Myanmar: uno sguardo al futuro


Analisi delle svolte socio-politiche che coinvolsero il paese nel recente passato. Uno sguardo in dietro per comprendere al meglio l’oggi. Intervista a Massimo Morello


Eccoci giunti al termine di una serie di articoli riguardanti le svolte politiche in Myanmar post-2011, abbiamo ritenuto saggio interpellare un esperto riguardo le prospettive attuali e future.  Massimo Morello già nostro ospite in qualità di profondo conoscitore del paese che frequenta da oltre vent’anni, giornalista, corrispondente dal Sud-est asiatico per il Foglio, ci aiuta a fare chiarezza sui possibili scenari concernenti la popolazione birmana, vessata da una guerra civile iniziata il 1 febbraio 2021.

Tenendo in considerazione il velato odio che Cina e l’India mostrano per la popolazione musulmana residente nei loro rispettivi paesi – pensiamo alla questione Uigura nella regione dello Xinjiang cinese ed alla politica assertiva intrapresa contro la popolazione musulmana da parte del Janata Party del Primo Ministro Modi. Alla luce del fatto che entrambe le potenze regionali posseggono interessi economici nei porti commerciali di Sittwe, per l’India, e di Kayak Phyu per la Cina. L’odio, e la persecuzione etnica perpetrata dal Tatmadaw verso la minoranza musulmana dello Stato del Rakine può essere legata all’importanza geo-strategica del territorio per il commercio internazionale?
“Il Rakine è importate per i cinesi solamente perché è situato sul golfo del Bengala, non per altro. Ai cinesi interessa avere il controllo di quel pezzo del golfo perché è il terminale dei gasdotti e degli oleodotti provenienti dal Medioriente. Inoltre in quel tratto di oceano vi sono allocate importanti risorse di gas. È una situazione legata soprattutto al commercio. Per tanto i cinesi non gradiscono guerre e conflitti nell’area, anche se a loro non interessa assolutamente nulla dei Rohingya, il loro è un calcolo economico. I cinesi quindi desidererebbero un Rakine tranquillo perché non vorrebbero mettere a rischio le loro linee di comunicazione ed i loro gasdotti. I cinesi inoltre non sono anti-islamici ma anti-uiguri. Gli Uiguri li infastidiscono perché chiedono l’autonomia, non perché musulmani, anche se non bisogna dimenticarsi che la Cina è sostanzialmente uno Stato ateo. Vengono soprattutto infastiditi da chiunque voglia sottrarre loro pezzi di quel territorio che riconoscono come il Millenario Impero.  I Rohingya sono stati perseguitati dai birmani, e lo sono tutt’ora, ma non in quanto musulmani. Questo dimostrato dal fatto che la minoranza musulmana Rohingya, pre-crisi 2011, era stata accettata socialmente. Il centro storico di Yangoon è disseminato di moschee, uno dei più grandi mercati del centro ha origini arabe. Si riduce tutto ad una guerra tra poteri. I Rohingya vengono considerati illigal migrants dal Bangladesh, che in parte può essere considerato vero. Ai tempi dell’Impero britannico si aveva necessità di lavoratori per l’industria tessile creata in loco – in Myanmar – che vennero individuati nei Rohingya provenienti dal Bangladesh. Successivamente, nel 1948/’49 fino agli anni ’60, il Myanmar si dimostrò essere uno dei paesi del sudest asiatico più ricchi. L’università di Yangoon era la più prestigiosa del sud est esastico, il presidente dell’ONU birmano. Quindi continuarono ad arrivare dal Bangladesh molti migranti economici. Va aggiunto come i musulmani del Rakine siano assolutamente poco permeabili. Gli arakanesi non permettono agli altri di comprare nei loro negozi o di far compiere matrimoni misti. Lo scontro religioso è ancor più forte che tra cristiani e islamici perché mentre cristianesimo e islam sono due religioni monoteiste qui lo scontro è estremamente religioso. Il buddismo ha una fede duttile che risulta incompressibile al rigorismo musulmano. Per i musulmani, Rohingya buddisti e affini, non seguono il Libro e sono quindi idolatri allo stato puro.”.

