Flussi finanziari illeciti e sfruttamento del lavoro in un contesto di povertà e fragilità strutturale.
Si è assistito negli ultimi anni ad una marcata presenza delle multinazionali in Africa; la pandemia ha maggiormente accentuato la necessità di una regolamentazione delle imprese in riferimento alla sfera dei diritti umani.
Annualmente un flusso enorme di denaro, quasi 90 miliardi di dollari (75,8 miliardi di euro) lascia l’Africa a favore delle casse delle multinazionali.
L’Economic Development in Africa Report 2020 dell’Unctad ha posto in essere una denuncia pari alla somma degli investimenti diretti esteri e degli aiuti allo sviluppo che ogni anno arrivano nel continente. “Il tema dei flussi finanziari illeciti è al centro dell’agenda internazionale”.
La dichiarazione congiunta invita la comunità internazionale a unirsi contro “riciclaggio di denaro, evasione fiscale e corruzione internazionale che costituiscono la maggior parte delle attività finanziarie illecite in Africa”.[1]
Per massimizzare profitti, diverse multinazionali si sono rese responsabili della violazione dei diritti fondamentali dei lavoratori e dei principi internazionali sulla salvaguardia dell’ambiente: uso di manodopera infantile, condizioni igieniche e di sicurezza inappropriate, territori sistematicamente usurpati anche con atti di violenza tramite l’utilizzo di agenti di sicurezza privata, danni ambientali. [2]
La violazione dei diritti umani, della due diligence e della corporate liability si accompagnano a meccanismi di elusione fiscale, le cosiddette pratiche Beps (Base erosion and profit shifting).
Ben 40 miliardi di dollari fanno capo al settore delle materie prime, in particolare quello dell’oro. In questo caso i sistemi usati sono soprattutto due: il contrabbando, da una parte, e la sotto-fatturazione di ciò che viene esportato, dall’altra.
Public Eye aveva svelato un altro meccanismo che consentiva alle multinazionali di risparmiare in tasse: l’oro trovato nelle miniere artigianali del Burkina Faso, prima di finire in Svizzera passa per il Togo, dove le tasse sono di fatto inesistenti.[3]
Le grandi aziende presenti sul territorio africano sfruttano la debolezza dell’apparato giuridico e la corruzione; le normative di “soft law” quali Codici di Condotta o linee guida delle organizzazioni internazionali non hanno un carattere vincolante.
Il rapporto del 2021 di Amnesty International ha constatato l’intensificarsi dell’instabilità politica, sociale nonché l’aumento delle disuguaglianze.
Un caso rilevante nella narrazione africana è quello della Repubblica democratica del Congo, indispensabile alle multinazionali del tech per le miniere di cobalto, usato per le batterie in litio.
Un buon riassunto della posizione della compagnia in tema di responsabilità sociale è rappresentato da quanto successo nel 2018, quando il governo congolese nell’ambito della riforma del Codice Minerario aveva preteso un aumento sulle tasse di esportazione dei minerali strategicamente più importanti, ovvero coltan e cobalto, dal 2% al 10%. Glencore sospese le attività della miniera di Mutanda, la più grande fonte di approvvigionamento di coltan al mondo, lasciando a casa tutti i lavoratori.
Altra considerazione riguarda la presenza costante di multinazionale di birrifici.
Lentamente, ma con costanza, in diversi Paesi africani sta emergendo una classe media urbana che, per la gioia dei produttori, trae buona parte del suo nuovo status sociale dal consumo di birra chiara. E questo rappresenta ben più che la semplice promessa di un avvenire d’oro: Heineken lo sa meglio di chiunque altro. Qui la birra frutta quasi il 50% più che altrove, e alcuni mercati, come la Nigeria, sono tra i più lucrativi al mondo.
La Sierra Leone ha mostrato fino a che punto un Paese e il suo mercato interno della birra possano essere vulnerabili. Dopo una lunga ed estenuante guerra civile, questo Stato costiero dell’Africa occidentale stava attraversando una fase di notevole crescita, quando è scoppiata la più grave epidemia di ebola della storia.
Inoltre la decolonizzazione, i problemi strutturali, il clientelismo e il nepotismo fanno da background a sfruttamento e lavoro precario. L’epidemia di Coronavirus ha esacerbato la situazione, eppure le unions africane stanno cominciando ad affrontare la necessità di ricalibrare le priorità nella gestione della salute e della sicurezza sul lavoro.
In un nuovo rapporto pubblicato sul Qatar, Amnesty International ha dichiarato che gli addetti alla sicurezza sono impiegati in condizioni che equivalgono al lavoro forzato, anche in attività legate ai Mondiali di calcio del 2022. Il rapporto, intitolato “Pensano che siamo delle macchine”, si è basato sulle testimonianze di 34 addetti o ex addetti alla sicurezza, tutti lavoratori migranti, di otto agenzie private.[4]
Note
[1] Tackling Illicit Financial Flows for Sustainable Development in Africa, 2020.
[2] Available on https://www.retesicomoro.it/lotta-contro-multinazionali-per-rispetto-diritti-umani/
[3] Available on https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/multinazionali
[4] Available on https://www.amnesty.it/qatar-rapporto-sul-lavoro-forzato-nel-settore-della-sicurezza-privata/
Foto copertina: Miniere utili alle multinazionali in Africa