Dal patrimonium al matrimonium, isegoria del femminicidio e isonomia della democrazia.
di Mauro Di Ruvo, Critico letterario e storico dell’arte
Nell’VIII secolo a.C sappiamo che la storia si spettina di tutto punto. I luoghi assumono una nuova forma e una nuova funzione, i popoli cambiano faccia e lingua, gli dei mutano i miti e introducono le leggi. La massa di genti scese dai monti di quella regione detta indoeuropea, agita senza sosta le acque del Mediterraneo. Le isole dell’Ellade hanno già riciclato i campi limacciosi, mentre le coste asiatiche hanno già rinnovato i loro tetti templari. I boschi dell’Attica e della Laconia stanno libando alle navi che di lì a poco attraverseranno il Ponto verso la penisola anatolica.
E le coste italiche? Si importava dal mare la civiltà[1]. Ma poco più in là delle coste, le vallate tra i colli Albani importavano qualcos’altro oltre che i buoi nel foro. Le donne.
Nel 753 a.C nella grande pianura del Circo Massimo, come ci riporta Livio, siccome trascorso poco tempo dalla fondazione romulea ci si accorse che «la grandezza della città era destinata a durare non più di una generazione»[2], vennero libate a Consus le vergini sabine che erano qui giunte ad assistere insieme ai parenti ai giochi equestri indetti in onore del dio. Avvenne il ratto delle sabine. Per i romani fu guerra, ma non troppo a lungo si sarebbe stipulato il primo contratto della storia, quello del matrimonium, attraverso le cui nuptiae si sanciva il ius conubii e il ius societatis, elementi prerogati dall’adfectio maritalis e dal consensus patris. Dalla sponsio, le nozze, ne conseguì dunque la pax, pace[3].
Un tale Orazio Coclite sororicida però sarà presto imputato, durante la imminente guerra contro la Lega Latina, di perduellio, ovvero di alto tradimento, per aver applicato una pena di morte sostituendosi alla manus patris, cioè all’autorità del padre.
Non fu affatto accusato di sororicidio, men che di omicidio, ma di aver tradito il vincolo sacro della familia disobbedendo alla legge per cui il padre aveva il sacrosanto diritto, ius vitae ac necis, di uccidere solo lui la figlia inadempiente ai vincoli fraterni, avendo ella rifiutato di baciare il fratello come eroe di guerra. Si giunse dunque all’accusa da parte dei duomviri di perduellio, ma Orazio ricorrendo alla provocatio ad populum, fu assolto dalla sentenza dei magistrati con iudicium commune. L’omicidio era appena stato giustificato, e il crimen vis era stato purificato[4].
Dalla necessità di salvare il patrimonium, dove vigeva una assoluta ‘patrocrazia’[5], si ricorre mediante un delitto moderno, il rapimento, a sancire l’importanza del matrimonium, come istituto riparatore della civitas, attraverso consensus parentis e affectio maritalis.
Il pater, con il suo ius sententiae, garantisce la pax familiae et civitatis commissionatagli dalla nupta e matrona stessa ab origine[6].
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La mater invece garantisce proprio la virtus del ius, e quindi della intera civitas, nel suo ruolo però contrattuale e domestico, quasi microcosmo della politica interna.
Sia il ratto che il sororicidio rappresenterebbero per il pensiero moderno uno dei primi esempi di quel che è chiamato “femminicidio”. Scoprire nella verginità semantica del termine che questo fenomeno ha in realtà interessato tutta la storia non solo dell’Occidente, ma dell’Oriente, nella stessa misura quantitativa e qualitativa degli omicidi riferiti a soggetti di sesso maschile, renderebbe oggi il caso sul patriarcato ancora più astratto. Un fenomeno infatti di pari grado delittuoso può a buon diritto essere considerato il suo parallelo, col nome di “maschicidio”.
Se la stessa parola “femminicidio” d’altronde è un diretto inglesismo di femicide, che significava nel XIX secolo “omicidio di donna”, la parola ‘maschicidio’ può naturalmente contrapporre l’isonomia dell’”omicidio di maschio”[7].
Il termine ‘feminicide’ ha di seguito avuto l’imprescindibile influenza castigliana secondo cui, diffondendosi inoltre proprio per questo, venivano denotati gli omicidi di donne di matrice patriarcale, e per traslazione, tutti gli atti di violenza maschile sulle donne. Era nato in questi anni, prevalentemente nel continente mitteleuropeo, entro la prima metà dell’Ottocento, un esteso contesto urbano e civico di spinta secessionista, ancora molto suggestionato dal filo di quel rasoio che aveva portato alla repubblica francese. Un robespierriano germe discriminatorio iniziava ad attecchire presso le deluse e oppresse fasce invisibili dell’elettorato giacobino, per poi propagarsi lentamente nelle vicine campagne prussiane che insorgeranno presto verso il terzo quarto del secolo contro il potere militare e sovrastatale centralizzato[8].