È possibile che la posizione politica di Aung San Suu Kyi sia stata forzata, da parte del Tatmadaw, verso la persecuzione Rohingya intercorsa tra il 2016 – ’17 secondo un calcolo machiavellico che l’avrebbe portata, de facto, a perdere l’appoggio internazionale?
Lei non voleva diventare una “Che Guevara”. Voleva proseguire il cammino del padre e portare il paese nella contemporaneità. Era una politica che stava facendo un lavoro fenomenale. Tra il 2012 – ’13 ad oggi ha fatto ha portato il paese dal medioevo al mondo contemporaneo. Creando uno sviluppo economico enorme considerando il punto di partenza. L’accusa internazionale ed interna è che non si sia battuta a sufficienza per i Rohingya. In parte può essere considerato vero, anche se va visto e considerato come l’ala ultra-nazionalista dei monaci buddisti guidati da Shindi Ratu, e come lui altri, avevano spinto a non votare Aung considerandola una traditrice dello spirito nazionale buddista. Era stata lei ad invitare la commissione dell’ONU ad indagare su quanto stesse accadendo in Rakine.
Dopodiché si trovava di fronte un paese che non ama particolarmente i Rohingya. La più stretta collaboratrice di Aung, un’arakanese che per anni è stata accanto alla leader, si è allontana perché la accusava di non essere abbastanza dura nei confronti dei Rohingya. Cioè all’interno del Rakine la popolazione buddista è totalmente contraria ad Aung San Suu Kyi perché la leader non è certamente della linea “l’unico Rohingya buono è quello morto”- inteso per quelli musulmani.
Chiaro che non si sia spinta oltre ad un certo limite perché in una situazione di politica instabile con una Costituzione favoreggiante la Giunta militare, esporsi avrebbe significato offrire ai militari la propria testa. Tuttavia dal momento in cui in occidente si è scatenata una campagna di delegittimazione totale, lei è stata una semplice vittima. Non si sono avute manifestazioni pro-Aung, da parte degli stessi che le volevano togliere i riconoscimenti internazionali, senza nemmeno aver messo piede in Birmania e senza conoscere la situazione in loco. I Rohingya sono delle vittime, su questo non vi è dubbio, però è altrettanto vero che sono stati utilizzati come pretesti. Nel frattempo si erano create anche delle milizie pro-Rohingya i cui capi però provenivano dal Pakistan. In un momento in cui era presente un progetto di Stato Islamico del sudest asiatico. Che sarebbe partito dal Bangladesh per arrivare fino in Indonesia, collegando i movimenti della Jamal-Islamica fino a Jakarta. Gli intellettuali occidentali che discutevano dei Rohingya non si rendevano conto di essere essi stessi parte di qualcosa che non capivano e che fondamentalmente non gli interessava.”.


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Nel terzo capitolo della pubblicazione ho affrontato la crescita economica del paese a seguito della riforma costituzionale del 2011. Ne è venuto fuori uno studio sulla vivace economia legata soprattutto alle esportazioni ed all’ingresso di capitali asiatici nel mercato nazionale. Tuttavia l’economia più redditizia del paese, la stessa alla quale sono legate le big-Holding controllate dal Tatmadaw e dai cui la Giunta trae la forza economica, è costituita dall’esportazione di giada e oppio nel mercato nero. Dove finiscono questi prodotti?
“Il Rakine è un corridoio per le metanfetamine, la droga dei poveri. Il più grande mercato è il Bangladesh dove i lavoratori sfruttati, che cercano di lavorare il più possibile, costituiscono il mercato maggiore.
La giada è acquistata dai cinesi in forma quasi maniacale. È un porta fortuna, un afrodisiaco ed un gioiello desiderato. La zona delle miniere di giada è situata nello Stato Shan che si trova a nord della Tailandia. Area fondamentalmente già controllata da Pechino. Inoltre tutte le norme sul lavoro che Aung stava per varare, non sono state approvate.
Il mercato dell’oppio è il mondo,
e coinvolge tutte le mafie del mondo. L’oppio viene prodotto nel nord, nel triangolo d’oro. I tailandesi possono fare da intermediari, come le triadi cinesi. La giada è interessante per i cinesi ma non per il governo. Ci sono tycoon cinesi che gestiscono l’estrazione senza curarsi della legislazione o delle condizioni lavorative dei lavoratori birmani. Se le miniere sono in mano ai militari, così non si può dire del traffico di oppio e metanfetamine che è in mano a molti gruppi etnici che poi si regolano con il Governo. Le milizie sono narco-milizie degli stati etnici che già posseggono una loro autonomia. Ora si è aperto un nuovo mercato perché si è scoperto che il Bangladesh è potenzialmente un consumatore enorme di metanfetamine ed il Rakine risulterebbe essere ottimo corridoio di esportazione della materia proveniente dallo stato Kachin.”.

