p. 398.
[34] Cfr. I. PAPPÉ, La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, Fazi, Roma 2022; e anche ID., Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina. Dal 1882 a oggi, PiperFirst, Roma 2024; ID., Ultima fermata Gaza. La guerra senza fine tra Israele e Palestina, Ponte alle Grazie, Milano 2023; ID., 10 miti su Israele, Tamu, Napoli 2022; ID., Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli, Einaudi, Torino 2014; ID., Israele/Palestina. La retorica della coesistenza, Nottetempo, Milano 2011; ID., La pulizia etnica della Palestina, Fazi, Roma 2008; N. CHOMSKY – I. PAPPÉ, Palestina e Israele: che fare?, Fazi, Roma 2015.
[35] L. SCARAFFIA (con S. SARTINI), «“Il Papa non condanni solo Israele. Per pacificare servono giudizi equilibrati”», in il Giornale, 06 gennaio 2025, https://www.ilgiornale.it/news/politica/papa-non-condanni-solo-israele-pacificare-servono-giudizi-2419350.html.
[36] A. TORNIELLI, «100 giorni, vicini a chi soffre», in Vatican News, 13 gennaio 2024, https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2024-01/gaza-israele-guerra-osservatore-romano-papa-francesco.html.
[37] Cfr. G. MASSANO, «Vaticano e Iran si cercano», in Domino, 18 dicembre 2024, https://www.rivistadomino.it/blog/2024/12/18/vaticano-e-iran-si-cercano/; S. SARTINI, «Caso Sala. Spunta la pista vaticana. Francesco ha ricevuto l’ambasciatore dell’Iran presso la Santa Sede. Il caso Sala convitato di pietra», in il Giornale, 04 gennaio 2025, https://www.ilgiornale.it/news/politica/papa-e-luomo-teheran-lipotesi-trattativa-2418792.html; REDAZIONE (Agenzia Fides), «Vaticano-Papa Francesco: “La Chiesa cattolica in Iran non è contro il governo: queste sono bugie!”», in Agenzia Fides, 20 novembre 2024, https://www.fides.org/it/news/75693-VATICANO_Papa_Francesco_La_Chiesa_cattolica_in_Iran_non_e_contro_il_governo_queste_sono_bugie; D. SALVI, «Neo cardinale di Teheran: sulle orme di san Francesco ‘strumento di pace’», in AsiaNews, 07 ottobre 2024, https://www.asianews.it/notizie-it/Neo-cardinale-di-Teheran:-sulle-orme-di-san-Francesco-strumento-di-pace-61656.html; REDAZIONE (Giornale Diplomatico), «Vaticano: Miktari, Ambasciatore iraniano sui rapporti con la Santa Sede», in Giornale Diplomatico, 07 aprile 2024, https://www.giornalediplomatico.it/vaticanomiktari-ambasciatore-iraniano-su-rapporti-con-la-santa-sede.htm; REDAZIONE (AsiaNews), «Papa: a gruppo religiosi sciiti iraniani, “buona volontà di dialogo”», in AsiaNews, 23 novembre 2016, https://www.asianews.it/notizie-it/Papa:-a-gruppo-religiosi-sciiti-iraniani,-%E2%80%9Cbuona-volont%C3%A0-di-dialogo%E2%80%9D-39219.html.
Foto copertina: Vaticano con la bandiera di Israele
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