Strisciando tra i fogli dei diritti costituzionali di vari Paesi, nella seconda metà del secolo scorso appaiono le prime riflessioni legislative sul senso e concetto di femminicidio. Nel 1996 a Vienna viene introdotta una legge che regola la violenza tra le mura domestiche e nel 2007 nel documento di Risoluzione del Parlamento Europeo, compare la prima testimonianza ufficiale sul delitto di femminicidio inteso come assassinio di donne[9]. Qui era aveva mosso alla “Risoluzione” l’esigenza sempre più cogente e denunciata dai giornali di arginare il numero di vittime donne negli Stati Uniti.
In Italia passerà ancora qualche anno dalla Risoluzione, e qualche secolo dalla sua rifondazione politica, prima che appaia una citazione più ferma e consapevole della voce “femminicidio”.
Il 2013 è l’anno in cui in Italia viene promulgata la prima ‘Legge sul femminicidio’ , e questa si mostra perlopiù titolare di una normazione contro la violenza, di carattere anch’esso domestico, contro la donna per mano di parenti e familiari, estesa però, nella tutela dello specifico soggetto di sesso femminile , anche generalmente allo stalking e allo stupro.
Tale avviene la figurazione in Italia di un neonato reato che reso autonomo dalla vulgata “omicidio” , si distingue sia sotto il nome di “femminicidio”, ma anche sotto il discrimine d’una percezione pregiudiziale, essa stessa discriminatoria, comparsa e reduce dalla legge sul suffragio femminile del ’46, che ha avviato per la prima volta il processo di exaequatio legis tra genere femminile e maschile. Un processo, sarebbe bene notarlo, esasperato sotto una cortina ancora fascista.
Quella del ’46 era una legge che risentiva, giustamente, l’eco delle battaglie partigiane e anti-squadriste primariamente, mentre a incendiare gli animi fu proprio la rabbia femminile condivisa verso lo statuto liberto della donna, ma non ancora libero nello “spazio comune” della Repubblica. Le roganti il diritto di voto e di parità politica volevano porre fine a quel sistema ormai riconosciuto dalla retorica togliattiana come irretito dal patriarcato. Fu quell’occasione una vittoria di fazione contro i mariti, contro i padri, contro gli ecclesiastici, contro la religione e la morale, e soprattutto contro la vecchia generazione.
Se vera fu la vittoria, la lotta al patriarcato sarebbe per coerenza dovuta cessare già da allora almeno nei Paesi in cui s’è riconosciuto sconfitto, con il suffragio femminile, dal momento che la donna si è fatta attrice della totale parificazione dei diritti e dei doveri, e ha obliterato i colpi della giustizia.
Ebbene oggi si parla ancora di patriarcato come tema su cui stridono le voci, e lo si fa continuando a filare il topos ventennale del “potere maschile” e del predominio economico che pertiene al sesso maschile. Quasi mentre si starebbe parlando di discendenza patrilineare del diritto civile, a cui la donna non toccherebbe nulla in merito, si affermerebbe contemporaneamente l’esistenza del matriarcato come soluzione suffragata, appena l’omicidio di una donna è investito di peso maggiore rispetto a quello di un uomo, nonostante la legge abbia già scaricato i debiti della storia.
Nel 2018 è stata istituita infatti dal Senato la prima commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio[10]. Speculare a questa manca tuttora quella sul ‘maschicidio’, che pur esiste, ma è meno rumoroso nei corridoi dei giornali e dei mass-media. L’impressione che forse solo il caso sta tentando di darci è allucinogena sempre più di verità storica, soffusa di una luce unilaterale e irriducibile alla complessa presa di coscienza della amorfia politica e istituzionale.
Ma se dunque nel 17 a.C Augusto aveva promulgato la lex iulia de adulteriis coercendis[11], che disponeva alcune precauzioni e protezioni normative in materia di violenza sessuale e di stupro, benché non si parlasse di femminicidio ma limitatamente di uxoricidio e sororicidio, perché non resistiamo più dall’ammantare la nostra civiltà dalla dolce trappola del dogma di genere?
Qualora si iniziasse a concepire nell’organica unicità di “uomo” sia l’identità femminile che quella maschile, sgravandole entrambi della zavorra del genere politicamente corretto[12], e riconoscendo la disambigua distinzione naturale del sesso, probabilmente in quel tempo si estinguerà l’uso del femminicidio e insieme ad esso del patriarcato.
Fintanto che il patriarcato sarà una maschera che copre a stento il volto di un’altra causa non sovrapponibile con la sua inattuale fisionomia, i femminicidi imputeranno più per genere che crimine, e condanneranno più il diritto che il ratto.
Quel che giova a noi definire patriarcato è l’indolenza di una piccolissima parte con cui non riusciamo a sentire il nostro presente, recriminando il potere di una delle parti concesse parimenti dalla natura per la nostra civiltà. Il patriarcato è stato sin dall’origine una proiezione della sfera pubblica politica all’interno della dimensione privata della famiglia, in una simbiosi che sarebbe utopico credere di riviverla oggi: la politica si configurerebbe nuovamente con la cellula della famiglia. Il matriarcato è esistito, a migliaia di chilometri a nord di Roma, come predisposizione della sfera pubblica mercantile verso un’amministrazione economica privata di tipo femminile.