 Tra il Tatmadaw e la Cina scorre buon sangue, testimoniato dai forti investimi cinesi a inizio 2010 in colossali progetti infrastrutturali, poi sospesi a seguito delle elezioni del 2011. È possibile che ci sia lo zampino cinese dietro al golpe che li ha portati al potere? 
“Ai cinsi il golpe non ha fatto comodo, non sono stati loro a volerlo. Pochi giorni prima che ci fosse il golpe Aung era andata a Pechino dove aveva siglato una trentina di accordi commerciali con i cinesi per svariati miliardi di dollari. Questo perché essendo stata messa all’angolo dall’occidente per la questione dei Rohingya l’unica sponda che trovava era Pechino. Per i dirigenti cinesi oggi, che non sono delle guardie rosse, era molto più semplice trattare con Aung. Parlavano la stessa lingua e possedevano la stessa cultura di base. Sì, le concedevano qualcosa in termini di leggi sul lavoro che ai cinesi facevano meno comodo sotto un profilo economico; vi erano concessioni sulle dighe sulle quali avrebbero voluto avere mano libera nelle costruzioni. Ma, man mano, Aung stava facendo loro sempre più forti concessioni perché non aveva altri interlocutori. Lei offriva, teoricamente, una stabilità al paese che si conforma all’idea cinese di programmi a lungo termine. I cinesi non si sarebbero mai messi in una situazione che prevedibilmente sarebbe diventata quello che è. Una Birmania nella quale è necessario trattare con 100 interlocutori piuttosto che con uno solo. Per loro Aung era assolutamente un interlocutore privilegiato, volevano una Birmania che si arricchisse perché sarebbe diventato un mercato interessante. Quindi non avevano alcun interesse a quello che è successo. Tant’è che nei primi tempi i cinesi erano gli unici considerati in grado di rovesciare la situazione attuale e riportare pace. Per il momento grazie alla loro pragmaticità preferiscono stare fermi e farsi andare bene languida del NUG.  I cinesi trattano un po’ con tutti, il Tatmadaw ed il NUG. Restano a guardare. Che loro siano tra i mandanti mi sento di escluderlo nella maniera più totale. Molto probabilmente loro sono stati molto disturbati da quello che è successo perché era importate la stabilizzazione dell’area proprio per tutti gli interessi che posseggono in zona. La Birmania è il punto di passaggio per l’Oceano indiano  l’instabilità non è ottimale. Questi accadimenti rallentano tutti i progetti sulla Belt and Road. Adesso la fornitura di beni e mezzi è in mano ai signori locali.”.

