I dazi di Trump e l’incertezza sui mercati globali


L’incredibile rielezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America sta portando la politica mondiale in una situazione di incertezza senza precedenti, almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale. Altrettanto può dirsi in materia di economia e commercio. Annunci e decisioni in materia di dazi si sovrappongono in modo caotico ed è difficile comprendere i meccanismi che ne sono alla base.


Canada, Messico, Europa, paesi tradizionalmente alleati e partner commerciali privilegiati di Washington, sono finiti nel mirino di Trump, a volte con motivazioni pretestuose (come l’accusa agli Stati confinanti di favorire il contrabbando di droga), altre lamentando generici “cattivi” comportamenti (intendendo presumibilmente uno sbilanciamento nel commercio a favore dei Paesi dell’Unione europea). In un primo tempo si è ipotizzato che le minacce di dazi sulle importazioni fossero utilizzate come clava negoziale, allo scopo di imporre le proprie condizioni alle relazioni commerciali internazionali. Annunci iperbolici avrebbero costituito un’arma negoziale per mettere i Paesi “avversari” in posizione di inferiorità, tale da indurli ad accettare condizioni sfavorevoli, pur di evitare i pesanti dazi annunciati. Ora sembra però che il Presidente USA sia sinceramente convinto che i dazi doganali siano uno strumento valido per rivitalizzare la produzione nazionale e ricostruire l’industria degli Stati Uniti.

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I dazi all’importazione sono delle imposte sulle merci importate, dunque il loro effetto immediato è di costituire un’entrata per lo Stato che li impone. L’effetto indiretto è quello di costituire un’imposta compensativa (“negativa”) in favore dei produttori interni, non soggetti a dazi. Generalmente, tuttavia, lo scopo dei dazi non si esaurisce nell’aumentare le entrate fiscali, ma piuttosto nell’intento di realizzare una specifica politica economica, che è quello che Trump lascia intendere. La teoria economica, storicamente[1], ha identificato le seguenti funzioni dei dazi:

  • Ridurre il livello delle importazioni allo scopo di ridurre i disavanzi di bilancia dei pagamenti;
  • Contrastare le pratiche di dumping, ossia di beni prodotti in paesi terzi a costi inferiori;
  • Operare rappresaglie, in base al principio di reciprocità, nei confronti di misure restrittive al commercio adottate da altri paesi;
  • Proteggere settori industriali nuovi, fin quando non siano abbastanza sviluppati da poter competere con le industrie più sviluppate di altri paesi;
  • Proteggere settori “chiave”, anche in termini di sicurezza.

A detta dell’amministrazione Trump, il motivo principale dell’utilizzo dei dazi, tra vari altri, è la volontà di riequilibrare la bilancia commerciale USA, contrastando l’importazione “sleale” di numerose merci ad opera di un po’ tutti, dai vicini Canada e Messico all’Europa alla Cina, eccetera. In questo modo si intende favorire l’industria di casa, proteggendola dalla concorrenza sleale (prezzi più bassi) dell’estero e incentivandone lo sviluppo, con conseguenze positive su produzione, occupazione e crescita.
Dal punto di vista dell’analisi economica, tuttavia, i dazi non sono considerati uno strumento idoneo per riequilibrare un disavanzo commerciale. Gli squilibri nella bilancia dei pagamenti dipendono infatti da variabili macroeconomiche diverse. Per quanto concerne gli Stati Uniti, le esportazioni che vi affluiscono dal resto del mondo derivano dalla sovracapacità produttiva di Cina, Europa e alcuni paesi del Sud Globale, i cui consumi interni non assorbono interamente la produzione. La domanda interna degli USA dovrebbe pertanto essere soddisfatta dalla produzione interna: ammesso che questo avvenga, richiederà un lungo periodo di adattamento dei processi produttivi e comunque non vi è nessuna certezza che possa realizzarsi in maniera soddisfacente, soprattutto in alcuni settori.

Di fatto, l’evidenza empirica è nel senso che dazi elevati danneggiano sia chi li subisce che chi li impone, nella misura in cui finiscono inevitabilmente per essere scaricati sui consumatori che subiscono un aumento dei prezzi. In parte questo aumento dei prezzi può riorientare la domanda su prodotti locali, almeno in teoria. Nella realtà, è molto difficile orientare così selettivamente la domanda, soprattutto nella fase attuale in cui i processi di produzione si articolano, per la maggior parte delle merci manufatte, in molteplici passaggi in cui vengono trasformati o assemblati decine o centinaia (se non migliaia) di componenti provenienti da molteplici paesi diversi. Di fatto, la conseguenza dei dazi, salvo casi particolari, è generalmente un’inflazione generalizzata.

Venendo all’Europa, è vero che il surplus commerciale dell’Unione europea nei confronti degli USA è considerevole nel mercato dei beni, nell’ordine di 157 miliardi di euro nel 2023. I dazi annunciati da Trump danneggeranno sicuramente le esportazioni europee, tanto più se metteranno i Paesi europei l’uno contro l’altro al punto di mettere in discussione la competenza esclusiva in materia della Commissione europea: questo potrebbe avvenire imponendo all’Europa dazi su determinati prodotti e non su altri, ad esempio la Germania sarebbe fortemente colpita da dazi sulle auto, mentre Francia o Italia lo sarebbero da imposte sul vino, eccetera. È sorprendente, tuttavia, che le Istituzioni europee e gli stessi Stati membri non abbiano finora fatto notare che nel settore dei servizi, al contrario dei beni, i rapporti sono invertiti: è l’Ue ad essere in deficit commerciale, per circa 109 miliardi (sempre dati 2023)[2].

Sono soprattutto i servizi digitali che gli USA esportano in Europa attraverso le loro grandi corporation, in alcuni casi diremmo “impongono”, viste le aggressive e semi-monopolistiche politiche commerciali utilizzate in alcuni casi. Per il momento le autorità europee hanno adottato una politica soft, evitando ritorsioni immediate nella speranza di instaurare un dialogo che porti a un ridimensionamento della minaccia americana. In altre situazioni si direbbe una politica saggia, non convenendo a nessuno le guerre commerciali. Difficile però che tale atteggiamento funzioni nei confronti dell’amministrazione Trump, probabile invece che venga preso per conferma di debolezza. Sarebbe forse stato conveniente adottare immediatamente misure di ritorsione, contro-dazi di “reciprocità” su alcune merci che sono già stati studiati dai servizi della Commissione. Inoltre, sarebbe forse opportuno paventare forti dazi sui servizi esportati dalle big five GAFAM[3] e dalle imprese dell’impero di Elon Musk (Tesla, SpaceX), colpendo così gli interessi vivi di alcuni dei grandi finanziatori e sostenitori attivi del trumpismo.

Comunque sia, è certo che le politiche di Trump stanno avendo l’effetto di rompere i meccanismi di regolazione del commercio internazionale faticosamente costruiti nel secondo dopoguerra, in analogia del resto con il disconoscimento del multilateralismo nelle relazioni internazionali, per imporre una sua “politica di potenza” anche nelle relazioni economiche. Per intanto, il primo effetto che i dazi, annunciati o applicati, stanno avendo è generare incertezza nei mercati globali. Dunque, nelle prospettive generali di crescita. Vedremo chi se ne avvantaggerà.


Note 

[1] J. K. Galbraith, Economics in perspective, 1987.
[2] Eurostat.
[3] Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft.


Foto copertina: Trump e i dazi