Nessuna delle due “forme di governo” potrebbe però essere intesa come prevaricatrice di diritti sessuali e autrice di leggi abusive.
Il patriarcato, può e deve essere, come l’è stato, non una realtà parastatale dall’ordinamento extragiudiziale, a metà strada tra l’ingiustizia e l’autocrazia. Deve essere invece un exemplum che proveniente dalla storia regola i confini e i limiti che il potere può avere per garantire la libertà di una civiltà. Proprio la sua politropa facies deve ammonirci quando il ratto prepara al diritto, e quando il diritto ripara al ratto. È proprio questo il contrappeso, per cui la legge ‘crea’ il reato[13], elemento principe della bifronte democrazia.
Note
[1] M. TORELLI, L’arte degli etruschi, Laterza, Bari, 1985, pp. 62-77. Cfr, DION. HAL. II 50, 3: ἱερά τε ἱδρύσαντο καὶ βωμοὺς καθιέρωσαν οἷς ηὔξαντο κατὰ τὰς μάχας θεοῖς, Ῥωμύλος μὲν ὀρθωσίῳ Διὶ παρὰ ταῖς καλουμέναις Μουγωνίσι πύλαις, αἳ φέρουσιν εἰς τὸ Παλάτιον ἐκ τῆς ἱερᾶς ὁδοῦ, ὅτι τὴν στρατιὰν αὐτοῦ φυγοῦσαν ἐποίησεν ὁ θεὸς ὑπακούσας ταῖς εὐχαῖς στῆναί τε καὶ πρὸς ἀλκὴν τραπέσθαι., Vd. anche L. CANFORA, La democrazia, Laterza, Bari, 2004
[2] P. CARAFA, in A. CARANDINI (a cura di), La leggenda di Roma. II. Dal ratto delle Sabine al regno di Romolo e Tito Tazio, «Scrittori greci e latini», Fondazione Valla, Torino 2010, pp. 84-104. Cfr. Livio, I, 9: «sed penuriā mulierum hominis aetatem duratura magnitudo erat, quippe quibus nec domi spes prolis nec cum finitimis conubia essent. Tum ex consilio patrum Romulus legatos circa vicinas gentes misit qui societatem conubiumque novo populo peterent: urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac di iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire, origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem; proinde ne gravarentur homines cum hominibus sanguinem ac genus miscere.»
[3] F. CASTAGNOLI, Topografia romana e tradizione storiografica su Roma arcaica, in «Arch.Class.», 25/26 (1973 – 1974), pp. 123-131
[4] M. PANI, E. TODISCO, Storia Romana, Carocci Editore, Roma, 2014, pp. 32-40. Cfr. sull’argomento anche A. McCLINTOCK, Storia mitica del diritto romano, Il Mulino, Bologna, 2020, pp. 21-38, insieme a L. GAROFALO, Echi del diritto romano nell’arte e nel pensiero, Pacini Editore, Pisa, 2018.
[5] G. ROTONDI, Leges Publicae Populi Romani, in «Enciclopedia Giuridica Italiana», Società editrice libraria, Milano, 1912, pp. 50-53.
[6] E. CANTARELLA, Diritto Romano. Istituzioni e storia, Mondadori, Milano, 2010, pp. 168-176.
[7] L. CANFORA, La democrazia dei signori, Laterza, Bari, 2022, pp. 45-67. Ma anche V. PAZE, La diseguaglianza degli antichi e dei moderni. Da Aristotele ai nuovi meteci, in «Teoria politica. Nuova serie Annali», 9, 2019.
[8] C. PASSETTI, “Dispotisme de la liberté”. L’eccezione giacobina, in «Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico», a cura di D.Felice (Tomo II – Napoli 2002), pp. 420-437.
[9] Sulla Risoluzione approvata nel Parlamento Europeo in COM (2007) 503 DEF. del 04/07/2007 in materia di «diritti fondamentali e giustizia» si veda https://www.senato.it/web/docuorc2004.nsf/00672360b4d2dc27c12576900058cad9/6e51745fe4f1d7b4c12573ae00521e05?OpenDocument.
[10] Si fa qui riferimento alla XVII Legislatura, Legge11 gennaio 2018, n. 4.
[11] Cfr. ROTONDI, Leges publicae populi romani, cit., pp. 100-105 e T. MOMMSEN, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899, pp. 688-699.
[12] M. DI RUVO, Il politically correct, una correzione della democrazia, in «Nuova Antologia», ottobre – dicembre 2023, vol. 631, fasc.2308, pp.140-145.
[13] J. STAROBINSKY, Accusare e sedurre, Armando Dadò Editore, 2020.