La Cina non ha mai svolto operazioni militari all’estero, fatta eccezione per qualche missione di Peacekeeping in Africa. Potrebbe il conflitto birmano rappresentare il primo vero terreno di applicazioni per il People Liberation Army?
“Non è un divide et impera. I cinsi non hanno fatto nulla per implementare l’odio etnico. I birmani si sono divisi per conto loro. Ai cinesi non interessava la situazione che si è creata perché de facto va contro l’interesse cinese. Per loro è più interessante un contesto unito, controllato e più facilmente controllabile. Che non una Birmania divisa in fazioni ed eserciti etnici che possono ricattarli di interrompere i gasdotti o fare danni collaterali. La Cina ragiona in termini imperiali, non usa il divide et impera, e se lo fa lo attua tra stati. Più interessante risulterebbe dividere l’ASEAN, ma non la Birmania.
Che attacchino il paese militarmente tendo ad escluderlo perché la Cina non interviene militarmente, o per lo meno non lo ha mai fatto. Soprattutto in un territorio che lei non considera parte dell’impero cinese. I cinesi si sono sempre vantati di non essere degli imperialisti, gli unici paesi che hanno invaso sono stati il Tibet, Hong Kong e nel ’79 il nord del Vietnam nel quale centrava anche la Cambogia. Si spera che la ricongiunzione tra Taiwan e Cina avvenga pacificamente. In questo caso a loro non interessa, avrebbero fatto molto prima ad alimentare un’etnia piuttosto che un’altra. Ciò che gli interessa è la parte centrale del paese dove passano i gasdotti e funge da collegamento verso i porti. Poi le miniere di giada ed il resto sono un elemento secondario, sotto gli occhi di qualche signore della droga. La fascia centrale è controllata dai militari. In questo momento debbono cercare di far contenti i militari ed allo stesso tempo tenersi buone le etnie. Per questo la situazione é particolarmente scomoda. Sanno che nessuno si rivolterà contro di loro, alimentano entrambi i fronti ed osservano l’equilibrio. Quando noteranno uno sbilanciamento, allora sposteranno tutti i loro investimenti sul potenziale vincitore. In questo momento per i militari le prospettive non sono molto rosee. Anche l’opposizione non è che sia messa così bene.”.

Perché il Tatmadaw ha così tanta paura della Leader Aung? Anche se le sue riforme economiche non prospettavano alcuna distribuzione della ricchezza ma un’apertura dell’economia di stampo liberale che avrebbe permesso l’afflusso di nuovi capitali, un’opportunità per gli investitori cinesi. Il Tatmadaw, tramite le sue holding di Stato, temeva di perdere il peso economico interno?
“Aung promosse una condanna molto tiepida verso le persecuzioni Rohingya perché metteva davanti quello che per lei era il bene del paese. La chiamavano la leader de facto della Birmania ma questo è un errore clamoroso, lei era la leader del suo partito ma non del paese. Con la Costituzione del 2008, che il Tatmadaw si era costruito da solo, i militari potevano rovesciare il Governo quando volevano. Difatti il colpo di Stato che è avvenuto tutto sommato non può considerarsi un colpo di stato. È stata una manovra costituzionale perché è la stessa Costituzione a prevedere che il parlamento possa essere sciolto nel momento in cui si dichiari uno Stato di emergenza. Che solamente il comandate di Tatmadaw poteva dichiarare. I reazionari hanno applicato la Costituzione. Nel momento in cui Aung San Suu Kyi doveva gestire il paese in una situazione di questo genere, avendo il Ministero degli interni – affari esteri – ecc. in mano ai militari, si ritrovò le mani legate. L’errore di Aung può intravedersi nel fatto che dopo le elezioni del 2019, con una vittoria sbalorditiva ottenuta alle urne. Forse in quel momento grazie all’elevato supporto popolare avrebbe potuto modificare la Costituzione diventando effettivamente la leader del paese. I militari terrorizzati dai risultati, per paura che succedesse ciò, e che venissero messe in campo una serie di politiche avverse ai contratti stipulati dalle Holding del Tatmadaw, hanno agito di prevenzione. La base del colpo di stato si trova nella paura da parte dei militari di perdere potere. Io sono abbastanza convinto che se la vittoria non fosse stata così schiacciante non si avrebbe avuto una situazione tale. Perdere potere significava perdere denaro, i militari hanno instaurato una cleptocrazia.”.


Foto copertina: Bandiera del Myanmar, wikipedia