Con la caduta del regime di Assad, Washington e i suoi alleati puntano a impedire che lo Stato Islamico colmi il vuoto di potere nel Paese. Ma non solo.
A cura di Sara Castagna
Il crollo improvviso della dittatura della famiglia Assad, durata 54 anni, segna un momento cruciale nella storia della Siria e rappresenta uno dei più significativi cambiamenti nello scenario geopolitico del Medio Oriente dai tempi dell’invasione statunitense in Iraq nel 2003. L’evento ha infatti aperto un nuovo capitolo di instabilità, in cui il Paese è divenuto terreno di scontro tra potenze straniere in competizione per difendere i propri interessi strategici, mentre cresce l’ombra del ritorno dello Stato Islamico. Nonostante la sconfitta del califfato nel 2019[1], ottenuta grazie alla collaborazione con le Forze Democratiche Siriane (SDF)[2] guidate dai curdi, infatti, la minaccia jihadista continua a persistere, ora più forte che mai. Oltre 10.000 combattenti IS sono detenuti in carceri gestite dalle SDF[3], mentre migliaia di loro familiari vivono in campi profughi[4], alimentando un contesto fragile e instabile, terreno prospero per il ritorno di movimenti estremisti.
Un crocevia di rivalità internazionali
Lo scenario siriano risulta ulteriormente complicato dalla presenza di attori esterni con interessi divergenti. La Russia, nonostante la riduzione delle sue forze a causa del conflitto in Ucraina, continua a mantenere la sua influenza nel Paese attraverso il porto navale di Tartus[5], collocato in una posizione strategica affacciata sul Mar Mediterraneo. Parallelamente, l’Iran utilizza il territorio siriano come canale di transito per trasferire armi a Hezbollah in Libano[6], aumentando le tensioni con Israele. Gli Stati Uniti, in questo panorama di superpotenze in conflitto, giocano un ruolo cruciale: la base statunitense di Al-Tanf[7], situata in una posizione chiave nel sud-est del Paese, mira a contrastare i movimenti delle forze filoiraniane verso il confine israeliano. La Siria continua così a rappresentare un crocevia di rivalità internazionali, dove ogni attore cerca di proteggere i propri interessi strategici senza tuttavia garantire una reale stabilità.
Il vuoto di potere e le difficoltà statunitensi
L’instabilità in Siria ha raggiunto un nuovo picco con la fuga di Bashar al-Assad in Russia, seguita dall’ascesa di Hayat Tahrir al-Sham (HTS)[8] come forza dominante a Damasco. Questo gruppo, nato da una scissione da al-Qaida e ancora considerato un’organizzazione terroristica dagli Stati Uniti, si dimostra ora al centro dell’attenzione internazionale. Nonostante i tentativi del leader di HTS, Ahmad al-Shaara, noto anche come Abu Mohammed al-Golani, di presentare un’immagine più moderata, la comunità internazionale rimane scettica. In questo contesto, gli Stati Uniti di Biden hanno scelto di mantenere una posizione cauta, pur riconoscendo il ruolo chiave di HTS nell’opposizione. Coerentemente con questa linea, il segretario di Stato, Antony Blinken, ha dichiarato la volontà degli Stati Uniti di lavorare per facilitare il dialogo con i diversi gruppi di opposizione, anche attraverso alleati regionali e canali diretti, pur lasciando alla Siria stessa la responsabilità di una transizione politica efficacie[9]. Tuttavia, l’incertezza politica e l’assenza di canali ufficiali di comunicazione complicano ulteriormente la possibilità di una strategia coordinata in seno al territorio siriano stesso e tra gli attori internazionali coinvolti.
Il ritorno di Trump: disimpegno strategico?
