Gli obiettivi di Netanyahu


L’Operazione Rising Lion segna la fase più critica di un conflitto regionale latente che da anni ruota attorno a tre grandi obiettivi della politica di sicurezza israeliana, ora esplicitamente dichiarati dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu: neutralizzare il programma nucleare iraniano, impedire lo sviluppo missilistico di Teheran ed eliminare l’“asse del terrore” filo-iraniano nella regione. A qualsiasi costo.


Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ritiene che il contesto internazionale attuale offra condizioni favorevoli per spingere l’offensiva fino al suo compimento e raggiungere i tre obiettivi prefissati. Le critiche per le violazioni del diritto internazionale – come il recente attacco alla sede della TV di Stato iraniana – e le rimostranze di potenze come Russia e Cina non sembrano destinate a rallentare la determinazione del leader israeliano, deciso a chiudere definitivamente i conti con i principali nemici regionali di Israele.
Nel frattempo, Netanyahu non ha escluso esplicitamente l’eventualità di colpire direttamente la guida suprema iraniana, Ali Khamenei: «Agiremo in base a ciò che riteniamo necessario. La sua eliminazione potrebbe segnare la fine del conflitto. Non entro nei dettagli». Ha inoltre rivendicato i successi militari ottenuti finora: «Stiamo avanzando verso la vittoria. A Teheran lo sanno bene, e lo sa anche il popolo iraniano». 

Obiettivo 1: Neutralizzazione del programma nucleare

Primo obiettivo di Netanyahu è neutralizzare il programma nucleare iraniano che da anni è in cima alle preoccupazioni israeliane. Israele, che non ha mai confermato né smentito il proprio status nucleare, si considera l’unico legittimato a possedere capacità atomiche nella regione per motivi di deterrenza e sopravvivenza.
Negli anni, l’approccio di Tel Aviv è passato da operazioni clandestine (come l’assassinio mirato di scienziati nucleari o attacchi cyber, es. Stuxnet) a una militarizzazione più esplicita del contrasto nucleare. L’Operazione Rising Lion si inserisce in questo quadro, rappresentando un passaggio da una strategia di contenimento indiretto a una proiezione diretta di forza militare, che comporta evidenti rischi di escalation.
Dal punto di vista del diritto internazionale, attacchi preventivi contro installazioni nucleari – specie se civili o dual use – sollevano questioni controverse circa la legittimità dell’uso della forza, anche alla luce dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. La legittimità di un’azione di self-defense anticipata (anticipatory self-defense) resta dibattuta tra le scuole di diritto internazionale.

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Obiettivo 2: Distruzione del programma missilistico

Il secondo obiettivo, ovvero l’eliminazione della capacità missilistica dell’Iran, rappresenta una sfida di natura sia tecnica che strategica. Negli ultimi anni, Teheran ha potenziato in modo significativo il proprio arsenale di missili balistici e da crociera, molti dei quali sono stati testati con successo, raggiungendo una gittata compatibile con obiettivi nel territorio israeliano.
Dal punto di vista israeliano, la minaccia missilistica non è solo quantitativa ma anche qualitativa: l’Iran ha migliorato l’accuratezza, la manovrabilità e la capacità di saturazione dei suoi vettori, mettendo a dura prova il sistema di difesa anti-missile israeliano, inclusi Iron Dome e Arrow 3.
In termini strategici, impedire la proliferazione missilistica equivale per Israele a garantire il proprio vantaggio tecnologico e deterrente, elemento centrale nella dottrina della sicurezza nazionale.

Obiettivo 3: Distruzione dell’“asse del terrore”

Con l’espressione “asse del terrore”, Netanyahu designa il network di milizie sciite e proxy filo-iraniani attivi in Libano (Hezbollah), Siria, Iraq e Yemen (Ansar Allah-Houthi). La strategia israeliana punta a disarticolare questo sistema di alleanze e deterrenza asimmetrica, che consente all’Iran di esercitare una pressione continua su Israele.
Questo network di attori “non statali” agirebbe come estensione operativa della politica estera iraniana, secondo una logica di “resistenza regionale” contro Israele e gli Stati Uniti. Per Tel Aviv, si tratta di una minaccia strategica esistenziale, poiché implica la possibilità di un conflitto su più fronti. Dopo il 7 ottobre Netanyahu ha deciso di operare sui “7 fronti” di conflitto con conseguenze umanitarie e politiche rilevanti e dopo Gaza, Libano, incursioni in Yemen e Siria, l’obiettivo è decapitare i vertici iraniani e possibilmente raggiungere quel “regime change” tanto agognato. 
Benjamin Netanyahu punta al cambio di regime a Teheran come obiettivo principale nella sua offensiva contro l’Iran. In un recente discorso ha esortato direttamente il popolo iraniano a sollevarsi contro il governo, promettendo sostegno. Il regime degli ayatollah, al potere da quasi 50 anni, è percepito come repressivo e distante dai giovani e dai riformisti. Tuttavia, un’operazione per rovesciarlo rischia di prolungare la guerra, destabilizzare ulteriormente la regione e rafforzare i settori più radicali del regime.
Il paragone con il Libano, dove Israele è riuscito a indebolire Hezbollah, è fuorviante: l’Iran ha una storia, una struttura sociale e una resistenza molto più profonde. Inoltre, il sostegno popolare interno è frammentato e complesso: accanto a giovani progressisti, esiste ancora una base popolare fedele al regime. Gli alleati arabi del Golfo, pur ostili all’Iran, temono le conseguenze di un collasso del regime e non hanno sostenuto l’ultima offensiva israeliana.
Infine, il “regime change” rievoca in Occidente i fallimenti strategici in Iraq e Afghanistan, rendendo difficile che Washington o Trump – pur elogiando l’azione militare israeliana – accettino apertamente un coinvolgimento diretto in un’operazione tanto rischiosa e impopolare.


Foto copertina: Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu © AP Photo/Jose Luis Magana