Il quadro complessivo è ulteriormente complicato dalla transizione governativa in corso negli Stati Uniti, con il passaggio di testimone dall’amministrazione Biden al ritorno di Trump. Quest’ultimo già nel 2018, durante il suo primo mandato, aveva preso provvedimenti decisi contro il regime siriano, ordinando attacchi militari in risposta all’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad contro la propria popolazione[10]. Tuttavia, l’ex presidente ha ripetutamente espresso la volontà di ritirare le truppe statunitensi dal Paese, dichiarando più volte come la missione di distruggere il califfato territoriale dello Stato Islamico fosse ormai compiuta. Eppure, nonostante i molteplici annunci, il ritiro delle truppe statunitensi dal territorio siriano non si è mai concretizzato. La presenza militare statunitense è stata esclusivamente ridotta e reindirizzata, ma non eliminata: alla fine del mandato di Trump, nel gennaio 2021, circa 900 soldati americani risultavano ancora presenti in Siria.[11]
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La volontà di ridurre l’impegno degli Stati Uniti in Siria si basa su motivazioni razionali. Innanzitutto, gli Stati Uniti dispongono di poca influenza sugli eventi locali. Nonostante il dispiegamento di truppe nell’est del Paese e il controllo di alcuni giacimenti petroliferi, infatti, Washington non ha mai avuto un impatto significativo sul comportamento del regime di Assad, che è rimasto inflessibile fino alla sua caduta. Inoltre, come dimostrano le esperienze passate in Iraq e Libia, gli sforzi americani di imporre la democrazia in un Paese estero si sono spesso rivelati fallimentari e controproducenti, generando molteplici problemi di instabilità governativa nelle rispettive regioni. Con un panorama frammentato e molteplici fazioni armate in lotta per il potere, è difficile immaginare un finale diverso per la Siria. Infine, gli interessi fondamentali degli Stati Uniti nella regione rimangono due: prevenire l’ascesa di gruppi terroristici antiamericani e garantire il flusso di petrolio sui mercati globali. Sul fronte terrorismo, gli Stati Uniti hanno dimostrato di poter colpire obiettivi strategici senza una presenza militare permanente; inoltre, anche le altre potenze coinvolte in Siria hanno un interesse comune nel prevenire il ritorno dell’ISIS, che metterebbe a rischio il loro potere.
Uno scenario incerto
Mentre a Washington cresce la pressione per definire un nuovo ordine politico in Siria, un coinvolgimento più diretto potrebbe rivelarsi controproducente. Allo stesso tempo, però, la presenza statunitense continua a rappresentare un punto di pressione strategico contro l’Iran, contrastando al contempo l’influenza russa. Un ritiro completo degli Stati Uniti rischierebbe di aggravare l’instabilità in Medio Oriente, compromettendo ulteriormente il fragile equilibrio sociopolitico siriano. Per ora, la presenza militare statunitense permane, riflettendo la complessità della sua politica estera nella regione. Quel che è certo è che la decisione tra rimanere o ritirarsi avrà inevitabili ripercussioni strategiche sull’intero Medio Oriente.
Note
[1] https://www.aljazeera.com/news/2019/3/23/isil-defeated-in-final-syria-victory-sdf
[2] https://ecfr.eu/special/mena-armed-groups/syrian-democratic-forces-syria/ [3]https://www.nytimes.com/live/2024/12/09/world/syria-assad-rebels
[4] https://www.unrefugees.org/news/syria-refugee-crisis-explained/ [5]https://www.washingtonpost.com/world/2024/12/09/russia-military-bases-syria-tartus-hmeimim/
[6]https://www.nytimes.com/2024/12/14/world/middleeast/hezbollah-supply-route-syria.html
[7] https://www.crisisgroup.org/trigger-list/iran-usisrael-trigger-list/flashpoints/al-tanf-syria
[8] https://www.csis.org/programs/former-programs/warfare-irregular-threats-and-terrorism-program-archives/terrorism-backgrounders/hayat-tahrir
[9] https://www.state.gov/the-syrian-people-will-decide-the-future-of-syria/
[10] https://time.com/5240164/syria-missile-strikes-donald-trump-chemical-weapons/
[11] https://www.defenseone.com/ideas/2024/08/us-military-presence-syria-carries-substantial-risks-so-does-complete-withdrawal/398915/
Foto copertina: Post Assad: come potrebbe cambiare la strategia statunitense?